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Categoria: Contrattualistica

Hai mai sentito parlare di dropshipping? Si tratta di un particolare modello di business che ti consente, con alcuni piccoli accorgimenti, di fare buoni profitti, con pochissime spese.

Come funziona?

Il dropshipping è un metodo di vendita applicabile all’e-commerce, grazie al quale è possibile vendere un prodotto online senza averlo materialmente in magazzino. Anzi, senza avere il magazzino!

Nessun magazzino… com’è possibile?

Ebbene sì, il venditore non acquista la merce dal fornitore, ma si limita a proporla al pubblico per il tramite del proprio e-commerce. Non appena il venditore riceve l’ordine del cliente, lo trasmette al fornitore, il quale si occupa dell’imballaggio e della spedizione del prodotto direttamente all’acquirente. Semplice, no? Naturalmente, tutto questo è reso possibile da apposito accordo commerciale, regolante i rapporti tra venditore e fornire in un’ottica di mutuo vantaggio.

Caratteristiche dell’accordo commerciale

Se prima di questo articolo non avevi mai sentito nominare il dropshipping, è perché si tratta di un modello di vendita di recente invenzione. Per tale ragione, il contratto di dropshipping non presenta alcuna normativa codicistica di riferimento, salvo le regole generali sui contratti, di cui al nostro codice civile. Va però messo in luce come si tratti pur sempre di una modalità di commercio elettronico, la quale non può che essere regolamentata dal D.Lgs. 70/2003, rubricato “attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico“. Tale normativa impone al venditore una serie composita di obblighi, già descritti in questo nostro precedente articolo. Ad ogni buon conto, come in tutti i rapporti commerciali, è essenziale definire precipuamente quali sono i diritti e i doveri delle parti del contratto, ossia, nel caso di specie, del merchant e del fornitore.

Obblighi del fornitore

L’accordo commerciale deve necessariamente prevedere che il fornitore si impegni a:

  1. Garantire la disponibilità in magazzino dei beni pubblicizzati nell’e-commerce dal merchant, avvisandolo prontamente qualora un prodotto risulti esaurito;
  2. Curare la logistica del magazzino, ovverosia il flusso delle merci in entrata e in uscita;
  3. Curare l’imballaggio dei beni ordinati ed acquistati dal cliente finale, tramite il sito del merchant. Le caratteristiche del packaging devono essere descritte nel contratto o in un suo allegato tecnico;
  4. Garantire che la merce in magazzino soddisfi pienamente i requisiti di sicurezza previsti dalle normative vigenti e siano conformi alle stesse;
  5. Spedire la merce ordinata, nei termini e con le modalità indicate nel contratto, direttamente all’acquirente finale.

Obblighi del venditore

Parimenti, l’accordo commerciale deve stabilire che il merchant si impegni a:

  1. Promuovere nel proprio e-commerce i prodotti del fornitore;
  2. Curare la gestione degli ordini. Si specifica, tuttavia, che dovrebbe essere il fornitore ad inviare ai clienti una notifica via e-mail non appena l’ordine va in consegna;
  3. Curare il flusso dei pagamenti, ed in particolare, corrispondere al fornitore le somme pattuite nel contratto.

Quindi, chi paga chi?

All’interno dell’accordo commerciale è necessario che sia descritto il flusso dei pagamenti, con chiara indicazione delle modalità con cui il merchant corrisponde al fornitore le somme stabilite. Si specifica infatti che il cliente paga il prezzo del prodotto acquistato direttamente al venditore, tramite l’e-commerce. Quest’ultimo trattiene sulla somma incassata una percentuale per i servizi dal medesimo svolti, e trasmette l’importo rimanente al fornitore, a titolo di corrispettivo per le attività effettuate.

È opportuno che nel contratto sia previsto che il merchant corrisponda mensilmente le somme dovute al fornitore. In questo modo, qualora il cliente finale eserciti il diritto di recesso e sia necessario restituire le somme dallo stesso versate, il venditore, non avendo ancora pagato il fornitore, non si troverà a dover sborsare di tasca propria le somme in questione.

Chi è responsabile nei confronti del cliente finale?

La responsabilità per eventuali vizi, non conformità, o danni causati dai prodotti acquistati dal cliente è una tematica davvero spinosa. È essenziale che nel contratto sia inserita apposita clausola di manleva, con cui il fornitore si impegna a tenere indenne il venditore da qualsivoglia danno cagionato a persone e/o cose derivante dai prodotti dallo stesso forniti.

Consigli pratici

Se sei arrivato fino a qui, dovrebbe esserti chiaro che il dropshipping è davvero un business innovativo e ricco di potenzialità economicamente allettanti. Tuttavia, avrai anche capito che, per tutelare la tua posizione, è essenziale che i rapporti con il fornitore da te scelto siano disciplinati da apposito contratto scritto. Per la redazione dello stesso, ti consigliamo di rivolgerti sempre ad un esperto del settore: saprà come proteggere al meglio i tuoi interessi, scongiurando il rischio di fraintendimenti con il fornitore, che nel peggiore dei casi si traducono in annose controversie giudiziali.

In caso di dubbi o perplessità, non avere remore a contattare lo Studio Legale Soccol.

In questi giorni si è sentito molto parlare della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nella causa C-311/18 (c.d. caso Schrems II), la quale ha sollevato alcune criticità sia per chi, come noi, si occupa di privacy, sia per tutte le aziende che si avvalgono di fornitori di software o di altri servizi che sono localizzati negli Stati Uniti.

Occorre premettere che non c’è motivo di allarmarsi, tuttavia per poter continuare ad utilizzare i servizi di fornitori extra UE si richiedono nuovi adempimenti da parte sia delle aziende che trattano dati personali sia dei DPO, alla luce della recente sentenza.

Il caso

Nello specifico, nel caso giudicato dalla Corte di giustizia, il sig. Schrems aveva sollevato dubbi circa la validità della decisione con cui la Commissione europea aveva stabilito che il rispetto, da parte di soggetti localizzati negli Stati Uniti, delle misure indicate nel c.d. Privacy Shield USA-UE, e quindi l’adesione allo stesso, costituiva una condizione sufficiente per garantire che i dati personali ricevessero una tutela sostanzialmente equivalente a quella prevista all’interno dell’Unione Europea, in forza del Regolamento sulla protezione dei dati (“GDPR”) e delle normative nazionali di attuazione.

La Corte di giustizia, nella sua sentenza, ha ritenuto invalida la suddetta decisione e ne ha determinato l’immediata cessazione dell’efficacia.

I motivi della sentenza.

Il motivo di questa decisione è rappresentato principalmente dal fatto che i dati dei cittadini europei non risultano sufficientemente tutelati negli Stati Uniti perché manca un’autorità indipendente a cui rivolgersi per eventuali reclami. Inoltre, i dati conservati negli Stati Uniti, a chiunque appartenenti, risultano accessibili alle autorità governative del Paese, senza possibilità per l’interessato di opporvisi.

Le Clausola Contrattuali Standard

Nella stessa sentenza, la Corte ha approfondito anche il tema della validità delle c.d. Clausole Contrattuali Standard (“SCC”), approvate dalla Commissione europea per mezzo di un’altra decisione, che pure era stata impugnata dal sig. Schrems. La Commissione europea ha infatti il potere di stabilire se determinati gruppi di clausole contrattuali offrono, o meno, sufficienti garanzie di tutela dei dati che vengono trasferiti al di fuori dell’Unione Europea. A tale riguardo, da una parte, la Corte ha confermato la validità delle clausole già approvate dalla Commissione e quindi le stesse, se inserite nel contratto tra “esportatore” ed “importatore” dei dati, sono teoricamente idonee a legittimare un trasferimento di dati all’estero (si intende: al di fuori dell’Unione Europea). D’altra parte, la Corte ha richiamato l’attenzione sul fatto che l’idoneità delle stesse SCC a legittimare il trasferimento dei dati non può essere riconosciuta in modo automatico, ma deve essere valutata caso per caso. In base alle caratteristiche dell’ “importatore” e allo Stato in cui si trova, potrebbe infatti essere necessario integrare le stesse con ulteriori clausole contrattuali, oppure prevedere l’adozione di ulteriori misure di sicurezza, affinché il livello di tutela dei dati sia davvero “sostanzialmente equivalente” a quello riconosciuto all’interno dell’Unione Europea.

Impatto sulle attività imprenditoriali

Passando al concreto impatto di questa decisione della Corte di giustizia sulle attività imprenditoriali, si deve notare, ad esempio, che l’utilizzo di servizi di Google comporta il trasferimento dei dati personali trattati anche negli Stati Uniti. Fino alla sentenza in oggetto, il trasferimento poteva avvenire legittimamente, a condizione che l’interessato (cioè la persona fisica a cui siano riferibili i dati personali) ne fosse informato. Google, infatti, dichiarava di aderire al Privacy Shield USA – UE e in quanto tale avrebbe dovuto offrire garanzie sufficienti per la protezione dei dati. Ora invece, per poter continuare ad usufruire dei servizi di Google, o di Microsoft, o di tanti altri fornitori di software (ma non solo) che trattano i dati negli Stati Uniti, sarà necessario trovare altre basi giuridiche che legittimino il trasferimento.

A tale proposito, il GDPR ne indica diverse:

• la sussistenza di decisioni di adeguatezza agli standard europei in materia di protezione dei dati personali (ad oggi, riguardano i seguenti Paesi: Andorra, Argentina, Canada, Isole Faroe, Guernsey, Israel, Isle of Man, Japan, Jersey, New Zealand, Switzerland, Uruguay) (v. art. 45 GDPR). Le Autorità Garanti europee auspicano di pervenire ad una decisione di adeguatezza anche per gli Stati Uniti, ma la strada da percorrere sarà molto lunga;

• le Clausole Contrattuali Standard adottate dalla Commissione Europea (c.d. “SCC”) (per cui si veda sopra);

le norme vincolanti d’impresa (c.d. Binding Corporate Rules), che però sono utilizzabili solo per i trasferimenti infragruppo, in grandi gruppi multinazionali, e che devono essere negoziate con le Autorità Garanti;

• le clausole contrattuali adottate dalle singole autorità di controllo, nella cui redazione però l’Autorità Garante italiana è in ritardo rispetto ad altre autorità europee;

• l’adesione, da parte dell’importatore extra UE, ad un codice di condotta o ad un meccanismo di certificazione, unitamente all’impegno dello stesso di applicare garanzie adeguate.

In mancanza di una decisione di adeguatezza o di una delle garanzie adeguate sopra elencate (v. art. 46 GDPR), il trasferimento di dati personali verso un Paese terzo o un’organizzazione internazionale può essere comunque ammesso, ma deve essere:

basato sul conferimento, da parte dell’interessato, dell’esplicito consenso al trasferimento proposto, e lo stesso deve essere stato informato dei possibili rischi che siffatti trasferimenti comportano, oppure

motivato dalla necessità di dare esecuzione ad un contratto concluso tra l’interessato ed il titolare del trattamento, ovvero all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su istanza dell’interessato, oppure

un trasferimento temporaneo, che riguarda pochi interessati e che si fonda su un interesse legittimo cogente dell’esportatore (v. art. 49 GDPR).

Le soluzioni

Le soluzioni che al momento risultano perseguibili sono quindi quelle della verifica dell’adesione, da parte dei fornitori extra UE, a meccanismi di certificazione (es. ISO) e/o l’ottenimento del consenso dell’interessato. Le ulteriori deroghe previste dall’art. 49 GDPR riguardano invece trasferimenti per interesse pubblico, per la tutela di interessi vitali, riguardanti dati giudiziari oppure provenienti da registri pubblici.

In ogni caso, occorrerà attendere una presa di posizione da parte dei fornitori di servizi, che in realtà sono gli unici che possono garantire l’assoluto rispetto del livello di tutela dei dati previsto dal GDPR. Questo vale sia per le società estere che aderivano al Privacy Shield, sia per quelle localizzate in altri Paesi del mondo, alla luce dei richiami operati dalla Corte di giustizia in merito all’uso delle SCC.

Adempimenti necessari

Risulta pertanto necessario revisionare tutte le informative privacy, al fine di inserire maggiori informazioni circa i dati che possono essere trasferiti all’estero, il luogo in cui vengono trasferiti e le garanzie di tutela di cui godono. Le stesse dovranno essere poi portate a conoscenza degli interessati. Anche i Registri del Titolare o del Responsabile del trattamento dovranno essere di conseguenza aggiornati.

Lo Studio è sempre a vostra disposizione per garantire l’adeguamento della vostra attività rispetto a tutte le più recenti pronunce e normative.

Nella situazione emergenziale dovuta al Covid-19, si è parlato tanto di app di tracciamento. Lo abbiamo fatto anche noi qui. Le medesime hanno attirato molto l’attenzione per la rilevanza dei dati che devono raccogliere e trasmettere; di conseguenza, molto ci si è interrogati circa la loro conformità alle normative in materia di privacy. Lungi dall’essere una scoperta degli ultimi mesi, in realtà le app di tracciamento sono diffuse da una decina di anni in tutto il mondo. E non si può dire che non abbiano anche raccolto dati “sensibili” dei loro utenti. Ci riferiamo in particolare a quella categoria di app che sono definite “family tracker”.

Vediamo quindi come le società sviluppatrici di queste app hanno cercato di realizzare prodotti redditizi, ma allo stesso tempo conformi alle leggi applicabili.

Prendiamo ad esempio due delle app più conosciute nel settore, Life360 e Find My Kids.

Il family tracking

Life360, direttamente dalla California, si descrive come “localizzatore” per la famiglia, che permette di vedere su una mappa privata la posizione dei membri di un “gruppo”, di chattare con essi e di ricevere diversi tipi di notifiche in relazione agli spostamenti degli altri soggetti.

Find My Kids, invece, è stata sviluppata in Russia ed offre un sistema di monitoraggio per famiglie, per garantire la sicurezza dei bambini ed il controllo da parte dei genitori, tramite l’installazione di due diverse app, rispettivamente sul telefono del genitore e del figlio. L’app può interagire anche con orologi GPS.

Alcuni dei dati che queste app raccolgono sono, ad esempio, oltre ad i dati identificativi e al numero di cellulare, la localizzazione, registrazioni di suoni, foto, siti consultati e dati statistici sulle modalità d’uso degli smartphone.

Quali sono quindi i requisiti da rispettare quando si sviluppano app simili, e cosa bisogna controllare come utenti?

Innanzitutto, se l’app si rivolge ad un mercato di utenti che potenzialmente si estende al mondo intero, si complica il requisito della conformità alle molteplici normative nazionali applicabili. Mentre è tutto più semplice se si progetta di destinare l’app ad un uso solo all’interno dell’Unione Europea.

Localizzazione dei server e trasferimento dei dati

Un aspetto fondamentale, ma spesso trascurato nelle informative privacy delle app, come si verifica per Find My Kids, è quello dell’indicazione della localizzazione dei server della società fornitrice e della previsione, o meno, del trasferimento dei dati a soggetti stabiliti in Paesi terzi. L’utente dovrebbe infatti essere informato di queste circostanze, perché i Paesi in cui sono conservati i suoi dati potrebbero garantire un livello minore di protezione.

Diritti degli utenti interessati

Si mette inoltre in evidenza che le leggi degli Stati attribuiscono di per sé diritti ai singoli individui, che, in quanto fondamentali, non sono rinunciabili tramite contratti stipulati con altri soggetti. Nel settore delle app bisogna considerare l’esistenza di questi diritti, al fine di garantirne l’esercizio effettivo agli utenti. Si rischia altrimenti di ostacolare l’esercizio di diritti anche fondamentali e di causare danni inestimabili. Occorre quindi adottare misure di sicurezza e procedure tecniche che permettano, ad esempio, la correzione dei dati personali raccolti, la loro cancellazione, l’accesso agli stessi e la loro portabilità. Se si implementano tali misure, è necessario informare l’utente del modo in cui può servirsene. Questo è un elemento che, per esempio, manca, nella privacy policy di Find My Kids, dove è assente qualsiasi riferimento al diritto di accesso ai dati, al diritto alla loro portabilità o al diritto di rettifica.

App per minori

Se si sceglie poi di sviluppare un’app destinata appositamente ad essere utilizzata da soggetti minori, le cautele da richiamare si moltiplicano. Qualsiasi consenso, ad esempio, non è valido se fornito dal minore stesso ed il fornitore dell’app deve essere in grado di dimostrare di averlo legittimamente raccolto dai genitori. In realtà, il riferimento andrebbe più correttamente fatto non alla minore età, bensì all’età richiesta per esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali, che varia da Stato a Stato, anche a livello europeo (dove però non può mai essere inferiore ai 13 anni).

È in ogni caso consigliabile ridurre al minimo la raccolta di dati di minori, ad esempio consentendo la creazione di avatar, ed evitare l’utilizzo degli stessi a scopi marketing.

Le app Life360 e Find My Kids prevedono a tale scopo che i genitori possano esprimere il consenso al trattamento dei dati dei figli, tramite la compilazione di un modulo reperibile online e che deve essere poi inviato alla società.

Non bisogna tuttavia dimenticare che la protezione dei dati personali è solo uno degli aspetti da valutare quando si progettano app estremamente “invasive” per la vita degli individui. Si pensi solo, ad esempio, all’ipotesi che un’app per il family tracking sia utilizzata da un genitore violento o che abusi (anche emotivamente) dei figli.  O ai pericoli che si correrebbero qualora lo smartphone con l’app suddetta finisse nelle mani di un soggetto malintenzionato.

I dati raccolti tramite queste app possono essere venduti a soggetti terzi?

Allo scopo di valorizzare le app come prodotti commerciali, a molti potrebbe venire la forte tentazione di rivendere a terzi i numerosissimi e preziosissimi dati che esse raccolgono. In questo caso, è necessario ottenere apposito consenso dagli utenti. Ad esempio, Life360 raccoglie i dati sull’esperienza di guida degli utenti e li cede ad una società di analisi dati, che elabora statistiche per conto di società assicuratrici o di altri soggetti interessati. Tuttavia, la medesima informa di questo trattamento l’utente, che può scegliere di negare il consenso a tale ulteriore utilizzo dei propri dati.

Profilazione e marketing

Parimenti, molte società potrebbero decidere di intraprendere una profilazione massiva degli utenti, per rivolgere loro una pubblicità personalizzata. Per usare i dati raccolti anche per finalità di marketing, tuttavia, è necessario ottenere il consenso degli utenti, che devono poter essere in grado di stabilire in base a quali dati possono essere profilati, quale tipo di pubblicità sono interessati a ricevere e in che modo preferiscono riceverla (ad esempio, con notifiche o tramite e-mail). Più si permette all’utente di personalizzare il suo uso dell’app, meno si rischia che lo stesso sia lesivo per i suoi interessi.

Come vedi, creare un’app può essere molto redditizio, ma bisogna fare attenzione alle norme di legge. Qualora decidessi di sviluppare un nuovo applicativo, possiamo fornirti supporto nell’individuazione delle misure di sicurezza da applicare, al fine del rispetto della normativa privacy.

La pandemia ci ha sicuramente ricordato l’importanza del ruolo ricoperto dalla tecnologia in vari ambiti della nostra quotidianità. Non da ultimo: il business. Invero, sono sempre di più gli imprenditori che si stanno rendendo conto che per sopravvivere in questa nuova era, la tecnologia non è una risorsa, ma la risorsa. Il fine? Vendere. Come? Aprendo un e-commerce.

Aprire un e-commerce, tuttavia, non è un gioco da ragazzi. È essenziale valutare attentamente alcuni aspetti.

Aspetti organizzativi.

Il primo passo per aprire un e-commerce è: fare delle scelte. Scegli il tuo target, cosa vendergli, e come farlo. Per esempio, puoi decidere di dotarti di un magazzino (acquistandone la proprietà o prendendolo in affitto), oppure puoi basare il tuo business sul c.d. dropshipping: niente magazzino, giri gli ordini del tuo utente al grossista, che spedisce la merce ordinata al secondo.

Aspetti tecnologici.

La tecnologia è il tuo mezzo, ma attenzione: non fa tutto da sola . Lo sai che è possibile aprire un e-commerce gratuitamente, attraverso servizi online quasi del tutto preconfigurati? Un esempio è Shopify, che può essere utilizzato gratuitamente per un periodo di prova limitato, (senza inserire dati di pagamento e senza obbligo di rinnovo). Se invece preferisci qualcosa di più professionale puoi acquistare un hosting, un dominio e installare un CMS, ovverosia un software che ti permette di configurare l’e-commerce in ogni suo aspetto, come WordPress, Magento o Prestashop. In alternativa, puoi realizzare il tuo e-commerce da zero, attraverso il linguaggio di programmazione. Ma in questo caso, ti consigliamo di affidarti ad un professionista del settore.

Aspetti fiscali e doganali.

Starai pensando: perché limitarsi all’Italia quando si può conquistare il mondo? Qualora questo fosse il tuo proposito, bada bene di considerare eventuali dazi per la circolazione delle merci, nonché le diverse normative fiscali e legali degli stati che vuoi “conquistare”.

Non dimenticare il marketing!

Ricorda che per avere successo, non basta vendere un prodotto di qualità, serve anche il marketing. A tal proposito, è particolarmente indicato che il nome a dominio e i testi presenti nel sito siano improntanti al rispetto delle regole SEO.

Ovviamente, non possono mancare le immagini. Attenzione però alla legge sul diritto d’autore. Qualora tu decida di affidare ad un fotografo la realizzazione delle immagini per il tuo sito, ti consigliamo di disciplinare contrattualmente gli aspetti inerenti al diritto di riproduzione, utilizzo e diffusione delle fotografie.

Aspetti giuridici.

Salvo che tu non voglia fornire servizi sottoforma di prestazioni occasionali, dovrai aprire la partita IVA, che rappresenta però uno degli obblighi che dovrai sostenere se vuoi davvero aprire il tuo e-commerce. Occorre infatti anche:

  1. inviare una comunicazione all’Agenzia delle Entrate e all’INPS;
  2. l’iscrizione alla Camera di Commercio e allo Sportello Unico Attività Produttive (SUAP) del comune;
  3. eventualmente l’iscrizione al VIES (Vat Information Exchange System), se intendi vendere all’estero nella Comunità Europea.

Non è però finita qui. Invero, il commercio elettronico, ovverosia lo svolgimento di attività commerciali e di transazioni per via elettronica soggiace alla disciplina del D.lgs. 70/2003, attuativo della direttiva n. 2000/31/CE. È pertanto chiaro che il tuo il tuo e-commerce deve necessariamente essere costruito nel rispetto di quanto stabilito dalla succitata normativa.

Obblighi informativi

Lo sai per esempio che il tuo sito e-commerce deve obbligatoriamente contenere alcune specifiche informazioni? Invero, gli artt. 7 e ss. del D.lgs. 70/2003 impongono l’indicazione di:

  1. Identità del titolare della ditta, dei soci della società o del professionista;
  2. Dati fiscali (codice fiscale o partita iva);
  3. Indirizzo geografico e contatti dell’impresa (numero di telefono, indirizzo mail, posta elettronica certificata);
  4. Caratteristiche essenziali dei beni e/o dei servizi offerti;
  5. Prezzo totale dei beni e/o servizi offerti con indicazione dell’imposta sul valore aggiunto;
  6. Modalità di pagamento (contrassegno, carta di credito, ecc.);
  7. Modalità di consegna del bene o esecuzione del servizio;
  8. Modalità di presentazione dei reclami;
  9. Esplicazione delle modalità di esercizio del diritto di recesso;
  10. Eventuali altre informazioni sui costi da sostenere in caso di esercizio del diritto di recesso;
  11. Esistenza di garanzie legali di conformità dei beni o di adeguatezza dei servizi offerti;
  12. Durata del contratto.

Puoi inserire le informazioni di cui a punti 1, 2 e 3 nel footer del tuo sito, in modo che siano sempre a disposizione dell’utente; mentre per le altre, dovrai armati di condizioni generali di contratto.

Condizioni generali di contratto

Sei già allarmato, vero? In realtà, le condizioni generali di contratto oltre a fornire le informazioni di cui sopra, possono tutelarti in più di un’occasione. Nelle medesime, per esempio, vengono disciplinate le limitazioni alla tua responsabilità, le procedure da seguire in caso di merce viziata, quelle per gli avvenimenti di forza maggiore, come la pandemia che ben conosciamo, ed infine possono essere inserite apposite regole per la tutela della tua proprietà intellettuale e/o industriale.

Consumatore o professionista?

Ora che ti sei convinto dell’utilità – oltre che della necessarietà – delle condizioni generali di contratto, fermati! Vuoi vendere a consumatori o a imprenditori come te? Invero, qualora tu decidessi di rivolgerti alla prima categoria, le regole da tenere in considerazione per la redazione delle condizioni generali si arricchiscono di un ulteriore tassello: la normativa del Codice del Consumo (D.lgs. 206/2005). A titolo d’esempio, tale normativa assicura a tutti i consumatori la facoltà di recedere dal contratto entro 14 giorni dalla sua conclusione. Fra l’altro, nelle condizioni generali, è essenziale che tale indicazione sia messa nero su bianco, giacché, in assenza, il termine per l’esercizio del succitato diritto diventa di dodici mesi.

E la privacy?

Avrai di certo sentito molto parlare di privacy e trattamento dei dati personali. Invero, per la costruzione del tuo e-commerce, devi tenere in considerazione anche quanto stabilito a tal proposito dal Regolamento Europeo n. 679/2016, meglio conosciuto con il nome di GDPR. Bada bene, non è sufficiente che tu provveda a caricare all’interno del tuo sito e-commerce l’informativa sul trattamento dei dati personali, con tutte le informazioni di cui all’art. 13 del GDPR e la relativa cookie policy.

Infatti, l’art. 25 del GDPR ti impone, in quanto Titolare del trattamento, di mettere in atto, già nella fase di ideazione e creazione del tuo e-commerce, misure tecniche e organizzative adeguate, quali la pseudonimizzazione e la minimizzazione, per proteggere i dati e i diritti degli utenti (c.d. principio della privacy by default e by design).

Le nostre istruzioni per l’uso

Se sei arrivato in fondo a questo articolo, ti sarai certamente reso conto che la rete normativa sottesa al commercio elettrico è parecchio intricata.

Ecco perché è sempre preferibile rivolgersi ad un consulente specializzato in materia, fin dall’inizio dell’implementazione dell’e-commerce. Lo stesso, infatti, può guidare te e gli sviluppatori nella creazione di un portale a norma di legge, facendoti risparmiare non solo il denaro che saresti costretto ad investire in eventuali, alquanto probabili modifiche e/o correzioni, ma anche quello che potresti essere costretto a sborsare in sanzioni, qualora prediligessi il famoso “fai da te”.

Non esitare a contattarci, se vuoi approfondire la questione ovvero se hai bisogno di supporto per la creazione del tuo e-commerce.

Il commercio elettronico è in costante crescita sia in Italia che nel mondo. Nell’ultimo periodo, esso si è ulteriormente diffuso a causa dell’emergenza sanitaria, che ha comportato il blocco delle vendite al dettaglio delle merci ritenute non essenziali. Alla crescente importanza del settore non sempre si accompagna, però, la consapevolezza da parte degli operatori circa le normative vigenti e i rischi legali a cui possono andare incontro, in caso di violazione delle normative applicabili.

Dal punto di vista privacy, come tutti i siti web, anche quello e-commerce soggiace alle regole dettate in materia di data protection, sia per quanto riguarda le finalità di trattamento dei dati che il titolare è tenuto a fornire agli utenti, sia relativamente alle misure di sicurezza tecniche poste alla base del sistema informatico.

Nello specifico, le principali regole in tema di privacy da tenere in considerazione ai fini della costruzione di un e-commerce conforme alla legge sono individuate dal Reg. Ue 679/216 (GDPR) e dai provvedimenti emessi dal Garante

Le regole basilari

In particolare, in base ai principi dettati dall’art. 25 del GDPR, la creazione dell’e-commerce deve essere effettuata contestualmente alla progettazione del trattamento dei dati (privacy by desing) e il Titolare del Trattamento deve trattare i dati dell’interessato nella misura necessaria e sufficiente per le finalità previste e per il periodo strettamente necessario (privacy by default). Invero, il trattamento dei dati degli utenti deve avvenire tenendo conto del principio di minimizzazione dei dati, di cui all’art. 5 GDPR, secondo il quale possono essere trattati solo quei dati necessari e indispensabili in relazione alle finalità per le quali sono raccolti, nonché  secondo le logiche di accountability, consistenti nelle responsabilità di definire (a monte di un’attenta analisi dei dati trattati e dei possibili rischi connessi) l’insieme di quelle misure adeguate, che limitano il più possibile il verificarsi di eventuali rischi e garantiscono il rispetto delle disposizioni GDPR.

Ma come deve essere nella pratica un e-commerce per essere GDPR compliance?

Anzitutto l’e-commerce deve contenere una privacy policy (informativa), redatta ai sensi dell’art. 13 GDPR, che fornisce tutte le informazioni necessarie affinché i visitatori del sito possano decidere in modo consapevole se prestare o meno il loro consenso al trattamento dei dati personali. In particolare, nell’informativa devono essere inserite specifiche informazioni in relazione ai trattamenti dei dati degli utenti per determinate richieste o servizi (ad esempio alla gestione di un’area riservata per monitorare gli ordini effettuati). Altresì dovrà essere prevista una cookies policy e inserito, ad esempio, un banner con opt-in che contenga i vari cookies utilizzati, in modo da permettere all’Utente di poter fornire un consenso espresso.

Newsletter e messaggi sponsorizzati

Proprio per il fatto che il consenso deve essere prestato dall’utente in modo inequivocabile ed espresso, i moduli per le newsletters inseriti nel sito non possono contenere il consenso di default. L’impresa deve pertanto inserire una casella di spunta per il consenso al trattamento dei dati personali, senza che la stessa possa essere precompilata. Inoltre, sia i messaggi sponsorizzati che i moduli funzionanti con modalità opt- out (cioè i moduli che appaiono quando il cursore del mouse si muove verso la parte superiore della pagina per chiuderla) devono essere riadattati in modalità opt-in opzionale.

Attenzione al database e misure di sicurezza!

L’e-commerce deve poi essere dotato di un proprio database separato che faciliti la richiesta di cancellazione dei dati personali, e di un sistema di verifica dei dati degli utenti/visitatori, che renda possibile la verifica immediata nel caso in cui vengano violati i dati personali. Infine, deve essere garantita la sicurezza dei dati attraverso l’adozione di specifiche misure di sicurezza come, a titolo esemplificativo non esaustivo: utilizzare sistemi che permettono la riservatezza, l’integrità, la disponibilità dei dati personali; dotarsi di metodi che permettono di ripristinare la disponibilità dei dati personali e l’accesso ad essi in tempi appropriati in caso di incidenti fisici o tecnici; adottare procedure volte a verificare, analizzare e valutare regolarmente l’efficacia delle misure tecniche operative per assicurare la sicurezza.

Si ricorda che il mancato adeguamento agli obblighi imposti dal GDPR può comportare sanzioni molto pesanti per le imprese, in quanto sono previste multe sino a 20 milioni di Euro o fino al 4% del fatturato.

Proprio per questa ragione, se state pensando di dotarvi di un e-commerce, fatevi affiancare da un avvocato esperto in materia, per evitare di incorrere in guai con il Garante per la protezione dei dati personali.

Se durante le ultime cene con amici e colleghi hai sentito disquisire spesso di bitcoin[1], ma, nonostante l’interesse e l’entusiasmo iniziali, non sei riuscito a comprendere a fondo le dinamiche che governano il sistema, allora questo articolo è proprio ciò di cui hai bisogno per far chiarezza sul tema.

La prima questione da affrontare, per poi inoltrarci nella fitta selva di problematiche legate a questa materia, è comprendere che cosa in pratica siano i bitcoin.

Si tratta essenzialmente di una moneta elettronica, creata ufficialmente nel 2009 da un anonimo inventore, noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Al contrario delle monete che hanno corso legale, essa non viene né generata né controllata dal potere centrale di uno Stato. Questo è possibile poiché il sistema Bitcoin semplicemente si autogestisce. Esso è infatti costruito sulla base di una serie complessa di algoritmi, che generano “n” bitcoin in “n” unità di tempo. Il processo si interromperà quando saranno prodotti 21 milioni di bitcoin.

Oltre ad essere completamente indipendente da qualunque potere centrale, il circuito funziona regolarmente senza l’intervento di intermediari certificati, quali ad esempio banche ed istituti di credito. A rendere possibile tutto questo è l’impiego della moderna tecnologia della blockchain. Si tratta di un registro distribuito ed incrementale delle transazioni, cioè uno strumento che consente di porre in essere transazioni di qualunque genere, senza che sia necessario l’intervento di alcun intermediario.

A questo punto, risulta chiaro quale sia il primo grande vantaggio dell’utilizzo dei bitcoin: un consistente risparmio di denaro nelle più comuni operazioni economiche, le quali non risultano più assoggettate ad alcuna esosa commissione bancaria.

Il buon funzionamento del Bitcoin è inoltre garantito da tre grandi pilastri, che governano il circuito: condivisione, anonimato e irreversibilità. Questi principi regolatori consentono alla tecnologia di assicurare un servizio sicuro, efficiente e all’avanguardia. Nella pratica ciò comporta che i saldi e le operazioni di tutti gli utenti siano pubbliche, sebben anonime. L’identità di ogni fruitore è infatti celata dietro un indirizzo bitcoin, che permette l’accesso e l’utilizzo della rete. I dati personali dell’utente vengono rivelati solamente al momento dell’ipotetica transazione. Si badi però che, non essendo presente alcun intermediario, tutte le operazioni sono assolutamente irreversibili. Più in generale, invece, la sicurezza del sistema è garantita da un’altra caratteristica importante: tutte le transazioni effettuate all’interno del circuito sono possibili solamente a condizione che chi le effettua sia precedentemente divenuto legittimo proprietario di una quantità di bitcoin almeno pari a quella che ha intenzione di cedere.

Il circuito dunque tende non solo ad autogestirsi, ma anche a tutelare autonomamente ogni suo utente da possibili infrazioni ed eventuali tentativi criminosi. Ciononostante, sebbene il Bitcoin appaia una tecnologia assolutamente sicura ed efficiente, è innegabile che una lunga serie di atti criminali, riconducibili soprattutto ai cybercrime, viene svolta quotidianamente proprio sfruttando surrettiziamente le componenti del sistema che dovrebbero autotutelarlo.

L’utente inoltre deve prendere coscienza del fatto che, non potendo godere del supporto di alcun soggetto terzo che svolga il ruolo di intermediario, in caso di perdita, smarrimento o furto delle credenziali d’acceso al proprio wallet[2] e alla rete stessa, sarebbe per lui impossibile recuperare il denaro investito. Dunque, sebbene il sistema risulti complessivamente sicuro, e sebbene l’assenza di un intermediario comporti di per sé dei benefici economici non di poco conto, questa moderna tecnologia implica di certo una maggiore responsabilizzazione dell’investitore. L’attenzione e la diligenza richieste all’utente non sono purtroppo comuni e non vanno dunque date per scontate; basti pensare al fatto che tutti almeno una volta nella vita abbia perso, smarrito, dimenticato la password della casella della posta elettronica, di qualche social, o addirittura del cellulare.

Nonostante, alcune intrinseche criticità, la forza dirompente di questa circuito, ha attirato l’attenzione anche del Legislatore nazionale, che è indirettamente intervenuto in materia. Con il D.lgs. 231/07, in tema di antiriciclaggio, il Legislatore si è occupato anche di bitcoin, definendoli come “valute virtuali”, ovvero rappresentazioni digitali di valore, non collegate ad una moneta di corso legale, ma comunque utilizzabili come mezzo di scambio. Si badi che esse non hanno alcun valore liberatorio in relazione ad eventuali obbligazioni pecuniarie; ma non per questo sono da ritenersi inutilizzabili, in quanto illecite. È la stessa Banca d’Italia a sostenere nella decisione del 30.01.2015 che «l’acquisto, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute virtuali debbano, allo stato, ritenersi attività lecite».

Ci si chiederà a questo punto se vi siano ulteriori vantaggi economici, oltre al risparmio in commissioni bancarie; in particolare è lecito domandarsi se siano state accordate delle particolari esenzioni relativamente al pagamento di imposte come IVA ed IRES.

Ad oggi, grazie all’intervento della Corte di Giustizia Europea[3], si è certi che le transazioni eseguite in bitcoin siano esenti dal pagamento dell’IVA. La posizione è stata tra l’altro successivamente confermata dalla Risoluzione 72/E del 2 settembre 2016 dell’Agenzia delle Entrate.

Per quanto concerne nello specifico il comportamento delle aziende in caso di scambio di bitcoin contro una prestazione specifica, le certezze sul punto sono minori. È sicuramente necessario emettere regolare scontrino fiscale, con indicazione in euro dell’IVA. Maggiori dubbi invece in merito alla necessità o meno di pagare le imposte sui redditi delle società. Una posizione definitiva sul punto è molto lontana dall’essere raggiunta: continuano quindi ad essere applicate le consuete norme per la determinazione delle imposte sui redditi, con il risultato che i guadagni societari ottenuti in bitcoin non sono esenti dal pagamento di suddette imposte.

Concludendo, non si può che lasciare al lettore la valutazione finale sui vantaggi e gli svantaggi dell’utilizzo di questa avveniristica tecnologia; non ci si può parimenti esentare da alcune semplici osservazioni. Sebbene, il sistema Bitcoin non si avvalga di certo del supporto dei consueti intermediari, ciò non esclude tout court l’intervento di eventuali terzi – al momento non certificati – nei rapporti tra gli utenti del circuito. Infatti, le start-up sviluppatrici dei su citati wallet, quei portafogli virtuali che permettono l’utilizzo della rete Bitcoin, hanno in breve tempo assunto un ruolo equiparabile a quello degli ordinari intermediari, originariamente espunti dal sistema. Spetta al Legislatore intervenire quanto prima in materia, al fine di inquadrare esattamente compiti e caratteristiche di tali società e tutelare gli investitori.

D’altro canto non mancano di certo esempi virtuosi dell’efficienza e della redditività del sistema. In particolare, in Trentino è nata da poco l’ormai nota Bitcoin Valley: una valle in cui è possibile utilizzare il circuito Bitcoin –  affianco ai normali mezzi di pagamento – per diverse operazioni: dalle più semplici, come pagare il conto al ristorante, a quelle più complesse, come pagare eventuali lavoratori dipendenti e fornitori.

Non ci resta dunque che dire: ai posteri l’ardua sentenza!

[1] Si utilizza “bitcoin” per indicare la moneta virtuale, mentre “Bitcoin” per indicare il circuito stesso.

[2] Il c.d. portafoglio virtuale, contenente l’ammontare di bitcoin comprati o guadagnati.

[3] Sentenza n. C – 264/2014 della Corte di Giustizia Europea.

Se sei un imprenditore e gestisci la tua società cercando di ottenere grandi risultati nel tuo settore di mercato, certo non vedrai di buon occhio i tuoi possibili competitors. Ebbene, per quanto possa apparirti strano, il sistema della libera concorrenza risulta essere tendenzialmente quello che offre maggiori possibilità di crescita e di sviluppo all’economia, consentendo – almeno teoricamente – a tutti gli imprenditori di essere presenti sul mercato a condizioni sempre “migliori”.

È innegabile che si tratti di un principio per certi versi crudele, ma garantisce pur sempre a tutte le aziende una possibilità di emergere.

È per questo che sia il Legislatore italiano che quello europeo proteggono la libertà di concorrenza, attraverso la disciplina antitrust, e vedono con sfavore le sue restrizioni. Il patto di non concorrenza è una di queste.

A livello europeo sono infatti vietati tutti quegli accordi – dai veri e propri contratti, ai c.d. gentlemen’s agreements [1] – che abbiano come effetto quello di falsare la libera concorrenza (art. 101 TFUE).[2]

La normativa europea lascia spazio a quella nazionale[3] solamente in caso di intese restrittive che non abbiano effetti negativi sul commercio degli Stati membri, nonché in caso di accordi che non superino i livelli di fatturato richiesti dalla regolamentazione europea. [4]

Le due discipline non solo si compenetrano, ma contano anche ben poche differenze sostanziali.

In ambo i casi infatti le intese vietate sono quelle che tendono a compromettere il gioco della concorrenza, soprattutto attraverso attività consistenti nel:

  • fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;
  • impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;
  • ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
  • applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
  • subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi.

Nonostante la rigidità della disciplina, alcune tipologie di patti di non concorrenza sono comunque ammesse dalla legge. Con la Comunicazione “de minimis” (2014/С 291/01), la Commissione Europea ha chiarito che le intese relative a quote di mercato inferiori al 10 % (o al 15% se conclusi tra aziende non concorrenti) non risultano tendenzialmente pregiudizievoli per la concorrenza e quindi non sono proibite. Diversamente, quelle appartenenti ad una rete di accordi vengono vietate per quote di mercato superiori al 5%.

Il Legislatore italiano non ha invece definito una cd. zona di sicurezza, ovvero una percentuale al di sotto della quale – difficilmente – le intese risultano rilevanti per la libera concorrenza. Questo non significa però che tutti i patti siano di per sé vietati.

Sono infatti ammessi gli accordi che non sono volti a falsare, compromettere, manipolare il sistema della libera concorrenza (art. 2 l. 287/1990); ovvero, quelli che rispettano le condizioni stabilite dall’art. 4 co 1, l. 287/1990[5].

È in questo ridotto spazio giuridico che trova applicazione l’art. 2596 c.c.[6] Tale norma chiarisce quali siano i requisiti essenziali per la validità di un patto di non concorrenza. Di base esso è ammissibile solo se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e solamente se dotato di una durata limitata nel tempo, predeterminata – in mancanza di esplicita pattuizione delle parti – dal Legislatore, in un massimo di cinque anni. Non è necessaria la forma scritta per la sua validità, sebbene sia invece richiesta ad probationem.

Lo scopo della norma è primariamente quello di salvaguardare la libertà individuale degli imprenditori, introducendo limiti alla facoltà di prevedere vincoli perpetui o eccessivamente duraturi alla libertà di iniziativa economica; secondariamente, quello di tutelare l’integrità del mercato e l’interesse dei consumatori.

Va a questo punto fatta un’importante osservazione. L’ambito di operatività dell’art. 2596 c.c. non ricomprende tutti i patti di non concorrenza. In particolare, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale[7], i patti accessori – ovvero quelli che costituiscano degli strumenti necessari e indispensabili per la realizzazione di una più complessa operazione negoziale – non sono limitati temporalmente ad una durata massima di cinque anni. Di fatto essi risultano parte fondamentale di una più articolata forma di collaborazione commerciale e, non esaurendo la loro funzione nella mera ed esclusiva restrizione della concorrenza, non subiscono le limitazioni dell’articolo in questione.

Ad ogni modo, è bene chiarire che l’art. 2596 c.c. non contrasta affatto con la disciplina antitrust nazionale ed europea, trovando applicazione solo per gli accordi ammessi da predetta normativa.

In conclusione, nulla quindi impedisce all’imprenditore  di tentare di raggiungere un accordo con i propri competitors, purché vengano rispettati i requisiti di validità sopra esposti.

[1] Si tratta di accordi informali tra le parti, che pur non dando luogo ad alcun vincolo giuridico, vengono liberamente rispettati dai contraenti.

[2]L’art. 101 TFUE vieta tutti “gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, fingere o falsare il gioco della concorrenza”.

[3] Si fa riferimento in questo caso alla l. 287/1990 (con successive modifiche) e alle relative norme del codice civile (artt. 2596 c.c. e s.s.).

[4] Si veda quando stabilito da: Reg. 1/2003, Reg. 139/2004 e relative leggi attuative.

[5] Art. 4, comma 1, l. 287/1990: “L’Autorità può autorizzare, con proprio provvedimento, per un periodo limitato, intese o categorie di intese vietate ai sensi dell’articolo 2, che diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori e che siano individuati anche tenendo conto della necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenzialità sul piano internazionale e connessi in particolare con l’aumento della produzione, o con il miglioramento qualitativo della produzione stessa o della distribuzione ovvero con il progresso tecnico o tecnologico. L’autorizzazione non può comunque consentire restrizioni non strettamente necessarie al raggiungimento delle finalità di cui al presente comma né può consentire che risulti eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato.

[6]Art. 2596 c.c.: Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio.

[7] Ex multis, Cass. civ., sez. I, 6 agosto 1997, n. 7266, in Giust. civ., 1998, p. 811 con nota di ALBERTINI, Sui patti accessori di non concorrenza.

Sei una piccola azienda del tessile che vorrebbe accedere a particolari finanziamenti o bandi pubblici ma non hai i requisiti richiesti? Sei un imprenditore che vorrebbe espandere la propria rete commerciale o sviluppare nuovi processi produttivi ma non hai i contatti giusti o la forza economica necessaria? La soluzione c’è e prevede una collaborazione con altre piccole-medie imprese come la tua. L’unione fa la forza!

Il contratto di rete tra imprese è stato introdotto nell’ordinamento giuridico dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, di conversione del D.L. 10 febbraio 2009, n. 5 (c.d. “Decreto Incentivi”). La rete di imprese configura una tipologia di associazionismo imprenditoriale su base contrattuale che consente alle singole imprese aderenti, chiamate “retiste”, di collaborare.

Occorre innanzitutto distinguere due possibili tipologie di rete: la rete-soggetto e la rete-contratto.

Le reti-soggetto sono reti di imprese che hanno deciso di acquisire la soggettività giuridica iscrivendosi nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese, e costituiscono un soggetto “distinto” dalle imprese che hanno sottoscritto il contratto e, pertanto, sotto il profilo tributario, in grado di realizzare fattispecie impositive ad essa imputabili (Iva, Irap, imposta di registro, obblighi di tenuta delle scritture contabili).

Nelle reti-contratto, invece, l’adesione al contratto di rete non comporta l’estinzione, né la modificazione della soggettività giuridica e tributaria delle imprese che aderiscono all’accordo, né l’attribuzione di soggettività tributaria alla rete risultante dal contratto stesso. L’assenza di un’autonoma soggettività giuridica e fiscale delle reti di impresa comporta che gli atti posti in essere in esecuzione del programma di rete producano i loro effetti direttamente nelle sfere giuridico-soggettive dei partecipanti alla rete. Dunque, la titolarità di beni, diritti, obblighi ed atti rimane, quota parte, alle singole imprese partecipanti.

Ciò precisato, quali sono i vantaggi di un contratto di rete?

Dal punto di vista dei lavoratori, con il contratto di rete è possibile ottimizzare l’impiego delle risorse umane e raggiungere livelli superiori di efficienza produttiva, organizzativa e qualitativa, aderendo alle richieste del mercato. In particolare, sarà possibile l’utilizzo dell’istituto del distacco dei lavoratori, che si realizza quando un datore di lavoro (cd. distaccante), per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori (cd. distaccato/i) a disposizione di altro soggetto (cd. distaccatario) per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. La legge n. 99/2013, di conversione del Decreto legge n. 76/2013, ha aggiunto all’art. 30 del D.lgs. n. 276/2003, il comma 4-ter che prevede la possibilità di applicare il distacco anche ad aziende appartenenti ad una rete di imprese. Secondo quanto previsto dalla norma, nell’ipotesi di distacco nel contratto di rete, “l’interesse del distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete”. L’introduzione di una presunzione di sussistenza dell’interesse ha come obiettivo primario quello di favorire la circolazione dei lavoratori tra imprese collegate da un obiettivo coordinato all’interno della rete.

Un altro aspetto interessante è l’accesso al credito d’imposta del 50 per cento delle spese incrementali in Ricerca e Sviluppo sostenute nel periodo 2017-2020 che è stato riconosciuto anche a favore dei consorzi e delle reti di impresa, fino a un massimo annuale di 20 milioni di €/anno per beneficiario e computato su una base fissa data dalla media delle spese in Ricerca e Sviluppo negli anni 2012-2014.

Infine, si segnala il Bando MISE “Grandi progetti di Ricerca e Sviluppo”, a valere sul PON Imprese e Competitività 2014-2020 FESR, che finanzia grazie all’intervento del Fondo crescita sostenibile i progetti di ricerca e sviluppo di rilevanti dimensioni in materia di Agenda Digitale e Industria Sostenibile, realizzati nelle Regioni meno sviluppate (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia), e nelle Regioni in transizione (Abruzzo, Molise, Sardegna).

I dati sui contratti di rete in Italia[1] parlano di una “crescita inarrestabile” delle reti di impresa, con oltre 3300 unità, e più di 17300 imprese coinvolte.

A livello di distribuzione per regione, la Lombardia si attesta al primo posto con 2837 imprese interessate da esperimenti di rete, seguita dal Toscana (1685) ed Emilia-Romagna (1606).

Di sicuro interesse i casi di contratti di rete del distretto tessile di Prato e del progetto emiliano Fashion Valley.

Le aspettative di risultato tramite il contratto di rete – settore moda, possono riguardare:

  • la gestione integrata della catena logistica;
  • l’internazionalizzazione del business;
  • la diversificazione dell’offerta;
  • lo sviluppo di innovazioni (ad es. nuove fibre tessili, o nuovi tipi di lavorazioni);
  • lo sviluppo di competenze e risorse;
  • lo sviluppo di una cultura dell’innovazione;
  • la risposta all’esigenza di delocalizzare le produzioni più mature in mercati a basso costo.

Grazie al contratto di rete, le piccole e medie aziende possono quindi permettersi di raggiungere, unendosi, obiettivi di risparmio economico in termini di guadagno in efficienza nella catena di fornitura e in quella di approvvigionamento, di aumento della penetrazione commerciale e di miglioramento della qualità della rete commerciale, di impulso all’innovazione per la competitività, e sviluppo di politiche di eco-sostenibilità.

[1] Dati Infocamere, aggiornati al 03 febbraio 2017. Per ulteriori aggiornamenti visitare il sito http://contrattidirete.registroimprese.it/reti/#.

Il Made in Italy è un marchio che molti paesi ci invidiano da sempre. È un tessuto produttivo di altissima qualità nei settori più differenti che dimostra la buona qualità dei nostri prodotti. Questo provoca il fenomeno della contraffazione del Made in Italy, che in quest’ultimo periodo si sta diffondendo sempre di più. Ciò genera gravissimi danni alla nostra economia e inoltre mette a rischio la salute e la sicurezza dei consumatori. Ogni anno sottrae al PIL italiano milioni di euro. Tra i settori più colpiti da questo fenomeno ci sono certamente abbigliamento e accessori. Per fermare tutto ciò, è stato inventato un nuovo metodo all’avanguardia per verificare l’autenticità, del marchio made in Italy, attraverso un semplice gesto con lo smartphone.

Ha ottenuto il via libera della Camera la proposta di legge sulla tracciabilità del Made in Italy con l’obbiettivo di combattere la contraffazione.

Sperabilmente entro la fine di quest’anno si potrebbe arrivare all’approvazione definitiva in Senato. La proposta ha l’obbiettivo di mettere a disposizione delle imprese dei contributi, in modo tale da creare nuovi sistemi di etichettatura e certificazione basati sul QR-code.

Il codice permette a tutti i consumatori, in qualsiasi momento, di verificare l’autenticità del prodotto con il proprio smartphone. In maniera più dettagliata il disegno di legge, composto da un solo articolo, introduce un certificato digitale del prodotto e garantisce così la sua identità e autenticità delle origini “Made in Italy”, per tutelare sia produttori che i consumatori di tutto il mondo che scelgono di investire in un prodotto italiano al 100%. La traccia digitale permetterà a ciascun consumatore di conoscere l’effettiva origine dei beni che acquista, fornendo informazioni relative alla qualità, alla provenienza, al processo di lavorazione delle merci, dei prodotti intermedi e finiti.

Rimaniamo dunque in attesa di conoscere l’esito del procedimento. Per conoscere tutti i dettagli dello stato di avanzamento dei lavori vi invitiamo a cliccare qui.

Con questo articolo a cura di RITEX , già pubblicato sulla rivista specializzata Detergo  vogliamo fornire alcune indicazioni sui requisiti di sicurezza previsti per gli abiti dei più piccoli dalla normativa cogente.

La protezione della salute dei consumatori è uno dei principi ispiratori di ormai qualunque sistema legislativo minimamente evoluto.  Quando il consumatore è un bambino il livello di attenzione da parte del legislatore si innalza particolarmente, portando all’emanazione di leggi e regolamenti molto restrittivi.

Questa attenzione, presente da molto tempo per il settore dei giocattoli, si è indirizzata negli ultimi anni anche verso il settore del tessile-abbigliamento. A conferma di ciò è sufficiente dare uno sguardo al numero di articoli di abbigliamento ritirati annualmente dal mercato perché ritenuti pericolosi per la salute del bambino.

Come ottenere le informazioni, in tempo rapido, circa la presenza sul territorio europeo di capi di abbigliamento pericolosi per il bambino?  Ogni libero cittadino, ed è molto interessante farlo, può verificare settimanalmente, attraverso il  portale RAPEX, l’elenco di tutti i prodotti, non solo tessili, ritirati dal mercato per problemi di sicurezza generale, in tutto il territorio della comunità Europea.

Che cos’è Rapex?

Rapex è un sistema di allerta rapido utilizzato dagli stati membri per scambiarsi informazioni circa la pericolosità di prodotti che circolano sul territorio comunitario. Settimanalmente viene pubblicato un report con i dettagli di tutti gli articoli considerati critici per la sicurezza. L’elenco di tutti i report è facilmente reperibile, ricercando “RAPEX – Weekly Notification reports”. Interessante è anche approfondire le statistiche annuali, che riassumono, settore per settore, tutte le notifiche pubblicate sul Rapex. A seguire un’immagine tratta dal documento relativo all’anno 2014 “Keeping European Consumers Safe – Rapid Alert System for  dangerous non-food products – 2014 COMPLETE STATISTICS” in cui si nota che, dopo il settore dei giocattoli (Toys) con 650 notifiche, quello maggiormente segnalato è quello dell’abbigliamento (Clothing, Textiles and Fashion) con 530 articoli notificati.

Ma quali rischi sono associati ad un capo di abbigliamento per bambino?

In generale, e quindi anche nel caso del bambino, tre sono le tipiche categorie di rischio:

  1. MECCANICO
  2. CHIMICO
  3. CALORE E FIAMMA.
 3 Possibilità prevedibile che durante le condizioni normali di utilizzo si raggiunga, tramite fruizione dell’articolo o di parti di esso, un livello di potenziale pericolo per l’integrità fisica dell’utilizzatore. I rischi più significativi in ambito meccanico comprendono:  intrappolamento, punture, lacerazioni, soffocamento.
 4 Possibilità prevedibile che durante le condizioni normali di utilizzo e di manutenzione, tramite esposizione dovuta al contatto con la cute o la mucosa, a inalazione o ingestione, si raggiunga un pericolo per l’utilizzatore finale di una certa sostanza chimica contenuta nel prodotto tessile o nelle sue appendici.
 5 Possibilità prevedibile che durante le condizioni normali di utilizzo e di manutenzione, si determini un potenziale pericolo per l’integrità fisica dell’utilizzatore, a causa di stress termici e in relazione allo sviluppo e propagazione di fiamme.

Le definizioni e la rappresentazione grafica delle tre categorie sono ricavate dal documento “requisiti di sicurezza dei prodotti tessili” a cura della Camera di Commercio di Milano in collaborazione con Centro Tessile Cotoniero S.p.A.  e Sistema Moda Italia.

 

Quali sono nel dettaglio i rischi concreti?

Per approfondire nel concreto i rischi associati all’abbigliamento bambino è interessante leggere uno degli ultimi rapporti Rapex del 2015, il numero 51 del 25 dicembre.

A seguire viene riportata l’immagine relativa all’articolo rif. 37. Si tratta di un paio di pantaloncini per neonato, notificati al Sistema dal paese Ungheria a causa del fatto che nella zona del girovita sono presenti lacci che terminano con dei nodi. Viene dichiarato che il prodotto non è conforme alla norma EN 14682 e ne viene imposto l’immediato ritiro dal mercato. Il rischio meccanico è quello che i lacci possano rimanere intrappolati durante le attività del bambino e causarne quindi delle lesioni.

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Interessante è anche la notifica n.25, relativa ad una giacca bambina che presenta dei lacci nell’area del collo che terminano con dei pom-pom. Anche in questo caso viene dichiarata la non conformità alla norma EN 14682 e quindi ne viene imposto il ritiro dal mercato a causa del rischio meccanico di strangolamento

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Che cosa impongono la norma EN 14682 e in generale gli standard di sicurezza per l’abbigliamento bambino?

I requisiti imposti dagli standard di sicurezza per l’abbigliamento per bambini sono molti e sono suddivisi in base all’età dell’utilizzatore (0-7 anni –bambini piccoli – oppure 7-14 anni – bambini più grandi)) e in base alla zona del corpo a cui sono destinati (A,B,C o D).

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Ne riportiamo solamente alcuni (l’elenco a seguire è incompleto rispetto alla norma di riferimento; le immagini sono tratte dalla norma stessa):

REQUISITO GENERALE

13Le estremità libere di lacci passanti, i cordoncini funzionali e fasce o fusciacche non devono presentare guarnizioni tridimensionali o nodi e devono essere a prova di sfilacciamento, per esempio termosaldate o travettate.

Le estremità possono essere ripiegate o piegate in due purchè non creino pericolo di intrappolamento.

Ove consentiti i lacci passanti devono essere fissati al capo, per esempio mediante travettatura, in almeno un punto situato in posizione equidistante dai punti di uscita (vedere figura)

ZONA TESTA, COLLO E PARTE SUPERIORE DEL PETTO NEI CAPI DI ABBIGLIAMENTO PER BAMBINI PICCOLI – ZONA A

14I capi di abbigliamento destinati ai bambini piccoli non devono essere concepiti, confezionati o forniti con lacci passanti, cordoncini funzionali nella zona testa, collo e parte superiore del petto.

I capi di abbigliamento all’americana devono essere preparati senza estremità libere nella zona collo e gola (X=vietato, V= permesso).

  

ZONA PETTO E VITA – ZONA B

15I capi indossati dalla vita in giù e senza spalline, bretelle, o maniche, come pantaloni, pantaloncini, gonne, slip, parte inferiore del bikini, non devono avere estremità libere di lacci passanti più lunghi di 20 cm (A) in ogni estremità quando il capo è in uno stato naturale rilassato (X=vietato, V= permesso).

 

ORLI AL FONDO NEI CAPI DI ABBIGLIAMENTO CHE ARRIVANO SOTTO AL CAVALLO – ZONA C

16I lacci passanti, i cordoncini decorativi e i cordoncini funzionali, fermacorda inclusi, situati nei bordi al fondo dei capi che arrivano al di sotto del cavallo non devono pendere al di sotto del bordo al fondo del capo di abbigliamento (X=vietato, V= permesso).

 

ZONA POSTERIORE– ZONA D

I capi di abbigliamento per bambini non devono prevedere lacci passanti cordoncini decorativi o cordoncini funzionali che fuoriescano dalla parte posteriore del capo o da allacciare dietro (X=vietato, V= permesso).

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REQUISITO PER IL PERICOLO DI SOFFOCAMENTO

Foto di archivio Ritex

Un ulteriore requisito tipicamente associato alla sicurezza dell’abbigliamento per bambino, anche se non specificato dalla norma EN 14682,  è quello relativo al pericolo di soffocamento per ingestione di piccole parti. Se il capo di abbigliamento contiene parti funzionali o decorative che rientrano nella categoria di “piccole parti” (le dimensioni sono definite in uno standard europeo) esse devono essere non afferrabili o saldamente fissate al capo in modo da non poter essere distaccate dal bambino durante l’uso normale e prevedibile del capo stesso.

A seguire un caso concreto esaminato in laboratorio: la maglia è stata classificata come non conforme agli standard di sicurezza; le decorazioni sono infatti risultate essere fonte di pericolo di soffocamento in quanto “piccole parti staccabili”.