Type a keyword and hit enter to start searching. Press Esc to cancel.

Categoria: Made in Italy

Di recente, anche Chiara Ferragni, o meglio, alcune società che producono per il suo brand, sono incorsi in un errore di valutazione per quanto riguarda la produzione di una linea di calzature e sono stati condannati ad interrompere la produzione e a risarcire i danni per la violazione del diritto d’autore di Tecnica Group sui celebri doposcì Moon Boot (sentenza del Tribunale di Milano, n. 493 del 25 gennaio 2021).

Moon Boot Kids : Clothes & Accessories | Melijoe

Gli imprenditori nell’ambito della moda sono spesso guidati e trascinati dal proprio pensiero creativo, che può essere più o meno libero o influenzato dall’ambiente esterno. Ma dopo lo spunto creativo, a cosa bisogna stare attenti nella realizzazione di un nuovo capo, calzatura o collezione? L’ “ispirazione” da idee altrui non può infatti trasformarsi in una “copia”, che sarà dichiarata illecita, sussistendo determinate condizioni, a prescindere dal fatto che fosse, o meno, consapevole.

Può ad esempio accadere che taluni prodotti del settore moda, come è stato riconosciuto dal Tribunale di Milano nel caso dei Moon Boot e come avvenuto in precedenza anche per altri capi di abbigliamento o calzature, siano tutelati dal diritto d’autore, se ritenuti qualificabili come “opere del disegno (o “design”) industriale” con carattere creativo e valore artistico. Di conseguenza, eventuali capi simili dovrebbero presentare un’“autonomia creativa” per essere a propria volta tutelati e non considerati in contraffazione con la creazione precedente.

Qual è il rischio effettivo in cui incorre un imprenditore che non consideri questi aspetti?

Innanzitutto, occorre considerare che una violazione del diritto d’autore danneggia sia il “creatore morale” dell’opera, sia colui che è titolare dei relativi diritti di sfruttamento economico. L’idea innovativa può venire a chiunque, ma quando entrano in gioco forti interessi economici, è evidente come ci si esponga ad un elevato rischio sia di contestazioni “stragiudiziali” sia di eventuali procedimenti giudiziali.

Di solito la società titolare dei diritti (che nel “caso Ferragni” era Tecnica Group) invia inizialmente una diffida al presunto contraffattore. Con la diffida si viene intimati di cessare la produzione e la commercializzazione dei prodotti in questione ed è possibile che venga anche chiesto un risarcimento per i danni fino a quel momento subiti. In questi casi, la cifra richiesta potrebbe essere rilevante, ma talvolta viene comunque accettata e pagata per evitare il rischio di un procedimento giudiziale dall’esito e dalla durata incerti. In tema di riconoscimento del diritto d’autore, infatti, le valutazioni dei giudici risultano spesso oscillanti e non prevedibili.

Se si accetta di cessare la produzione e la vendita dei prodotti, ed eventualmente di pagare il risarcimento richiesto, i soggetti coinvolti stipulano quindi una transazione, che tra l’altro potrebbe prevedere anche clausole penali per eventuali futuri inadempimenti, esponendo l’attività dell’imprenditore contestato ad ancora maggiori rischi.

L’Italia è famosa nel mondo per le proprie bellezze storiche e ambientali, per l’arte culinaria e…. per la moda!

La filiera della moda in Italia rappresenta, infatti, l’8,5% del fatturato (oltre 80 miliardi) e il 12,5% dell’occupazione (quasi 500mila addetti) dell’industria manifatturiera italiana. Il saldo commerciale (relativo ai Personal Luxury Goods) ammonta a oltre 33 miliardi di euro (il secondo valore più consistente in Italia dopo la meccanica). L’industria della moda, peraltro, cresce senza sosta dal 2007, registrando un tasso di crescita medio annuo pari a più del doppio di quello riferito al resto della manifattura italiana (1,3% vs 0,6%)[1].

Come sappiamo, le imprese della filiera italiana sono perlopiù di piccole o medie dimensioni. Tuttavia, tale caratteristica, invece che rappresentare uno svantaggio, favorisce la specializzazione e l’internazionalizzazione. Infatti, la piccola dimensione delle aziende del fashion viene bilanciata da una forte interrelazione tra le medesime, che ne garantisce una elevata capacità di innovazione e quindi di competitività sui mercati internazionali.

L’interrelazione tra le imprese e il contratto di subfornitura

Sebbene l’interrelazione tra le aziende della filiera della moda italiana sia di fatto uno dei suoi punti di forza, la stessa può facilmente trasformarsi in una trappola infernale, in assenza di una regolamentazione scritta delle relazioni commerciali che ne costituiscono la base sostanziale. Ed è proprio per questo, che il contratto di subfornitura è il lusso che la moda si deve permettere.

La categoria del contratto d'impresa nel diritto italo-europeo. Il modello  della subfornitura | Salvis Juribus

Perché avere un contratto scritto di subfornitura è così importante?

Non tutti sanno che questa tipologia negoziale è regolata da una normativa ad hoc, ossia la L. 192/1998. L’art.2 di tale legge prevede espressamente la nullità dei contratti di subfornitura che non siano stati conclusi per iscritto, e/o nei quali non siano stati determinati in modo chiaro i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente, il prezzo pattuito, i termini e le modalità di consegna, di collaudo e di pagamento.

Quindi il primo buon motivo per dotarsi di un contratto scritto è quello di evitare la nullità. Anche perché, il citato articolo 2 prevede che, in caso di nullità, il subfornitore abbia comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto.

Rischio, Parola, Lettere, Boggle, Gioco

Quali rischi si corrono senza un contratto scritto?

Molti e diversi. Il più eclatante? Il rischio che il subfornitore – dopo la conclusione del rapporto negoziale – utilizzi, senza alcuna autorizzazione, bozzetti, disegni o istruzioni tecniche, consegnate dal cliente. La filiera, infatti, funziona così: il cliente trasmette il bozzetto, oppure già il cartamodello o il prototipo al committente del contratto di subfornitura, il quale, a sua volta, trasmette gli stessi a vari subfornitori per le lavorazioni di loro competenza: sviluppo delle taglie, piazzamento, taglio del tessuto, trattamenti, confezione, controllo qualità, stiro, apposizione di accessori ed etichette, fino alla spedizione.

A tutelare la proprietà intellettuale in costanza di rapporto, vi è l’art. 7 della L. 192/98, secondo cui il committente conserva la proprietà industriale di progetti e prescrizioni di carattere tecnico da lui comunicati al fornitore e sopporta i rischi ad essi relativi. Il fornitore è, a sua volta, tenuto alla riservatezza e risponde della corretta esecuzione di quanto richiesto, sopportando i relativi rischi. Ma dopo la fine del rapporto negoziale cosa può accadere?

Senza un contratto scritto e una clausola contrattuale ad hoc che vieti al subfornitore l’utilizzo, dopo la fine del rapporto negoziale, di bozzetti, disegni, istruzioni, etc., potrebbe accadere – in forma peraltro più grave – quanto avvenuto nella vicenda di cui alla sentenza del 15 febbraio 2011 n. 185 del Tribunale di Vicenza.

Tribunale di Vicenza, Sezione 2, Civile, Sentenza del 15 febbraio 2011 n. 185

La Società Da. S.p.A. – affermata ditta produttrice di articoli di abbigliamento ed ulteriori articoli per motociclismo ed altri sports – aveva concluso con Ke.Ro. s.n.c. un contratto di fornitura e di lavorazioni in conto terzi, nel quale si prevedeva che Ke.Ro. effettuasse alcune lavorazioni per conto della prima e che, su richiesta di quest’ultima, provvedesse anche alla fabbricazione completa di alcuni articoli in pelle, impegnandosi ad attenersi a specifiche tecniche di lavorazione, comunicate di volta in volta da Da., con fornitura delle attrezzature e dei materiali necessari (mazzette, fustelle, capi campione e pelli).

Cartamodello base corpino davanti GRATIS | www.modart.biz

Il contratto conteneva il divieto assoluto per il subfornitore, anche tramite interposta persona, di realizzare prodotti simili e/o effettuare lavorazioni su medesimi prodotti, su ordinazione di terzi, per il  settore su indicato, anche dopo il termine naturale del contratto. Tale disposizione è stata ovviamente disattesa. Ke.Ro, per il tramite della Bl.Li, sua collegata, aveva lanciato una serie di articoli che imitavano in tutto o in parte i corrispondenti articoli della Da., della quale aveva utilizzato i cartamodelli.

Morale della storia? Le società Ke.Ro e Bl.Li venivano accusate e condannate del reato di concorrenza sleale e grazie al contratto scritto, le medesime sono state anche condannate al risarcimento dei danni patiti dalla committente Da. S.p.A.

Alcuni importanti vantaggi

Vi state chiedendo se ci sono altri vantaggi in ordine alla conclusione di un contratto di subfornitura scritto? Molti altri. Per esempio, è possibile introdurre una clausola penale per il caso d’inadempimento o di ritardo nell’adempimento da parte del subfornitore. Il vantaggio di questa previsione è che la clausola penale esonera il committente dalla prova del danno. Ciò significa che il medesimo, in caso di inadempimento, può pretendere la penale indipendentemente dalla verificazione o meno di una lesione effettiva.

Inoltre, mediante la stipulazione di un contratto scritto, il committente può imporre degli obblighi precisi al subfornitore anche dopo la conclusione del contratto. Come? Introducendo, per esempio, una clausola di riservatezza, obbligando così il subfornitore, sia durante la vigenza del contratto che per «x» anni successivi alla sua cessazione, a non divulgare o ad utilizzare per scopi estranei al medesimo le informazioni e le notizie di qualsiasi natura di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto commerciale.

Infine, il contratto scritto risulta particolarmente utile per determinare in modo chiaro e preciso le modalità di effettuazione degli audit e dei controlli qualità.

Spesso, infatti, i subfornitori sono restii a collaborare per rendere queste attività di controllo efficaci. Il contratto di subfornitura può diventare il documento ove prevedere degli obblighi specifici sia in tema di documenti da consegnare, sia circa le modalità di svolgimento dei controlli stessi.

Inoltre, nel medesimo possono essere predeterminate le modalità con cui vengono effettuati i controlli qualità, che idealmente dovrebbero inerire tutte le fasi della produzione. Per esempio, potrebbe essere particolarmente efficace, prevedere che, in caso di vizi, il committente possa valutare se affidare le lavorazioni/servizi da eseguire al subfornitore responsabile delle non conformità o se affidare la relativa esecuzione a terzi oppure se procedere direttamente alla loro esecuzione, specificando che il subfornitore dovrà in ogni caso sostenere i costi dei tali attività. Parimenti utile potrebbe essere la definizione chiara delle modalità con cui il subfornitore accetta le citate non conformità contestate. Prevedere per esempio dei meccanismi di silenzio assenso può ridurre notevolmente i tempi per la correzione dei vizi o il rifacimento dei capi.

Ma volete sapere il vantaggio più grande? Il risparmio di notevoli risorse economiche

Clessidra, Soldi, Tempo, Investimenti

Grazie all’introduzione, nei rapporti con i subfornitori, di un contratto scritto, infatti, è possibile ridurre, se non del tutto eliminare, le perdite di tempo nelle fasi di esecuzione del contratto; migliorare la collaborazione di tutte le imprese parte della filiera, favorendo comportamenti proattivi, quali quello di chiedere autonomamente istruzioni al committente, qualora assenti; efficientare gli audit, che non vengono più percepiti come intrusioni; ed infine ridurre notevolmente le costose controversie.

Concludendo, pare evidente come tutte le società – piccole o grandi che siano – che lavorino nella filiera della moda, e soprattutto in quella del lusso, dovrebbero regolare i loro rapporti, ovvero quelli con i subfornitori, mediante la conclusione di un contratto scritto, mettendosi così al riparo da rischi e perdite tutt’altro che secondari. D’altronde “un contratto verbale, non vale la carta su cui dovrebbe essere scritto” (Goldwyn).


[1] I dati qui riportati sono tratti dal report “L’economia italiana, dalla crisi alla ricostruzione. Settore Moda e Covid-19, Scenario, impatti, prospettive” elaborato nel Luglio 2020 da EY e Luiss Business School

Sei un imprenditore o un aspirante tale? Stai progettando ed implementando qualcosa di estremamente innovativo e sei parecchio preoccupato che qualcuno rubi, copi, riproduca la tua idea? Più che comprensibile.

Sappi che, fortunatamente, hai a disposizione diversi strumenti per tutelare te e il tuo know-how.

NDA

Se a preoccuparti è la condivisione della tua idea con possibili futuri collaboratori, puoi sottoporre alle persone interessate un NDA (letteralmente Non-Disclosure Agreement), ovverosia un accordo di riservatezza. Si tratta di un atto con cui una parte garantisce all’altra di non diffondere, rivelare o riprodurre in qualsivoglia modo determinate informazioni confidenziali, di cui sia venuta a conoscenza sulla base della predetta collaborazione. Tale accordo risulta particolarmente utile qualora nel medesimo sia prevista anche una clausola penale per il caso di inadempimento. Tale clausola, infatti, obbliga il soggetto “rivelante” a corrispondere all’altra parte una somma di denaro qualora violi gli obblighi di riservatezza dell’NDA.

Marchi e brevetti

La proprietà industriale può essere protetta, inter alia, anche attraverso appositi diritti o titoli, definiti tecnicamente “diritti di proprietà industriale”. Si tratta, in altri termini, di privative a vantaggio del loro titolare e a scapito di terzi concorrenti. Per esempio, le medesime possono conferire al titolare dei diritti negativi, come ad esempio il diritto di privare altri dell’uso e della commercializzazione di un’invenzione o di un disegno.

Tali diritti si possono acquistare mediante:

  1. brevettazione
  2. registrazione

Sono oggetto di brevettazione: le invenzioni, i modelli di utilità e le nuove varietà vegetali; mentre sono oggetto di registrazione: i marchi, i disegni, i modelli e le tipografie dei prodotti a semiconduttori.

Posto che abbiamo già trattato questo tema qui e qui, se sei curioso di capire come funzionano le descritte privative, ti invitiamo a leggere gli articoli linkati.

Ma se io volessi tutelare le fasi del processo creativo … come posso fare? WIPO-Proof è la soluzione

Ti stai chiedendo quale strumento utilizzare per tutelare le varie fasi del processo creativo che ti sta conducendo all’implementazione della tua idea? In tuo soccorso c’è WIPO-Proof. Si tratta di un nuovo servizio online, messo a disposizione dalla World Intellectual Property Organization, che ha lo scopo di costituire una prova non falsificabile dell’esistenza di un file digitale in un determinato momento, tutelandolo indipendentemente dal fatto che il risultato divenga poi oggetto di un diritto di proprietà industriale.

Interessante, ma per cosa lo posso utilizzare?

WIPO PROOF è pensato per quelle opere che non possono godere della tutela accordata ai titoli di proprietà industriale sopra descritti, ma che sono protetti dalla legge sul diritto d’autore.

Tale sistema è particolarmente utile ogni qualvolta si voglia dare una data certa e riconoscere la paternità ad un’opera o ad un lavoro. Sono infatti caricabili sul sistema:

•           segreti commerciali

•           lavori creativi (audio, video, lavori letterari)

•           lavori artistici (pattern, lavori di architettura)

•           schemi tecnici, piani, progetti

•           Codice di programma

•           Ricerche (rapporti, note di laboratorio)

•           Algoritmi, sequenze genetiche

•           Documenti firmati digitalmente (contratti, lettere, certificati)

Ma quanto costa?

Non ti preoccupare del costo. Con poco meno di venti euro, poi tutelare in modo adeguato il tuo progetto. Tuttavia, WIPO offre anche altri servizi, per i cui costi ti invitiamo a visitare la seguente pagina.

Il consiglio dell’esperto

Come puoi vedere, hai a disposizione un ampio range di possibilità per proteggere la tua idea, il tuo progetto o la tua invenzione. Scegliere quella più adatta alle tue esigenze non è però facile. Per questo, ti consigliamo di rivolgerti sempre ad un esperto legale che saprà come indirizzarti al meglio.

Lo Studio Legale Soccol è sempre a disposizione per risolvere eventuali tuoi dubbi e per aiutarti a tutelare il tuo progetto.

Negli ultimi anni il settore agroalimentare ha assunto sempre più rilevanza non solo per i consumatori, ma anche per il Legislatore, che già a partire dal 2015, aveva elaborato un disegno di legge di riforma dei reati agroalimentari, che però era andato scemando.

L’esigenza di intervenire in tale settore è determinata dal fatto che l’attuale mercato degli alimenti appare inevitabilmente dominato dalle multinazionali del settore, soggette alla globalizzazione e a continue aggregazioni societarie che comportano un aumento di investimenti nel settore, rendendo la food company il principale referente criminologico.

Appare, dunque, evidente che anche in tale ambito possano configurarsi attività imprenditoriali scorrette unicamente volte ad aumentare i profitti dell’ente violando prescrizioni che regolamentano la produzione, conservazione e vendita dei prodotti alimentari.

Pertanto, risulta necessario il coinvolgimento delle persone giuridiche nei cd. reati agro-alimentari, che sebbene configurino condotte criminose di rilevante portata, ad oggi non rientrano nel novero dei reati presupposto di cui al Dlgs. 231/01.

Il nuovo disegno di legge

Alla luce di quanto sopra, lo scorso 25 Febbraio 2020, il Consiglio dei Ministri ha approvato il Ddl n. 283 rubricato “Nuove norme in materia di reati agroalimentari”, che è stato presentato alla Camera in data 6 Marzo 2020 ed è stato assegnato alla Commissione Giustizia per l’esame in sede referente il 23 Aprile 2020.

La riforma introduce una riorganzizzazione sistematica della categoria dei reati in materia alimentare, contemplando anche nuove fattispecie delittuose e incidendo sulla responsabilità amministrativa dell’ente.

Le nuove fattispecie di reato

Il Ddl interviene in modo organico sia sulla legge di riferimento, L. 283/1962, sia sul codice penale, anche mediante la contemplazione di nuove fattispecie delittuose tra cui il “reato di agropirateria” (art. 517 quater 1 c.p.) e di “disastro sanitario” (art. 445 bis. c.p.).

Nello specifico, il reato di agropirateria è volto a reprimere tutti quei comportamenti criminosi e dannosi che compromettono il prodotto alimentare ab origine, come ad esempio le condizioni degli animali, l’uso di prodotti chimici ecc…

Con riguardo, invece, al delitto di disastro sanitario esso si staglia come ipotesi aggravata e autonoma di singoli mini- disastri pregiudizievoli per la salute dai quali sia derivata: a) la lesione grave i la morte di 3 o più persone; b) il pericolo grave e diffuso di analoghi eventi ai danni di altre persone.

La responsabilità da illecito alimentare nel modello 231

Il summenzionato Ddl prevede l’introduzione dei reati agro-alimentari nel catalogo dei reati presupposto. In particolare, dalle Linee Guida del disegno di legge si desume che l’intervento del legislatore è finalizzato non solo ad allargare il novero dei reati presupposto, ma altresì ad incentivare l’applicazione concreta delle norme in tema di responsabilità degli enti, nonché favorire l’adozione e l’efficace attuazione di più puntuali modelli di organizzazione e di gestione da parte delle imprese anche di minore dimensioni.

In particolare, è prevista la scomposizione dell’art. 25 bis del D.Lgs. 231/01 in tre nuovi e distinti capi:

  • Art. 25 bis. 1: che rimane dedicato ai “Delitti contro l’industria e il commercio;
  • Art. 25 bis 2 rubricato “Delle frodi in commercio di prodotti alimentari”, punito con la sanzione pecuniaria tra le 100 e le 800 quote, oltre che l’applicazione di sanzioni interdittive temporanee limitatamente ai soli casi di condanna per il reato di agropirateria;
  • Art. 25 bis 3 rubricato “Dei delitti contro la salute pubblica” punito con la sanzione pecuniaria ricompresa tra le 300 e 1000 quote, oltre che l’applicazione di sanzioni interdittive temporanee nei casi di condanna per tutte le fattispecie ivi menzionate secondo una durata definita sulla base della gravità dell’illecito commesso.

Altresì, con riferimento agli art. 25 bis 2 e 25 bis 3 è prevista la possibilità di ricorrere all’applicazione nei confronti dell’ente della più grave misura dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività “nel caso in cui lo scopo unico o prevalente dell’ente sia il consentire o l’agevolare la commissione dei reati sopra indicati”.

Infine, il Ddl prevede l’introduzione dell’art. 6 bis, speciale rispetto all’art. 6 del D.Lgs. 231/01.

Tale disposizione detta una particolare disciplina da applicare solo alle imprese alimentari, prevedendo standard personalizzati per la creazione e l’implementazione di un Modello 231 integrato, per l’assolvimento di 3 classi di obblighi eterogenei con finalità di tutela diverse:

  1. Obblighi a tutela dell’interesse dei consumatori (art. 6bis lett. a) e b) D.Lgs. 231/01)
  2. Obblighi a protezione della genuinità e sicurezza degli alimenti sin dalla fase originaria di produzione (art. 6 bis lett. c), d) ed e) del D.Lgs. 231/01)
  3. Obblighi in merito agli standard di monitoraggio e controllo (art. 6 bis. lett. f) e g) D.LGS. 231/01)

Ad oggi, non ci è dato sapere, quando il provvedimento descritto entri in vigore. Tuttavia, nonostante l’incertezza, un aspetto è chiaro: il settore agro-alimentare, al pari di altri, per il suo florido dinamismo può essere terreno fertile per la commissione di diversi reati. Non si può escludere a priori la responsabilità della società per gli stessi, soprattutto se non la medesima dotata di Modello 231.

Non aspettate la riforma per implementare all’interno delle vostre Società un Modello 231: prevenire è meglio che…. pagare!

ferragamo-tutela-made-in-Italy

A partire dalla metà degli anni ’90, con la crescita delle economie del c.d. far east, e con l’inarrestabile espansione della globalizzazione dei mercati, è stato avvertito il pericolo per l’industria manifatturiera nazionale, derivante da una pluralità di pratiche connesse all’uso di marchi nazionali registrati o della stampigliatura «made in Italy», consistente nel:

1) l’apposizione di tali segni distintivi su prodotti realizzati interamente all’estero da imprese totalmente estere;

2) l’apposizione di tali segni distintivi su prodotti realizzati interamente all’estero da filiali di imprese italiane ovvero terziste di imprese italiane (c.d. delocalizzazione o outsourcing);

3) l’apposizione di tali segni distintivi su prodotti realizzati parzialmente all’estero e parzialmente in Italia.

In questo contesto si aprì un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale in ordine alla possibilità di sanzionare le suddette condotte tramite l’art. 517 c.p.[1] in materia di Vendita di prodotti con segni industriali mendaci.

In un primo momento la soluzione a cui pervennero dottrina e giurisprudenza fu quella di ritenere che l’art. 517 c.p., tutelasse solo la provenienza/origine del prodotto, intesa come la sua riconducibilità ad una determinata impresa produttrice e quindi ad una identità industriale definita, restando irrilevante l’aspetto concernente la sua provenienza geografica.

Tale soluzione lasciava un vuoto di tutela penalizzando fortemente quei produttori che avevano effettuato la coraggiosa scelta di non delocalizzare la propria produzione[2].

La necessità di colmare tale vuoto normativo e, allo stesso tempo, l’esigenza di dare concreta attuazione agli impegni internazionali presi con l’Accordo internazionale di Madrid[3] sulla repressione delle false o ingannevoli indicazioni di provenienza, portò a vari interventi da parte del legislatore[4] volti:

  1. Da un lato a tutelare la buona fede del consumatore ad acquistare un prodotto materialmente lavorato in Italia;
  2. Dall’altro lato a tutelare la capacità concorrenziale delle imprese nazionali che non ricorrono alla delocalizzazione dei processi produttivi.

Il quadro sanzionatorio che è emerso, anche a seguito di questi interventi, può essere così riassunto:

Quando un prodotto può dirsi “Made in Italy”? La risposta non è affatto immediata. Il Made in Italy negli anni è stato oggetto di un ricco e acceso dibattito nel contesto socio-politico non solo italiano ma anche comunitario ed internazionale. Si sono infatti avvicendati nel tempo numerosi provvedimenti normativi, da un lato volti a tutelare il consumatore che desidera conoscere l’effettiva provenienza della merce che acquista, dall’altro lato richiesti dai produttori per tutelare i propri manufatti da brutte-copie della concorrenza straniera.

Cerchiamo con questo articolo di mettere un po’ d’ordine dando alcune indicazioni per tentare di capire se effettivamente un determinato prodotto possa essere definito “Made in Italy” oppure no.

In linea generale, è universalmente accettato il principio in base al quale sono sempre considerate originarie di un Paese le merci ivi interamente ottenute, le quali possono quindi essere ragionevolmente definite autoctone[1].

Diversamente, quando la merce, di cui si deve stabilire l’origine, è ottenuta con l’utilizzo di materiali originari di Paesi diversi, la questione si complica e sono necessarie valutazioni più approfondite.

Innanzitutto, in tali casi, la legislazione di settore prevede – pressoché ovunque nei diversi mercati mondiali – regole particolari a seconda che si tratti di attribuire l’origine preferenziale o non preferenziale. Qui la questione inizia a complicarsi pertanto, per fare chiarezza ricordiamo che per origine:

  • Non preferenziale si intende quella che consente al consumatore di avere informazioni sull’effettivo luogo di produzione delle merci (questa è quella che interessa ai fini dell’attribuzione di un certo “Made in”). L’origine non preferenziale definisce quindi la “nazionalità” di un prodotto.
  • Preferenziale si intende quella che dà diritto a benefici tariffari (ingresso a dazio zero o a dazio ridotto) negli scambi tra paesi che hanno stipulato accordi di commercio preferenziale. Perché la merce possa essere considerata di origine preferenziale devono essere soddisfatte alcune condizioni specifiche indicate nei protocolli di origine degli accordi di commercio.

Per rispondere alla domanda, quando un prodotto può essere considerato “Made in Italy”, dobbiamo quindi fare riferimento alla sua origine c.d. non preferenziale. La norma di riferimento a tale fine è l’art. 24 del Reg. 2913/92 secondo cui “Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

La regola per stabilire se un determinato prodotto sia di origine non preferenziale Italiana è dunque quella della c.d. “trasformazione sostanziale” o “lavorazione che conferisce l’origine”.

Ai fini dell’individuazione dei requisiti sopra indicati il legislatore comunitario[2] fornisce un elenco tassativo di lavorazioni o trasformazioni in grado di conferire alla merce una determinata origine.

Ad esempio: nel caso di filati e monofilamenti (diversi dai filati di carta), perché si possano ritenere prodotti Made in Italy, dovrà avvenire in Italia il processo di fabbricazione – inteso come qualsiasi tipo di lavorazione o trasformazione, incluso l’«assiemaggio» – che parte dalle fibre naturali, non cardate né pettinate né altrimenti preparate per la filatura[3].

In alcuni casi il legislatore, oltre ad indicare quale tipo di lavorazione o trasformazione debba essere effettuata in un determinato territorio perché il prodotto in esso trovi origine, impone un requisito ulteriore connesso al valore del materiale “non originario” (sostanzialmente al valore della materia prima su cui si deve effettuare la lavorazione/trasformazione). In altri termini si richiede che le fasi di lavorazione o trasformazione abbiano un valore superiore – in percentuale determinata dal Reg. Cee n. 2454/93 – rispetto al costo della materia prima.

Facciamo un altro esempio per chiarire questa ipotesi. Nel caso di stampa di filati, accompagnata da operazioni di rifinitura in cui è compresa la testurizzazione in quanto tale, avvenuta in Italia, tali filati potranno ritenersi Made in Italy, solo qualora il valore della materia prima non superi il 48 % del prezzo franco fabbrica del prodotto.

Ci è di più. Il legislatore comunitario, al fine di evitare che alcuni produttori, per beneficiare di un determinato “Made in…” effettuassero lavorazioni fittizie o marginali, con una norma di chiusura ha precisato:

si considerano sempre insufficienti a conferire il carattere originario le seguenti lavorazioni o trasformazioni:

a) le manipolazioni destinate ad assicurare la conservazione dei prodotti tal quali durante il trasporto e il magazzinaggio (ventilazione, spanditura, essiccazione, rimozione di parti avariate e operazioni affini);

b) le semplici operazioni di spolveratura, vagliatura, cernita, classificazione, assortimento (ivi compresa la composizione di serie di prodotti), lavatura, riduzione in pezzi;

c) i) i cambiamenti d’imballaggio; le divisioni e riunioni di partite;

    ii) la semplice insaccatura, nonché il semplice collocamento in astucci, scatole o su tavolette, ecc., e ogni altra semplice operazione di condizionamento;

d) l’apposizione sui prodotti e sul loro imballaggio di marchi, etichette o altri segni distintivi di condizionamento;

e) la semplice riunione di parti di prodotti per costituire un prodotto completo;

f) il cumulo di due o più operazioni indicate alle lettere da a) ad e”)[4].

Il quadro normativo sino a qui delineato si basa sul Reg. Cee 2913/92 e relativo Regolamento di attuazione n. 2454/93, i quali a partire dal 1 maggio 2016 risulteranno superati per effetto dell’entrata in vigore del nuovo codice doganale, il Reg. Cee n. 952/2013.

Non solo, il panorama normativo di natura comunitaria, deve confrontarsi anche con la legge nazionale n. 55/2010 (anche nota come Legge Reguzzoni-Versace), la quale ha previsto:

4. L’impiego dell’indicazione «Made in Italy» è permesso esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione, come definite ai commi 5, 6, 7, 8 e 9[5], hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità.

Essendo la Legge in esame una “legge-quadro” necessita l’adozione di decreti attuativi per trovare applicazione. Tuttavia ad oggi tali decreti non sono ancora stati emanati[6]. In attesa della normativa di attuazione, il Presidente del Consiglio, su parere dell’Agenzia delle Dogane, ha chiarito che dovranno continuare a trovare applicazione i parametri stabiliti dal Regolamento europeo come precedentemente illustrati[7].

Per concludere la nostra analisi volta a chiarire quando un prodotto possa essere definito “Made in Italy”, ricordiamo che, l’articolo 16 del d.l. 135/09 convertito con legge n. 166/09, ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità di utilizzare il più stringente marchio “100% Made in Italy”. Se vuoi avere maggiori informazioni in merito clicca qui.


[1] Art. 23, Reg. Cee n. 2913/92.

[2] Reg. Cee n. 2454/93 agli allegati 10 per Materie tessili e loro manufatti.

[3] All. 9 e 10 Reg. Cee n. 2454/93.

[4] Art. 38 Reg. Cee n. 2454/93.

[5] Art. 1, commi 5-9 “Nel settore tessile, per fasi di lavorazione si intendono: la filatura, la tessitura, la nobilitazione e la confezione compiute nel territorio italiano anche utilizzando fibre naturali, artificiali o sintetiche di importazione. Nel settore della pelletteria, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, il taglio, la preparazione, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione. Nel settore calzaturiero, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione. Ai fini della presente legge, per «prodotto conciario» si intende il prodotto come definito all’articolo 1 della legge 16 dicembre 1966, n. 1112, che costituisca parte del prodotto finito o intermedio destinato all’abbigliamento, oppure all’utilizzazione quale accessorio da abbigliamento, oppure all’impiego quale materiale componente di prodotti destinati all’arredo della casa e all’arredamento, intesi nelle loro piu’ vaste accezioni, oppure come prodotto calzaturiero. Le fasi di lavorazione del prodotto conciario si concretizzano in riviera, concia, riconcia, tintura – ingrasso – rifinizione. Nel settore dei divani, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione del poliuretano, l’assemblaggio dei fusti, il taglio della pelle e del tessuto, il cucito della pelle e del tessuto, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione“.

[6] Art. 2, comma 1, l. n. 55/2010.

[7] Presidenza del Consiglio dei Ministri DCPC 0006554 del 30/09/2010; Agenzia delle Dogane Prot. 119919RU del 22/09/2010

Cos’è 100% Made in Italy? Facciamo un po’ d’ordine

Hai intrapreso una start-up innovativa nel settore moda con produzione in Italia? Produci da anni nel Bel Paese e vuoi che questo sia scritto a chiare lettere sul tuo prodotto? Sei un Italiano vero, uno dei pochi impavidi che non ha delocalizzato la propria produzione nei paesi dell’est o in un oriente ancora più estremo, e vuoi gridare al mondo il tuo eroismo?

Qualunque sia la tua posizione, se hai bisogno di capire una volta per tutte se puoi fregiarti del blasone 100% Made in Italy, evitando le sanzioni penali e amministrative previste dal nostro ordinamento, questo articolo fa a caso tuo.

Prima di procedere facciamo una piccola precisazione. Ad oggi chi vuole dichiarare l’italianità del proprio prodotto ha due alternative:

  1. Ricorrere al marchio Made in Italy, alle condizioni indicate nel Codice Doganale
  2. Ricorrere al più elitario marchio 100% Made in Italy. Riservato ai veri puristi della produzione italiana.

In questo contributo ci concentriamo sul 100% Made in Italy, se però tu sei alla ricerca di informazione sul semplice Made in Italy ti invitiamo a leggere qui.

Per poter utilizzare il marchio 100% Made in Italy (“Tutto italiano”, “100% Italia” e altre diciture analoghe) il tuo prodotto deve:

  1. essere classificabile come Made in Italy ai sensi della normativa vigente. La normativa vigente[1] (artt. 23 e 24 del Reg. 2913/92) – spiegata con maggiore dettaglio qui- prevede che le merci interamente ottenute in un unico Paese o territorio sono considerate originarie di tale Paese o territorio. Le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori sono considerate originarie del Paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione sostanziale. L’indicazione del marchio d’origine non è dunque concessa se l’attività di trasformazione non è svolta in Italia o se – anche svolta nel nostro Paese – è però marginale;
  2. essere disegnato, progettato, realizzato e confezionato esclusivamente sul territorio italiano[2].

Al fine di rendere evidente il giusto valore del prodotto realizzato in Italia, è stata elaborata e resa operativa la Certificazione 100% Made in Italy, da parte del ITPI (Istituto della Tutela dei Produttori Italiani), organismo nazionale iscritto al CNEL, già dal 2004, con la funzione di tutelare, valorizzare e promuovere il Made in Italy.

La certificazione volontaria rilasciata dall’ITPI alle condizioni chiarite nel sito dell’Organismo, di seguito riportate:

L’iter di Certificazione si avvia con la sottoscrizione volontaria da parte dell’Azienda del Regolamento del Sistema IT01 e della Richiesta di Certificazione.
I prodotti che il Produttore intende commercializzare, usando i marchi ed i segni distintivi “Made in Italy Certificate”, debbono avere i seguenti requisiti:

  1. Ideati e Fabbricati interamente in Italia
  • Realizzati con disegni e progettazione esclusivi dell’Azienda
  • Costruiti interamente in Italia
  • Realizzati con semilavorati Italiani
  • Con tracciabilità delle lavorazioni
  1. Costruiti con Materiali Naturali di Qualità
  • Materiali naturali individuali o composti
  • Materiali di qualità e prima scelta per l’uso previsto
  • Con tracciabilità della provenienza delle materie prime
  1. Costruiti su Lavorazioni Tradizionali Tipiche
  • Particolari lavorazioni aziendali
  • Utilizzo di tecniche tradizionali tipiche
  1. Realizzati nel Rispetto del Lavoro Igiene e Sicurezza
  • Realizzati nel pieno rispetto del lavoro
  • A norma igiene sanità e sicurezza su luoghi e prodotti

L’Istituto accerta la sussistenza dei requisiti ed accorda la Certificazione che ha validità 1 anno. Nel mese successivo all’ottenimento della Certificazione, un funzionario dell’Istituto verificherà la sussistenza dei requisiti sopra indicati e procederà al completamento dell’istruttoria con l’acquisizione della documentazione necessaria e la compilazione delle schede del Disciplinare. Entro la fine del mese successivo il funzionario confermerà all’Azienda l’ottenimento della Certificazione. L’Azienda sarà quindi iscritta nel Registro Nazionale Produttori Italiani”.

Come è possibile ricavare dagli stessi requisiti espressamente richiesti dall’ITPI, ovviamente, il fatto che le materie prime utilizzate per realizzare il prodotto finito siano acquistate all’estero, non pregiudica il conseguimento della certificazione a condizione che si tratti comunque di “Materiali naturali di Qualità” e sussistano tutti gli ulteriori presupposti sopra indicati.

L’Istituto ha provveduto ad istituire un sistema di tracciabilità per i prodotti certificati ” 100% Made in Italy”. L’azienda certificata dovrà utilizzare i segni distintivi rilasciati dall’Istituto, dotati di marchio olografico anti-contraffazione e di numerazione progressiva[3].

Nel caso di utilizzo al di fuori dei presupposti indicati, si incorre nel reato di contraffazione (art. 517 c.p.) punito con la reclusione fino a due anni e la multa fino a ventimila euro[4], aumentate di un terzo[5] in caso di utilizzo della dicitura di completa provenienza come “100%” o “Tutto italiano[6]”.

Per “uso” della suddetta indicazione si intende l’utilizzazione a fini di comunicazione commerciale o l’apposizione della dicitura sul prodotto, sulla confezione di vendita o sulla merce dalla presentazione in dogana fino alla vendita al dettaglio[7].


[1] Come è noto a far data dal 1 Maggio 2016, entrerà in vigore il nuovo Reg. 952/2013 come integrato dal Regolamento Delegato della Commissione 28 luglio 2015. Da tale data il riferimento dovrà ritenersi fatto all’art. 60 e ss., come previsto dalla tabella di corrispondenza del nuovo Codice Doganale.

[2] Art. 16, D.L. 135/2009 “Si intende realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano”.

[3] http://madeinitaly.org/certificazione-made-in-italy.php

[4] Modificato con il decreto competitività (d.l. 35/2005 conv. L. 80/05) che ha innalzato la pena pecuniaria del reato di contraffazione “da due milioni” a “ventimila euro”.

[5] Art. 16, comma 4, d.l. 135/2009.

[6] Anche chiamato full “made in Italy” dalla Circolare Ag. Dogane Rif.33281 R.I. del 12/11/2009.

[7] Art. 16, comma 3, d.l. 135/09.

Qualora tu non sia in grado di attribuire con certezza l’origine del tuo prodotto, puoi chiedere la c.d. informazione in materia d’origine vincolante (anche detta I.V.O.). Si tratta, appunto, di una informazione sull’origine del prodotto, avente efficacia vincolante, essendo l’esito di una vera e propria richiesta di certificazione dell’esatta provenienza delle merci, alle Autorità competenti.

È possibile ricorrere a questo strumento presentando alla Dogana un’istanza. Questo istituto è regolato dall’art. 12 del Codice Doganale Comunitario (Reg. Cee n. 2913/92)[1] e dagli artt. 6 e 7 del Reg. Cee n. 2454/93.

La richiesta può riguardare qualsiasi merce per la quale l’operatore non sia in grado, a causa di particolari processi produttivi o per utilizzo di materie prime provenienti da differenti Paesi, di stabilire con certezza l’esatta origine da attribuire ai prodotti.

L’informazione fornita è vincolante per tutte le amministrazioni degli Stati membri della Comunità[2] ed è valida per un periodo di tre anni dalla data del suo rilascio, a condizione che le merci importate o esportate e le circostanze che disciplinano l’acquisizione dell’origine corrispondano, sotto tutti gli aspetti, con quanto descritto nell’informazione[3].

La richiesta di I.V.O. dev’essere formulata per iscritto e presentata all’autorità doganale competente dello Stato membro o degli Stati membri in cui detta informazione deve essere utilizzata, oppure all’autorità doganale competente dello Stato membro in cui è stabilito il richiedente[4]. È necessario utilizzare il modulo predisposto dall’Agenzia delle Dogane[5].

La richiesta può riguardare sia l’origine non preferenziale, sia quella preferenziale delle merci[6] in base all’interesse sussistente in capo al richiedente. Questo interesse in particolare potrà riguardare:

  1. L’etichettatura nel primo caso, quindi la certificazione del “Made in…”;
  2. L’abbattimento dei diritti doganali nel secondo caso[7].

Un limite che caratterizza la richiesta di I.V.O. è rappresentato dal fatto che essa può riferirsi ad una merce sola[8]. Nell’ipotesi dunque in cui l’operatore desideri conoscere l’origine di più prodotti, oggetto del suo commercio, dovrà necessariamente presentare un numero di richieste I.V.O. pari al numero delle merci in questione.

L’informazione deve essere rilasciata dall’Autorità entro 150 giorni dal ricevimento della richiesta[9]. La richiesta d’informazione vincolante in materia d’origine deve contenere i seguenti elementi:

  1. a) nome e indirizzo del titolare;
  2. b) nome e indirizzo del richiedente nel caso in cui questi non sia il titolare;
  3. c) quadro giuridico adottato, ai sensi degli articoli 22 e 27 del codice[10];
  4. d) descrizione dettagliata e classificazione tariffaria della merce;
  5. e) all’occorrenza, composizione della merce, metodi di esame eventualmente utilizzati per la sua determinazione e il suo prezzo franco fabbrica;
  6. f) condizioni che permettono di determinare l’origine, la descrizione delle materie utilizzate e le relative origini, le loro classificazioni tariffarie, i valori corrispondenti e la descrizione delle circostanze (regole relative al cambiamento di voce, al valore aggiunto, alla descrizione della lavorazione o trasformazione, o qualsiasi altra regola specifica) che hanno permesso di soddisfare le condizioni in questione; in particolare, devono essere indicate la regola di origine specifica applicata e l’origine prevista per la merce in questione;
  7. g) eventuale fornitura sotto forma di allegati, di campioni, fotografie, schemi, cataloghi o altra documentazione, relativi alla composizione della merce e alle materie che la compongono, tali da illustrare il processo di fabbricazione o di trasformazione subito da queste materie;
  8. h) impegno di fornire, su richiesta dell’autorità doganale, una traduzione della documentazione eventualmente acclusa nella lingua o in una delle lingue ufficiali dello Stato membro interessato;
  9. i) indicazione degli elementi da considerare riservati, indipendentemente dal fatto che riguardino il pubblico o le amministrazioni;
  10. j) indicazione da parte del richiedente se, per quanto gli risulta, è stata già chiesta o fornita nella Comunità un’informazione tariffaria vincolante o un’informazione vincolante in materia d’origine per una merce identica o simile a quelle menzionate alle lettere d) o f);
  11. k) accettazione che le informazioni fornite siano inserite in una banca dati della Commissione accessibile al pubblico; tuttavia, oltre al disposto dell’articolo 15 del codice, si applicano le disposizioni in materia di protezione delle informazioni in vigore negli Stati membri[11].

La richiesta di I.V.O., pertanto, non sarà accettata se:

– non è conforme al modello di richiesta fornito dall’Agenzia delle Dogane;

– il richiedente è stato condannato per un reato grave connesso alla sua attività economica;

– il richiedente, nel momento in cui presenta la richiesta, è oggetto di una procedura fallimentare.

– le merci dichiarate nella richiesta siano quelle escluse ai sensi dell’art. 3, comma 2, della predetta Determinazione Direttoriale del 14 dicembre 2010 (armi, stupefacenti, oggetti d’antiquariato, esemplari di fauna e flora protetta, materiale radioattivo, ecc.). [12]


[1] Dal 1 Maggio 2016, la norma di riferimento sarà invece l’art. 33 e ss. del nuovo Regolamento n. 952/2013.

[2] Art. 5 Reg. Cee n. 2454/93, art. 12 Reg. Cee n. 2913/92.

[3] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli.

[4] Art. 6, comma 1, Reg. Cee n. 2454/93.

[5] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli

[6] A questo proposito si ricorda che per ogni prodotto ci possono essere due origini, questo dipende da quale delle due definizioni prendiamo come riferimento. La prima definizione di origine (non preferenziale) viene stabilita da ogni paese in base alle proprie esigenze interne; la seconda (preferenziale) è costituito dall’accordo tra due o più paesi. La certificazione di origine preferenziale compete alle Autorità doganali, quella dell’origine non preferenziale alle Camere di Commercio.

[7] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli

[8] Art. 6, comma2, Reg. Cee n. 2454/93.

[9] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli, e art. 6, comma 4, Reg. Cee n. 2454/93.

[10] Reg. Cee n. 2913/92.

[11] Art. 6 , comma 3, lettera B) del Reg. Cee n. 2454/93.

[12] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli