Type a keyword and hit enter to start searching. Press Esc to cancel.

Categoria: Sostenibilità

Avv. Manuela Soccol e Dott. Davide Beatrice

Abstract

Alla luce della recente approvazione del testo del Data Governance Act, avvenuta il 6 aprile 2022, se ne tracciano dapprima brevemente i punti nodali, per poi soffermarsi sul tema dell’Altruismo dei dati. Questo concetto e le sue estrinsecazioni rappresentano uno snodo fondamentale di questo regolamento. La domanda principale che bisogna porsi però è: le sue previsioni sul tema impatteranno davvero la realtà o resteranno lettera morta?

Il Data Governance Act

Il Data Governance Act[1] è un regolamento che va ad innestarsi in un ambizioso progetto europeo di armonizzazione e regolamentazione dei dati personali e del loro utilizzo. La società odierna poggia ormai le sue basi sul concetto di dati che, come definiti dall’art. 2 del DGA, includono “ogni rappresentazione digitale di atti, fatti o informazioni e ogni raccolta di tali atti, fatti o informazioni, incluse le registrazioni sonore, visive o audiovisive”[2]. Risulta consequenzialmente opportuno procedere ad una pianificazione quanto più condivisa ed organica sul tema, seguendo l’approccio che l’Unione ha sempre avuto riguardo tale materia: regolamentare non per inibire, ma bensì per incentivare un uso consapevole dei dati.

Dopo un discreto periodo di gestazione, il suo testo è stato approvato dal Parlamento Europeo il 6 aprile 2022[3] e si fonda su tre pilastri fondamentali. Il primo di essi è il riutilizzo dei dati nel settore pubblico, strumento chiave al fine di consentire una digitalizzazione efficiente e proficua degli apparati statali che, sempre di più, si affidano a sistemi basati su algoritmi e intelligenze artificiali, i quali richiedono, ai fini del loro fisiologico processo di learning, una grande mole di dati da processare.

Il secondo pilastro si basa, invece, sulla diffusione dei dati attraverso intermediari. La scelta di questo tipo di sistema di condivisione poggia il suo sostrato sulla possibilità di poter garantire maggiori standard sia qualitativi, in riferimento alla bontà dei database stessi, sia di sicurezza ed accountability nel processo di raccolta, gestione e concessione di questi ultimi, nonché di trasparenza per quanto concerne il diritto di accesso e i costi ad esso connessi.

L’ultimo pilastro, fulcro di questo articolo, si pone un obiettivo di grande levatura sociale e morale ed è menzionato sotto il concetto di “Altruismo dei dati”. Esso viene definito dall’art. 2 co. 16 del DGA come “la volontaria diffusione di dati, sulla base del consenso dell’interessato nel trattare i dati personali che lo riguardano o l’autorizzazione del Titolare all’utilizzo dei suoi dati non personali senza ricercare o ricevere un compenso che vada oltre alla compensazione dei costi in cui incorre al fine di rendere tali dati disponibili per obiettivi di interesse generale come previsto dal diritto nazionale, ove applicabile, come ad esempio: sanità, contrasto al cambiamento climatico, miglioramento della mobilità, facilitazione dello sviluppo, produzione e diffusione di statistiche ufficiali, miglioramento della fornitura di servizi pubblici, dell’elaborazione di politiche pubbliche o della ricerca scientifica nell’interesse generale[4].

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha coinvolto le imprese anche dal punto di vista del loro assetto organizzativo. In particolare, le imprese che hanno deciso di dotarsi di Modelli Organizzativi, ai sensi del d.lgs. 231/2001, hanno dovuto valutare la tenuta dei loro Modelli e il ruolo dell’Organismo di Vigilanza.

Sul tema, Confindustria ha emanato, nel presente mese, delle linee operative che aiutano le imprese dotate di un Modello 231, ad affrontare l’emergenza.

Il profilo di rischio indiretto

La situazione che le imprese hanno vissuto e stanno vivendo può comportare un aumento del rischio di commissione di alcuni dei reati presupposto. Invero, basti pensare alla famiglia dei reati corruttivi (reati contro la PA, corruzione tra privati), reati che possono più facilmente essere commessi in un periodo di crisi finanziaria (ad esempio, per la partecipazione a procedure di gara semplificate, piuttosto che per accedere ad ammortizzatori sociali o per continuare l’attività produttiva nel periodo del lock down).

Non solo di corruzione si occupa il d.lgs. 231/2001.

Difatti, l’impresa potrebbe incorrere nella commissione di ulteriori reati (es. ricettazione, riciclaggio, impiego di cittadini di Paesi terzi con permesso irregolare) anche attraverso i propri dipendenti in smart working. Non dimentichiamo invero che nell’alveo del catalogo 231, sono annoverati anche i reati informatici e le violazioni del diritto d’autore. Basti pensare all’utilizzo promiscuo dei dispositivi personali anche per finalità lavorative e al rischio che possano essere, ad esempio, utilizzati software non originali.

Risulta pertanto necessario procedere alla modifica del Modello 231?

Come correttamente indicato da Confindustria, i rischi sopra richiamati sono rischi indiretti e trasversali alle varie tipologie aziendali. Tali rischi invero avrebbero dovuto già essere valutati e mappati all’interno del Modello 231 e l’impresa avrebbe dovuto dotarsi di procedure idonee a ridurre al minimo, se non ad eliminare, il rischio di commissione di reato. Qualora l’azienda non abbia adempiuto in tal senso, si presenta in ogni caso l’occasione per procedere ad una nuova analisi e valutazione del rischio a cui seguirà poi l’adozione di procedure specifiche.

Per le imprese invero che hanno già adottato siffatte procedure, probabilmente si renderà necessario procedere ad un loro rafforzamento.

Rischi diretti

I rischi invece che direttamente impattano sull’impresa sono quelli connessi al rischio di contagio da Covid-19, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Ad ogni modo, il rischio di commissione dei reati di omicidio colposo e lesioni personali gravi e gravissime, commessi in violazione delle norme antinfortunistiche, erano già parte del catalogo 231, prima dell’emergenza epidemiologica. Ne deriva che, il rischio di contagio da Covid-19, diventa un ulteriore rischio specifico che non impatta però sui presidi di carattere generale. In altri termini il Covid-19 non impone l’adozione di un sistema gestionale ad hoc per tale rischio.

Diversamente, nell’ipotesi in cui l’impresa abbia deciso di integrare le procedure sicurezza all’interno del Modello 231, si dovrà invece valutare se procedere alla loro revisione oppure alla creazione di un addendum specifico.

In ogni caso, onere del datore di lavoro è quello di predisporre le misure idonee a tutelare i lavoratori da tale rischio.

Data l’assoluta novità di tale virus, il datore di lavoro dovrà attenersi alle misure di contenimento che sono state individuate, e che verranno via via individuate in futuro, dalle Autorità Pubbliche (sul tema si veda il nostro contributo video).

Organismo di Vigilanza

L’Organismo di Vigilanza, in tale contesto, deve procedere a rafforzare il proprio controllo sulla corretta ed efficace implementazione del Modello 231 esistente, nonché sulle misure adottate dal datore di lavoro nel rispetto di quanto indicato dalle Autorità Pubbliche. L’OdV dovrà mantenere un costante confronto con i vertici aziendali e con il comitato per l’applicazione e la verifica dei presidi indicati dalle Autorità Pubbliche per evitare il contagio da Covid-19.

Il monitoraggio della situazione aziendale viene garantito dai flussi informativi tra i responsabili di funzione e l’OdV, che si ritiene debbano essere potenziati in tale periodo. Invero, l’OdV dovrà essere tenuto in costante aggiornamento circa le misure adottate in azienda, circa gli strumenti, anche di natura finanziaria, messi in campo per arginare l’eventuale crisi economica (es. ammortizzatori sociali, finanziamenti a fondo perduto etc).

L’OdV conserva in ogni caso il proprio ruolo propulsivo nell’ipotesi di inerzia dell’impresa, ovvero nel caso in cui, ad esempio, l’impresa non proceda ad adottare le misure poste a presidio del contagio.

Nell’emergenza epidemiologica il Modello 231 e tutta la compliance aziendale rappresenta un valido presidio per la gestione del rischio di commissione dei reati del d.lgs. 231/2001.

Vi invitiamo a contattare lo Studio per ogni ulteriore approfondimento.

Sono molti i termini utilizzati dalle aziende per indicare e qualificare il loro impegno in progetti legati alla sostenibilità, anche coniugandola con tradizione e Made in Italy, tramite la ricerca in innovazione.

Dopo il caso del manichino eco-sostenibile, vediamo un altro caso di eccellenza italiana ‘green’, nel settore dell’abbigliamento.

Per Eurojersey, azienda specializzata in tessuti tecnici, quella che è stata l’intuizione per il miglioramento del processo produttivo è stata la scelta di non delocalizzare. Una scelta forte, non priva di lati “scomodi”, ma lungimirante, volta alla realizzazione del tessuto sul proprio territorio: tale decisione ha permesso all’azienda di prendersi cura direttamente, sia del prodotto che realizza, sia della salute del territorio stesso.

Proprio da questa scelta e filosofia produttiva sono derivati importanti vantaggi di costo che hanno portato ad un’evoluzione dei prodotti aziendali, per mezzo di una continua ricerca interna, anche in ottica di un crescente abbattimento dei costi ambientali.

In particolare, la ricerca si è tradotta nel risparmio diretto di risorse impiegate nel ciclo produttivo, nell’innovazione nella fase di stampa dei tessuti (con il metodo brevettato Eco-Print), e nel packaging dei tessuti: tutti step intrapresi ed orientati al miglioramento qualitativo delle lavorazioni, da cui è derivato un vantaggio in termini di sostenibilità.

Per rendere documentati i risultati, Eurojersey ha proceduto a certificare il processo produttivo, con la certificazione EPD (Environmental Product Declaration) che permette di quantificare l’emissione di Co2 per mq di tessuto prodotto.

Una rete forte e una filiera corta: la giacca a basso impatto

Le leve strategiche del caso Eurojersey sono state il Made in Italy, il ricorso alla filiera corta e l’utilizzo del contratto di rete tra imprese. Credendo in questo, è nata una partnership con RadiciGroup, importante realtà italiana nella produzione di nylon, ed Herno S.p.A., azienda specializzata nell’urban outerwear di qualità.

Dalla sinergia fra queste tre eccellenze italiane prende avvio uno studio per la produzione di una giacca dall’impatto ambientale certificato, primo e unico studio scientifico in Europa di sostenibilità su un capo moda, che si traduce in una giacca 100% Made ‘green’ in Italy.

Il punto di partenza è stata la metodologia PEF (Product Environmental Footprint), introdotta nell’UE attraverso la Raccomandazione 2013/179/CE, che tiene in considerazione 16 parametri – tra cui il consumo di energia primaria, gli effetti cancerogeni sull’uomo, l’utilizzo del suolo, quello dell’acqua, e molti altri – per determinare l’impronta ambientale dei prodotti e stabilire la conformità con lo schema nazionale volontario per l’etichettatura “Made Green in Italy”[1].

L’obiettivo dello studio, che ha portato alla realizzazione del capo, è stato quello di valutare l’impatto ambientale di una giacca da uomo lungo tutte le fasi del suo processo produttivo, dal filo al tessuto, fino al confezionamento del capo pronto, interamente realizzato in Italia.

Il monitoraggio dell’impronta ambientale ha avuto come oggetto nello specifico:

  • Il consumo di energia primaria
  • I cambiamenti climatici
  • La riduzione dello strato di ozono
  • L’acidificazione
  • L’eutrofizzazione acquatica, marina e terrestre
  • Gli effetti cancerogeni sull’uomo
  • Altra tossicità non cancerogena sull’uomo
  • La tossicità sull’ambiente (ecotossicità)
  • L’emissione di polveri sottili
  • Le radiazioni iodizzanti
  • L’utilizzo del suolo
  • L’impoverimento delle risorse minerali, fossili e rinnovabili
  • L’impoverimento delle risorse idriche.

La giacca ‘green’ è stata presentata nel corso dell’ultima edizione di Pitti Immagine Uomo all’interno della collezione primavera-estate 2017.

Il capo, realizzato con filati del Gruppo Radici e tessuti Sensitive® Fabrics by Eurojersey, ha consentito una riduzione dell’utilizzo delle risorse idriche, con parametri inferiori allo 0,4%: un traguardo importantissimo se confrontato con l’indicatore riferito ai consumi medi annui di un cittadino europeo.

Il progetto è proseguito con una valutazione “parallela” dell’impatto della produzione dello stesso capo, realizzato però con una modalità alternativa rispetto al suo confezionamento in filiera corta. L’esperimento ha evidenziato dei valori di emissioni di Co2 pari al 92% in più rispetto alla produzione in Italia!

Complessivamente, il costo per l’ambiente della giacca prodotta all’estero è stato di 5,22 €, contro gli 1,97 € del costo per la produzione dello stesso capo in Italia. Il modello “a filiera lunga” sarà anche meno oneroso in termini di costi diretti per la produzione di capi di abbigliamento, ma ha un costo per l’eco-sistema del 165% in più.

[1] In tema di costi ambientali, si richiama anche la legge italiana del 28 dicembre 2015 n. 221, che disciplina le disposizioni in materia ambientale per la promozione di misure di green economy e il contingentamento dell’uso eccessivo di risorse naturali, con particolare riferimento all’art. 21.

I consumatori rivendicano sempre più il diritto di controllare le fasi dei processi produttivi aziendali, per ottenere una sempre maggiore trasparenza e qualità del prodotto finale

Negli ultimi anni, i consumatori sono sempre più attenti ad aspetti che esulano dal semplice prezzo del bene e dalla sua qualità. L’opinione pubblica, oramai, sembra non accettare più che alcuni temi restino di dominio esclusivo della politica (quali il rispetto ambientale, la tutela di alcuni prodotti e tradizioni tipiche, il rispetto dei diritti umani inalienabili) di conseguenza ha cominciato a far pressione sulle imprese affinché queste inizino ad assumersi le proprie responsabilità non solo nei confronti dello sviluppo ambientale sostenibile, ma anche in relazione ai diritti umani sia dei propri dipendenti, sia di coloro che hanno a che fare – anche indirettamente – con tali organizzazioni. I consumatori infatti si interessano a tematiche quali il rispetto dell’ambiente, l’utilizzo di sostanze biodegradabili, lo sfruttamento del lavoro minorile, il rispetto dei dipendenti, il ricorso di punizioni corporali o multe verso i lavoratori. Questa tendenza sempre più marcata ed esplicita si sta facendo sempre più strada nella coscienza dei consumatori al punto che gli imprenditori non possono più non tenerne conto. È opportuno sottolineare che tutte le principali conquiste sociali finora acquisite sono il frutto di lunghe e  d intense battaglie da parte di quell’opinione pubblica maggiormente sensibile a particolari argomenti. Nel corso degli anni, sono sempre stati i consumatori ad essere una leva di cambiamento per le imprese: basti pensare alla certificazione qualità (ISO 9001) nata per garantire il consumatore finale sulla qualità di un prodotto o di un servizio. Oppure alla più recente certificazione ambientale (ISO 14001), sviluppata per monitorare le gestioni ambientali nell’impresa.

L’impresa “etica”

Da qualche anno, i consumatori si stanno chiedendo cosa si cela dietro la marca dei prodotti che comprano. Domande come “i miei vestiti o i cosmetici che compro sono costruiti in un’officina malfamata? Le mie scarpe sono fabbricate utilizzando lo sfruttamento di minori? Il mio ristorante preferito discrimina contro le donne e le minoranze?” sono sempre più frequenti. Ultimamente, si sta facendo sempre più strada nell’opinione pubblica una particolare attenzione etica verso il prodotto da acquistare. Ma, concretamente, cosa significa essere un’impresa eticamente a posto? Un’azienda che fa lavorare bambini con meno di quattordici anni o, addirittura, di nove (secondo l’UNICEF sono 250 milioni i minori che lavorano nel mondo; più di 500 mila in Italia, secondo dati di ISTAT), un datore di lavoro che infligge ai suoi dipendenti punizioni corporali o violenze psicologiche o, quantomeno, li copre di insulti, un imprenditore che costringe i suoi operai a lavorare più di 60 ore settimanali, un altro che non concede neppure un giorno di riposo su sette, non si possono definire certo condotte eticamente corrette. Cosa pensereste di un’azienda responsabile di uno o più di questi comportamenti? Comprereste ancora i suoi prodotti, magari allettati da un prezzo più basso? Oramai, buona parte dei consumatori responsabili ricercano sempre maggiori informazioni di questo tipo sul prodotto acquistato, non s’accontentano più di prodotti qualitativamente buoni e che rispettino l’ambiente, ma vogliono – anzi pretendono – che chi li ha realizzati assicuri loro d’aver rispettato almeno i principi basilari dei diritti umani riconosciuti.

A questo punto, però, si presenta un altro interrogativo: chi garantisce che quanto dice l’azienda risponda a verità? È sufficiente una scritta sul pallone o sul vestito ad assicurare il mancato sfruttamento di lavoro minorile? Sembra proprio di no: alcune ricerche hanno messo in luce che le aziende, “mettendo in atto politiche di impegno sociale soltanto per fini economici, cioè strumentalizzando comportamenti di apparente disponibilità e impegno, restano ancorate alla vecchia contrapposizione di interessi tra impresa e consumatore” e quindi “non sono ancora riuscite a realizzare un salto radicale nella comunicazione con i propri stakeholder, ed in particolare con i consumatori”[1]. L’autocertificazione, evidentemente, non basta. È necessario, quindi, un ente esterno ed indipendente all’impresa che assicuri, monitori e verifichi il raggiungimento di standard etici prefissati. Questo problema della tutela dei lavoratori, minorenni o adulti che siano, non è certo un’esclusiva del Terzo mondo. Basti pensare a tutti i laboratori più o meno clandestini scoperti nell’ultimo decennio in Italia (e non solo nel meridione) in cui giovanissimi (soprattutto ragazzine) erano costretti a lavorare con orari massacranti e retribuzioni da fame.

Se l’obiettivo principale dell’imprenditore è spendere il meno possibile, una strategia usata per raggiungere tale obiettivo è risparmiare sugli operai, magari assumendo soggetti “deboli” (giovani, donne, bambini e bambine). Di solito, al “primo livello di subappalto è difficile riscontrare irregolarità vistose ed ‘eccessi’ nello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, anche perché è più semplice il monitoraggio. Al secondo livello (in cui si effettuano le lavorazioni di alcune parti del prodotto finito), invece, essendo più difficile effettuare un controllo accurato, è più probabile che si verifichino delle irregolarità.

I requisiti per ottenere la certificazione

 Il tentativo di fornire una certificazione ‘etica’ alle aziende che rispettano gli standard sociali riconosciuti si è concretizzato col marchio SA 8000, che riprende lo stesso criterio della certificazione a norma ISO 9000. Dopo indagini accurate, le imprese che rispondono ai requisiti etici prestabiliti otterrebbero la certificazione, acquisendo così il diritto d’apporre sulla propria merce un marchio riconoscibile dal consumatore. Quest’ultimo avrà così la garanzia che un organismo esterno ed indipendente all’azienda avrà controllato – e continuerà a monitorare periodicamente – il comportamento dell’impresa. Proprio come la certificazione ISO 9001, quella etica estende i suoi effetti non solo ai produttori, ma agisce anche a monte, sui fornitori. Prima di essere produttori, infatti, le imprese sono acquirenti di beni realizzati da altri, per cui un’azienda certificata a livello etico dovrà controllare anche i propri acquisti, imponendo così ai fornitori lo stesso rispetto delle regole etiche a lei richieste. Ma quali sono questi ‘requisiti etici’ da rispettare? Innanzitutto va specificato che per ottenere la certificazione ‘etica’ le imprese devono rispondere ad una serie di requisiti minimi individuati dall’Agenzia di Accreditamento creata dal Council on Economic Priorities (CEPAA). Questi ‘requisiti etici’ sono basati principalmente sui modelli dei diritti umani internazionali già esistenti, quali la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione dei Diritti del Bambino e le varie Convenzioni dell’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) riguardo la regolamentazione del lavoro (minorile e non). La certificazione SA 8000 è, come già accennato, costruita sui meriti provati delle tecniche di verifica ISO, in cui si specificano azioni correttive e preventive, s’incoraggiano continui miglioramenti e ci si concentra sui sistemi di gestione e di documentazione aziendali che forniscono a questi sistemi efficacia. Una particolarità rispetto a tutti gli altri standard previsti dai sistemi di certificazione, è il ruolo previsto per le Organizzazioni Non Governative ed i Sindacati del Paese in cui l’impresa ha le sue fabbriche: è insieme con loro che vengono espletate le procedure di accreditamento che devono tenere conto delle particolarità locali. A queste organizzazioni, inoltre, è riconosciuto il diritto di denunciare il mancato rispetto delle regole previste dal protocollo. Se le accuse sono fondate, la certificazione può essere revocata.[2]

Gli standard di riferimento

La certificazione etica SA8000 fornisce degli standard trasparenti, misurabili e verificabili in nove aree essenziali:

lavoro minorile: ovviamente è proibito il lavoro dei minori al di sotto dei quindici anni e qualora l’azienda se ne fosse avvalsa in passato deve impegnarsi a riparare garantendo ai bambini la possibilità di poter partecipare a programmi di recupero. Inoltre, le imprese certificate devono disporre un fondo per l’educazione dei minori che potrebbero perdere il lavoro a causa dell’osservazione di questi standard;

lavoro forzato: anch’esso è proibito. Ai lavoratori non può essere richiesto di cedere i propri documenti o di pagare un “acconto” come condizione per lavorare;

salute e sicurezza: le imprese devono rispettare gli standard minimi per un ambiente di lavoro sicuro e salubre, includendo in ciò almeno l’accesso all’acqua potabile, una stanza in cui riposarsi, un equipaggiamento di sicurezza adeguato e la formazione necessaria per svolgere il lavoro;

libertà di associazione: deve essere garantito il diritto di formare ed unirsi in un sindacato a scelta e di poter richiedere un contratto collettivo, senza che ciò generi ritorsioni o intimidazioni verso i lavoratori;

discriminazione: non si devono verificare discriminazioni razziali, di casta, di nazionalità, religione, genere, disabilità, orientamento sessuale, d’appartenenza sindacale o politico;

pratiche disciplinari: sono proibite, ovviamente, le punizioni corporali, la coercizione fisica come quella mentale, le multe e l’ingiuria nei confronti dei lavoratori;

orario di lavoro: si possono fare al massimo 48 ore settimanali, con (minimo) un giorno di riposo alla settimana. Gli straordinari, se previsti, non possono superare le 12 ore settimanali e vanno retribuiti con una tariffa speciale;

salario: deve rispettare tutti gli standard minimi legali locali e fornire una rendita sufficiente per coprire almeno i bisogni primari, se non qualcosa in più;

sistema organizzativo: le imprese devono nominare un rappresentante responsabile della politica aziendale, pianificare ed eseguire i controlli richiesti, selezionare i fornitori rispetto alla loro conformità agli standard etici, realizzare le azioni correttive necessarie per la certificazione etica, rendersi disponibili alle verifiche mostrando la documentazione ed i registri necessari.

Dal punto di vista di un’impresa, quanto conviene richiedere la certificazione etica? È veramente un vantaggio avere anche questo certificato oppure rimane solo un ulteriore onere? E, soprattutto, quali sono poi i benefici che otterrebbe da questa certificazione? A parte l’adesione morale a questi principi etici (che gran parte degli imprenditori probabilmente condividerà), al momento della scelta – se aderire o meno a questa certificazione – inevitabilmente emergeranno dubbi e perplessità. Il rischio reale che si presenta nel vaglio delle possibilità (aderire o non aderire?) è di progettare il proprio futuro imprenditoriale – e quindi i relativi investimenti – con una concezione del profitto a breve termine, legato al vantaggio immediato. A causa della pressante concorrenza e del ruolo che l’immagine aziendale gioca per i consumatori, è necessario, oramai, avere una concezione strategica del profitto – e quindi degli investimenti necessari per realizzarlo – per poter rimanere nel mercato. In queste nuove coordinate d’analisi l’ottica a lungo termine diventa vincente e, quindi, concetti quali credibilità, immagine aziendale, visibilità pubblica, impegno ambientale, responsabilità sociale ed etica, assumono connotati nuovi e primari, sia nell’ottica dei consumatori che degli investitori. È opportuno considerare che queste osservazioni hanno valore sia per le multinazionali, sia per le piccole-medie imprese le quali dovranno confrontarsi sempre più spesso con le prime. In questa situazione concorrenziale sarà sempre più importante – se non strategico – l’immagine sociale, che l’azienda riuscirà ad offrire all’opinione pubblica. Se questa verrà gestita ad un livello pari all’improvvisazione, probabilmente i risultati faranno riferimento prevalentemente al caso. Diversamente, se l’impresa gestirà attivamente la propria immagine consapevole non solo dei possibili rischi, ma, soprattutto, delle eventuali occasioni legate al mercato, si otterrà un ritorno d’immagine più corrispondente ai risultati desiderati. A questo punto è essenziale domandarsi: è possibile stimare in termini economici un crollo d’immagine? Ed un possibile rialzo?

[1] M. Crivellaro, G. Vecchiato, F. Scalco – Sostenibilità e rischio greenwashing, 2012

[2] Come chiarito nel SA8000:2014 Standard, al punto 22. Stakeholder engagement, sa-intl.org

Da quando i cicli della moda si sono sempre più ridotti, l’industria del fashion, per tenersi al passo con la domanda, ha adottato tecniche di produzione con effetti nefasti sull’ambiente, al punto da compromettere le pratiche ambientali per la sostenibilità.
Negli ultimi decenni l’incremento dei ritmi produttivi e di comportamento della domanda, con produzioni sempre più low-cost, e acquisti sempre più compulsivi, hanno generato un fenomeno di “fast fashion”, con produzione di collezioni sempre più frequente, moltiplicazione delle “stagioni della moda” proposte annualmente, sempre più consistenti rispetto al passato. Per avere un’idea, si stima che oggi si producano oltre il 400% di capi moda in più rispetto a 20 anni fa; articoli che per lo più restano inutilizzati, e gettati a tonnellate, diventando rifiuti ben prima della fine della loro vita utile, spesso ancor prima del suo inizio. Lo spreco la fa da padrone.

Con l’aumentare del ritmo dei cicli della moda, l’industria ha preso ad adottare tecniche di produzione sempre meno sostenibili, per poter mantenere margini adeguati ai vincoli di domanda e offerta da ottemperare.

Dal lato della domanda, però, i consumatori si stanno dimostrando sempre più sensibili rispetto alle tematiche ambientali, e richiedono che le aziende lo dimostrino. Con azioni concrete e verificabili.

Per agire alla radice della questione occorrono azioni che partono dall’interno del settore. Deve esserci un cambio di rotta dall’origine dalla questione, insomma,       e in senso culturale.

Fra le iniziative per la diffusione di una cultura d’impresa orientata alla sostenibilità, ce n’è una che affronta il tema della moda responsabile sotto la lente delle sue molteplici sfaccettature.

Un corso che insegna a fare moda responsabile

Out of fashion, corso di formazione sulla cultura della moda sostenibile, etica e innovativa, ideato dall’agenzia di ricerca Connecting Cultures e giunto alla sua terza edizione, che prenderà avvio dal prossimo gennaio. Sei masterclass tratteranno come dei moduli tematici gli argomenti della sostenibilità nel settore della moda, dell’arte, dell’etica, della produzione, della comunicazione e dell’economia.

Il corso non si rivolge solo a giovani professionisti interessati ad avviare un’attività o a lanciare il proprio marchio nell’ambito della moda sostenibile, ma anche agli operatori già attivi nel settore e che desiderano ampliare ed approfondire le proprie conoscenze in vari campi della sostenibilità nel settore dell’industria tessile, del design e della moda in generale, oltre a chiunque a cui interessi una formazione culturale nel conscious fashion.

L’iniziativa permetterà a un gruppo di professionisti ed interessati al settore di trovarsi assieme, permettendo di aumentare lo scambio di conoscenze sul tema e creare un network di figure specializzate nel settore, esperti e operatori accomunati dall’interesse per la sostenibilità, che in seguito potranno collaborare alla realizzazione di progetti.

Visione progettuale

E’ proprio la visione progettuale e culturale del sistema moda fondate sui criteri dell’innovazione e della sostenibilità, a cui risponde l’iniziativa di Out of fashion.

La struttura modulare in cui è stato articolato il corso permette ai partecipanti di scegliere le materie maggiormente di loro interesse.

Il corso prevede la partecipazione a tre o più dei sei moduli proposti, con l’opzione finale di accedere al programma gratuito di pre-incubazione di impresa.

In questo modo, attraverso un programma completo di formazione ma anche specifico sui temi affrontati, i partecipanti avranno la possibilità anche di apprendere il percorso di avvio di una start-up propria nell’ambito della moda sostenibile ed innovativa.

I moduli di Out of fashion

I contenuti della prima parte del percorso formativo è diviso nei seguenti moduli tematici di approfondimento:

  1. Green fashion: materiali e impatto ambientale
  2. Ethically made?
  3. Moda tra arte e design
  4. Il sistema dei makers
  5. Alto artigianato e innovazione
  6. Comunicare la moda e il brand

I temi della moda sostenibile vengono quindi affrontati sotto molteplici aspetti e sfaccettature, in modo approfondito ma puntuale, utili focus rivolti a specifici target di operatori del settore, con un rilievo per temi di attualità pratica e strategica: i materiali e il loro impatto sull’ambiente, le innovazioni tecnologiche nel comparto tessile, il rapporto simbiotico e creativo tra arte e moda. Alla base di questi aspetti pratici, saranno discussi i valori etici implicati nella filiera, come responsabilità ambientale e giustizia sociale.

Lezioni e workshop saranno poi focalizzate su ambiti operativi quali: auto-produzione e Fab-Lab, globalizzazione del sistema della moda, l’alto artigianato e il recupero della tradizione, le innovazioni e le nuove tendenze, la comunicazione e le relazioni con il consumatore.

Il corso di pre-incubazione di impresa

Al termine dei moduli tematici è previsto, come opzione, un percorso di avvio di impresa, consistente in un vero e proprio corso di pre-incubazione di impresa, con il supporto di CNA Milano Monza Brianza, focalizzato sulla fase di costituzione di start-up. In concreto, dunque, i partecipanti potranno sviluppare una propria idea di business, e concretizzarla muovendo i primi passi verso l’inizio di un’attività economica indipendente nel settore della moda, sostenibile.

Presupposto di una simile iniziativa risiede nella consapevolezza che il futuro della moda si basi su un approccio etico e responsabile, per cui si ritiene che la consapevolezza, la comprensione e l’aggiornamento professionale sul tema della moda sostenibile costituiranno sempre più un vantaggio competitivo per tutti coloro che operano nel settore della moda in vari ambiti funzionali: dai designer ai produttori, dai distributori a chi si occupa di comunicare la moda, sotto diversi profili: giornalistico, web e digitale, aziendale.

A questo indirizzo web si possono trovare maggiori informazioni sull’iniziativa, per iscriversi alla quale c’è tempo fino all’8 gennaio p.v.

 

Parliamo di plastica e del suo elevato impatto ambientale. I materiali in plastica più comunemente impiegati sono composti da sostanze derivate dal petrolio, che risultano difficili da smaltire e in alcuni casi anche pericolose per l’ecosistema. La questione è di scottante importanza anche per l’industria della moda, che ne fa un continuo e largo utilizzo.

I manichini impiegati nell’industria del fashion e in nel retail connesso, per esempio, sono fra i prodotti che presentano le maggiori percentuali in quantità di plastica utilizzata nella loro composizione.

Tra le innovazioni nel mondo della moda che hanno dimostrato sensibilità riguardo al tema, c’è quella di un’azienda italiana specializzata in fabbricazione di manichini, busti e figurini per la vetrinistica, l’emiliana Bonaveri.

A seguito di anni di studi e ricerche che hanno rivelato la criticità dei materiali con cui vengono realizzati questi prodotti, l’azienda si è dedicata all’ideazione di un prototipo di manichino di nuova concezione. La novità sta in un sistema di innovazione tecnologica dei materiali, un biopolimero di derivazione naturale al 72% proveniente dalla canna da zucchero, e una vernice composta al 100% da sostanze organiche rinnovabili.

Il punto di partenza è stata la valutazione dell’impatto ambientale

Nell’ambito dell’ideazione del prototipo del manichino, quattro anni orsono – nel 2012, l’azienda aveva avviato un’indagine che è poi scaturita in un progetto di ricerca con il Politecnico di Milano, di analisi del ciclo di vita del manichino, con lo scopo di valutare la sostenibilità del progetto di realizzazione del figurino, in altre parole di misurare l’impatto sull’ambiente della sua filiera di produzione. E’ stata presa in considerazione ciascuna fase di realizzazione del manichino, dalla progettazione alla spedizione finale, inclusa quella del suo smaltimento.

Il Politecnico di Milano, con il Gruppo di Ricerca DIS (Design and system Innovation for Sustainability) del Dipartimento DESIGN LeNS (Learning Network of Sustainability) ha portato avanti il progetto di ricerca valutativa del nuovo manichino, effettuando misurazioni dell’impronta ambientale dei processi produttivi dell’azienda, e arrivando a definire delle linee guida improntate a una sua progressiva riduzione sull’ecosistema (coerentemente con la normativa ISO 14062 – “Gestione ambientale – Integrazione degli aspetti ambientali nella progettazione e nello sviluppo del prodotto”).

In particolare il gruppo di ricerca, coordinato dal Prof. Carlo Vezzoli, si è servito della metodologia della Life Cycle Assessment (LCA | norme ISO 14040, 14044, 14045, 14047, 14048, 14049) in grado di individuare distintamente i vari impatti in relazione alle fasi del ciclo di vita di un prodotto.

La maggiore criticità rappresentata dalla scelta della materia prima

L’elemento che si è rivelato decisivo nella valutazione di impatto ambientale del nuovo manichino condotta dal Politecnico è quello dei materiali impiegati, sotto il profilo della loro composizione e comportamento alla lavorazione, e considerando lo smaltimento degli stessi a fine ciclo di vita del prodotto.

Si è così lavorato con istituti di ricerca specializzati nei biopolimeri, arrivando a mettere a punto una bioplastica caratterizzata da un’elevata percentuale di materia naturale di origine organica (il 72%) che la rende un materiale altamente biodegradabile.

B Plast ®

Quattro anni di ricerche sono risultate nella selezione e registrazione di un biopolimero in PLA[1] quale materiale più adatto ad essere impiegato in un processo produttivo come quello dei manichini.

Quanto alla composizione, si tratta di una bioplastica composta per il 72% di un derivato della canna da zucchero che ha ottenuto la certificazione OK BIOBASED 3 stelle dall’ente di certificazione belga Vinçotte. Al termine della propria vita utile il manichino dismesso biodegrada[2] rilasciando anidride carbonica, CO2 (la stessa che la canna da zucchero ha assorbito nella sua fase vegetativa) e acqua.

B Paint ®

Per la verniciatura dei manichini è stata messa a punto una vernice composta al 100% da materie prime di origine organica, nella cui formulazione non è stato incluso alcun tipo di sostanza proveniente da petrolio. Ciò rappresenta un’innovazione assoluta perché rende possibile usare vernici naturali con risultati in termini di performance di qualità ed estetica paragonabili a quelli con impiego di prodotti a base petrolchimica.

La vernice impiegata sul nuovo manichino è prodotta dalla sintesi di scarti di resine di piante, olii vegetali, tensioattivi di origine vegetale che non contengono fosforo e da solventi di origine 100% vegetale da estratti da bucce di agrumi ottenuti con sistemi fisici, con sostanze essiccanti basate su una nuova tecnologia in acqua (e prive di sali di Cobalto e nafta).

Dall’analisi di Life Cycle Assessment del Politecnico è emerso che nel complesso, i materiali impiegati e processo produttivo del manichino di nuova concezione hanno un’impronta sull’ambiente ridotta rispetto ai manichini tradizionali realizzati in vetroresina e polistirene, considerando il loro intero ciclo di vita. In particolare i materiali biodegradabili individuati e scelti per essere impiegati nella produzione del manichino, hanno mostrato evidenza di notevole riduzione di emissioni di CO2 paragonati ai processi con impiego di plastiche di origine petrolchimica, una volta smaltiti, inoltre, possono essere reimmessi nel ciclo di vita successivo, impiegabili nuovamente per un’altra produzione.

L’innovazione tecnologica presentata potrebbe portare un cambiamento nel settore dei manichini, una parte del fashion system, partendo dal presupposto che la sostenibilità non si limita soltanto al prodotto finito e alla sua lavorazione ma è un concetto molto più ampio che riguarda la filiera e il coinvolgimento di ogni aspetto e di ogni categoria di portatori di interessi coinvolti. Altrettanto importanti sono i meccanismi di distribuzione, per la sensibilizzazione dei consumatori oltre che degli altri attori del sistema, in termini di consapevolezza e responsabilità.


[1] Il PLA (Polylactic Acid) è l’acido poli-lattico, un particolare tipo di polimero di derivazione organica vegetale, da piante come il mais, il grano o la barbabietola, in quanto maggiormente ricche di zucchero naturale (destrosio).

Il destrosio gioca un ruolo determinante nella produzione di questo materiale. Esso viene convertito in acido lattico attraverso un processo di fermentazione e, successivamente, in polimeri versatili, che possono essere utilizzati per produrre resine simili alla plastica o alle fibre.

Il PLA è un materiale estremamente sostenibile perché prodotto da risorse naturali e rinnovabili. Inoltre, una volta giunti a fine del loro ciclo di vita, i prodotti realizzati in questo materiale, biodegradano completamente, e risultano totalmente compostabili.

[2] I materiali biodegradabili si decompongono naturalmente in parti estremamente piccole, grazie a una attività biologica e a mutamenti nella struttura chimica del materiale. Invece, i materiali che esposti a determinate condizioni si decompongono totalmente, non lasciando nessun residuo visibile o tossico, sono definiti compostabili. Un ramoscello di quercia, ad esempio, non è compostabile perché si decompone troppo lentamente. In altre parole, il compostaggio è un processo di completa biodegradabilità.

Occorrono circa 6-8 settimane per decomporre un oggetto in PLA all’interno di strutture industriali di compostaggio. In condizioni ottimali, i prodotti in PLA si decompongono in 8-12 settimane.

Proseguiamo con questo articolo raccontando alcune delle Start-up del Fashion che lo scorso 7 aprile sono state presentate presso il noto incubatore H-Farm, in occasione di una visita organizzata da Antia (Associazione Italiana tecnici professionisti del sistema moda).

La Start-up di cui vogliamo parlarvi si chiama THECOLORSOUP: il primo shop on-line di tessuti personalizzati on demand. Thecolorsoup è una piattaforma web dalla quale è possibile ordinare tessuti con grafiche personalizzate, scegliendo tra 21 basi di tessuto (per fare qualche esempio: voile di seta, lino, cotone, microfibra, voile di poliestere, felpa ecc.) sia per l’abbigliamento che per l’arredamento. Il portale offre già più di 500 grafiche di alta qualità tra cui scegliere, ma l’utente potrà anche caricare e richiedere la stampa di una propria grafica.
Si tratta di una start-up un po’ atipica in quanto nasce all’interno del Gruppo Miroglio, non ha avuto quindi necessità di trovare investor nel libero mercato. Il Gruppo stesso ha creduto nell’idea ed ha fatto tutto ciò che era necessario per permettere il suo sviluppo ottimale.

Ma chiediamo a Elena Guarene (Project Manager) di dirci qualcosa di più su questo progetto davvero innovativo ed originale.

Come è nata l’idea di “TheColorSoup”?

L’idea è maturata all’interno dell’area Miroglio Innovation Program. Il Gruppo Miroglio ha reso possibile la nostra permanenza in H-FARM perché potessimo sviluppare il progetto in autonomia, contaminandoci con la cultura innovativa e il fermento creativo del più grande acceleratore europeo d’imprese.

Ad ottobre 2015, dopo 4 mesi di lavoro, la piattaforma è stata messa on- line.

Oggi possiamo definirci il negozio di tessuti 2.0, ma abbiamo tanti plus: texture di tendenza, la personalizzazione della base tessuto, la stampa digitale e la velocità nella consegna.

Siamo la soluzione a diverse richieste! THECOLORSOUP è nato per dare spazio a sarte, designer professionisti, handmaker per hobby e stilisti. Acquistando il materiale più idoneo il cliente potrà realizzare ogni tipo di accessorio, dall’abbigliamento all’arredamento, mai banale!

Che livello di complessità aveva raggiunto la vostra start-up quando siete arrivati in H-Farm?

Quando siamo arrivati in H-Farm siamo partiti da zero sia con l’analisi del mercato e del nostro ipotetico target che con la costruzione del sito stesso.

Anche il nome del progetto è nato in H-Farm!

Quale parte del supporto fornito da H-Farm è stato secondo lei di maggiore importanza?

L’affiancamento da parte di mentors e tutors ci ha aiutato a lavorare in team, pianificare in modo ottimale le varie attività per riuscire a raggiungere l’obiettivo in modo veloce, stringere legami e conoscere realtà giovani e innovative.

Come avete gestito e formalizzato i ruoli di ciascuno startupper all’interno del progetto?

Il Gruppo Miroglio ha voluto supportare il progetto investendo sulle idee di giovani dipendenti intraprendenti e desiderosi di crescere.

Il team è formato da tre trentenni:

Io, (Elena – project manager): lavoro nel Gruppo da 8 anni, sono nata come controller corporate (analisi/controlli costi e budget) e negli anni ho maturato esperienza nell’area corporate development. Sono curiosa e mi piace tutto ciò che è “novità”

Daniela – content editor&digital marketing: web designer e fotografa per i siti e-commerce di Miroglio Fashion srl

Lorenzo – web designer&developer: proviene da una web agency di Udine, appassionato di design, tecnologie web ed innovazione, lavora per creare soluzioni che siano al contempo belle da vedere ed intuitive da utilizzare.

Che futuro vede per “TheColorSoup”?

Vorremmo creare dei contest per grafici e illustratori per ampliare il nostro marketplace e avere sempre più tessuti greggi da proporre ai nostri clienti.

L’esigenza di stampare sul tessuto per realizzare un capo d’abbigliamento unico o arredare casa in modo speciale è forte! Oggi, tutti vogliono personalizzare…ecco perché nasce thecolorsoup.com

TheColorSoup utilizza stampa digitale e sublimatica con i migliori colori del mercato, affidandosi al know how del Gruppo Miroglio. Il risparmio dell’acqua è uno degli obiettivi che hanno guidato gli investimenti tecnologici nel settore, facendo ottenere al Gruppo performance di rilievo.

Filati composti al 100% in nylon riciclato derivante da scarti di produzione di componenti plastici industriali, reti da pesca, tessuti e tappetti giunti a fine vita; tomaie di scarpe da tennis realizzate con camere d’aria dismesse; fiocchi di poliestere riciclato post-consumo ottenuto al 100% da bottiglie in PET recuperate; borse realizzate dagli scarti agricoli della lavorazione delle ananas.

Questa non è fantascienza ma la realtà che racconta l’Osservatorio Internazionale per l’innovazione sostenibile dei materiali e dei prodotti.

Questa è la verità di un mercato sempre più rivolto alla sostenibilità ambientale. Ma in cosa si sostanzia questa sostenibilità ambientale? Come si confronta con la realtà fattuale delle imprese del nostro tessuto imprenditoriale? Quali possibilità ha l’imprenditore di allinearsi a nuovo trend? Quali sono le normative che entrano in gioco?

Dal 3 Febbraio 2021 sarà vietata l’immissione sul mercato dei Nonilfenoli etossilati (NPE), in articoli tessili che possono ragionevolmente essere lavati in acqua nel corso del loro normale ciclo di vita in concentrazioni pari o superiori allo 0,01 % in peso di tale articolo tessile o di ogni parte dello stesso. Lo ha previsto il Regolamento (UE) 2016/26 della Commissione del 13 gennaio 2016, che modifica l’allegato XVII del Regolamento (CE) n. 1907/2006 (REACH).

L’intervento trova origine dal Regno di Svezia che, il 2 agosto 2013, presentava all’Agenzia europea per le sostanze chimiche apposito fascicolo, secondo la normativa di legge[1], al fine di avviare la procedura di restrizione dei NPE, sostanze chimiche tossiche usate per la tintura dei tessuti a cui donano brillantezza. La relazione argomentava indicando che l’esposizione ai nonilfenoli e ai nonilfenoli etossilati costituisce un rischio per l’ambiente, in particolare per le specie acquatiche che vivono nelle acque di superficie. Al fine di limitare tale rischio, il fascicolo proponeva quindi di vietare l’immissione sul mercato di articoli tessili che possono essere lavati in acqua, qualora contengano NP e NPE in concentrazioni pari o superiori a 100 mg/kg (0,01 % in peso).

C’era una volta una grande azienda[1], famosa in tutto il mondo per il suo marchio, che nella sfilata Haute Couture, primavera – estate 2016, presentava una scenografia bucolica, realizzata con materiale riciclato e che, a detta della stessa griffe, sarebbe stato riutilizzato…

C’era una volta un altro noto marchio di lusso[2] che realizzò una linea ecologica (Petit-H), destinata a ridare vita ai ritagli di alta moda, recuperare pezzi di design, riutilizzare materiali altrimenti destinati allo smaltimento…

C’era una volta un colosso della moda per le “grandi masse”[3] che decise di abbandonare la filosofia del “take, make, waste” (prendere, fare, sprecare) e lanciò un contest intitolato The Global Change Award: promettendo un premio di un milione di euro a chi avesse presentato il miglior progetto per riciclare gli scarti delle collezioni passate…

Non sono favole; è il nuovo imperativo del Fashion: la sostenibilità. Sempre più aziende del settore hanno scelto di ridurre l’impatto che la loro attività ha in ambito ambientale, sociale ed economico.

Che cosa si intende per sostenibilità?

Il termine sostenibilità è stato definito per la prima volta, con riferimento all’ambiente, come quella prerogativa essenziale per garantire la stabilità di un ecosistema, ovvero la capacità di mantenere nel tempo i processi e la biodiversità all’interno del medesimo.

Il riciclo dei materiali impiegati è solo uno degli aspetti toccati dalla sostenibilità. A causa della cd. fast fashion, e quindi dell’aumento della produzione globale di fibre (cotone e poliestere) l’uso delle risorse naturali, diventa un tema di fondamentale importanza. In particolare, nei cicli produttivi le aziende sostenibili studiano sistemi per la riduzione dell’utilizzo dell’acqua e per la riduzione delle emissioni di CO².

L’aspetto dell’approvvigionamento energetico si declina nello sfruttamento di fonti di energia alternative e nell’inserimento di macchinari a consumi ridotti.

Se questi cambiamenti possono riguardare tutte le società, a prescindere dal settore di appartenenza, nella moda, alcuni marchi importanti e alcune aziende di produzione hanno sottoscritto il “Detox Solution Commitment”, promosso da Greenpeace, protocollo in base al quale ci si impegna a liberare la moda da sostanze tossiche entro il 2020.

Perché le grandi multinazionali della moda (e non solo) hanno deciso di abbracciare la filosofia green?

L’attenzione all’ambiente è diventata un vero e proprio must per il settore della moda, data la sensibilità sempre maggiore che i consumatori rivolgono a questa tematica. Il 55% dei consumatori ha dichiarato di essere disposto a pagare di più per prodotti e servizi offerti da aziende impegnate nella sostenibilità ambientale e sociale[4]. Attuare politiche di sostenibilità ambientale significa quindi creare valore tangibile per l’azienda. Ecco svelato il “segreto” per cui il mondo della moda ha preso questa direzione green.

Che impatti può avere questa nuova filosofia nella tua azienda?

La filosofia green, che stanno abbracciando sempre più aziende, non è una “moda nella moda”. Se da un lato, infatti, questa esigenza di sostenibilità nasce da un fattore economico (attirare i clienti e poter vendere i propri prodotti a prezzi maggiori), dall’altro è anche un obbligo che arriva da più fronti (si pensi agli ambiziosi obiettivi posti dal Protocollo di Kyoto, declinati nei vari continenti, nonché alle recenti linee programmatiche della COP21 di Parigi).

Ignorare le nuove “tendenze verdi” oggi, significa mettere in seria difficoltà la tua azienda domani. In un futuro non troppo lontano infatti, i grandi brand imporranno in modo sempre più tassativo ai propri fornitori, di dimostrare garanzie di sostenibilità del ciclo produttivo e del prodotto. Il consumatore, allarmato dalle informazioni che i media forniscono sullo stato di salute compromesso del pianeta, sceglierà a parità di condizioni, il prodotto più “ecoresponsabile”. A livello pubblicitario i tuoi competitor verdi, potranno sfruttare la potente arma del prodotto “amico per l’ambiente”. In Italia addirittura, i produttori più virtuosi, potranno fregiarsi del nuovo marchio “Made Green in Italy”, ufficialmente introdotto con la L. 221/2015.

Quali vantaggi può comportare diventare un’azienda sostenibile?

Il primo indiscusso vantaggio del diventare un’azienda sostenibile è quello di conservare la propria posizione nel mercato, se non addirittura migliorarla incrementando la propria clientela ed i propri profitti. Per poter sopravvivere, anzi, vivere dignitosamente in questo settore altamente competitivo, è indispensabile adeguarsi agli standard imposti dai migliori.

Non pensare però alla sostenibilità come l’ennesimo odioso obbligo a cui adempiere per “rimanere in gioco”. L’adeguarsi ad un buon livello di produzione sostenibile significa in molti casi ridurre i propri costi ed aumentare i guadagni.

Essere attenti alla sostenibilità ambientale, infatti, impone una buona conoscenza dei processi produttivi, finalizzata alla loro ottimizzazione: ad esempio, il risparmio energetico passa attraverso una conoscenza precisa del proprio fabbisogno di energia, ottenuto mediante un monitoraggio della produzione. Il contenimento dell’utilizzo delle sostanze tossiche, presuppone la conoscenza delle modalità operative di eventuali contoterzisti ed un’adeguata contrattualizzazione dei loro impegni. Ottimizzare i costi significa anche sapere quando, ciò che genera dal proprio processo produttivo, è un rifiuto e quando invece si tratta di un sottoprodotto che può trovare nuovo impiego diventando una risorsa e non un costo.

Come è evidente quindi, la riduzione dell’impatto ambientale può giovare al tuo portafoglio prima ancora che all’ambiente.

Per citare un esempio emblematico a proposito, si può fare riferimento alle aziende che, nell’Unione Europea, hanno adottato il marchio ecologico Ecolabel. Vari studi (tra gli altri Iraldo, Cancila, 2010 e IEFE, Università Bocconi 2006) hanno evidenziato come il 57% delle aziende che ha ottenuto l’Ecolabel Europeo ha registrato incrementi nelle quote di mercato e/o in termini di acquisizione di nuovi clienti a seguito dell’adozione del marchio. Questi studi hanno, inoltre, misurato l’aumento percentuale nel fatturato indotto dall’Ecolabel e, sebbene molte aziende certificate non abbiano saputo isolare e quantificare il contributo specifico del marchio sull’andamento delle vendite, il dato riscontrato dallo studio è decisamente confortante: in media l’Ecolabel genera un aumento del fatturato del 3-5%, con punte massime che raggiungono il 30-35%.

Come realizzare un’impresa sostenibile?

Gli strumenti che aiutano gli imprenditori a creare un sistema sostenibile dal punto di vista ambientale sono vari: dalla certificazione ambientale EDP, a quella climatica, all’ISO 14001, all’Ecolabel, all’OEKO-TEX. Vi sono poi sofisticati strumenti di gestione economica come gli eco-bilanci e la contabilità ambientale. Infine la stessa gestione contrattuale dei rapporti con fornitori e subfornitori potrà costituire il primo passo verso una gestione aziendale più sostenibile.

Per implementare questi strumenti è necessario valutare la situazione esistente, pianificare degli standard ottimali da perseguire, individuare gli eventi che potrebbero impedire, o rendere difficile, il raggiungimento degli obiettivi e realizzare un piano di mitigazione dei rischi individuati.  Il sistema così come progettato e pianificato andrà implementato in azienda e monitorato instaurando un circolo virtuoso di miglioramento e ottimizzazione continuo.


[1] Chanel

[2] Hermes

[3] H&M

[4] Indagine pubblicata da Nielsen, “Doing Well by Doing Good”, giugno 2014, condotta tra il 17 febbraio e il 7 marzo 2014, intervistando oltre 30.000 persone in 60 Paesi, nelle regioni Asia-Pacifico, Europa, America Latina, Medio Oriente, Africa e Nord America.