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Categoria: Start-up

Numerosi sono gli adempimenti che il legislatore, europeo e italiano, ha imposto ai “venditori elettronici”. Tra questi, rileva il fatto che il soggetto che intende vendere i propri beni e servizi on-line ha un dovere di informazione, che si concretizza nella necessità di fornire all’utente determinate informazioni, sia a carattere generale sia a carattere specifico a seconda del bene o servizio offerto.

Nel presente articolo vorremmo provare a definire l’esatto contenuto di alcuni degli obblighi informativi presenti, seguendo le indicazioni fornite dai giudici nazionali ed europei.

Contratti a distanza e pratiche commerciali scorrette

A tale riguardo, la disciplina del Codice del consumo (d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206) e in particolare l’art. 49 integrano quanto previsto dal d.lgs. 70/2003 relativo al commercio elettronico. Il Codice del consumo prevede altresì che, nel caso di contratti conclusi attraverso un mezzo di comunicazione a distanza che consente uno spazio o un tempo limitato per visualizzare le informazioni, il professionista è tenuto a dare solo parte delle “informazioni obbligatorie”, ai sensi dell’art. 51, co. 4 Cod. cons.

Si rileva altresì che, nelle ipotesi di mancato corretto adempimento agli obblighi informativi posti a tutela dei consumatori, si possono talvolta configurare anche pratiche commerciali “scorrette” oppure configuranti atti di pubblicità ingannevole (ai sensi del d. lgs. 145/2007). Le pratiche commerciali scorrette, in particolare, sono disciplinate dagli artt. 18-27 quater Cod. cons. Tale disciplina amplia la tutela del consumatore perché egli risulta protetto da qualsiasi pratica commerciale che possa recargli danno, indipendentemente dal momento in cui questa è posta in essere. Le pratiche commerciali scorrette si distinguono in aggressive ed ingannevoli. Si ha una pratica ingannevole quando vengono riportate informazioni non rispondenti al vero o che, seppure di fatto corrette, per la loro presentazione complessiva, siano tali da indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più elementi e, in ogni caso, da indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (art. 21, co. 1 Cod. cons.).

Indicazione del costo complessivo del prodotto o servizio

In primo luogo, con riferimento all’obbligo di indicare il costo del prodotto o del servizio comprensivo di tutte le voci (imposte, costi di spedizione, costi per la restituzione per recesso) (art. 49, co. 1, lett. e) Cod. cons.) nonché le modalità di calcolo del prezzo definitivo, si segnala che la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. VI, 2 settembre 2019, n. 6033) ha condannato la società titolare di un sito di vendita online per il settore turistico in cui era emersa una notevole divergenza tra l’offerta pubblicizzata sulla homepage ed il prezzo finale.

Bentrovati. Come promesso, torniamo a parlare della possibilità per il datore di lavoro di imporre la vaccinazione ai propri dipendenti, e dell’eventuale legittimità del licenziamento in caso di rifiuto.

Come ricorderete, la questione è molto dibattuta e sul punto si registrano due tesi:

  • la prima, secondo cui il datore di lavoro può imporre il vaccino ai propri lavoratori e in caso di rifiuto licenziarli per giusta causa. Di questa vi abbiamo parlato qui;
  • la seconda, per cui il datore di lavoro non può imporre il vaccino ai propri dipendenti e conseguentemente il licenziamento è illegittimo.

Ed è proprio di questa seconda tesi che vi vogliamo parlare oggi.

Quadro normativo di riferimento.

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Prima di addentrarci nella questione, rivediamo assieme il quadro normativo di riferimento.

Art. 32 Costituzione, comma 2: nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”;

– Art. 2087 c.c.:L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;

Art. 279 Testo Unico in materia di sicurezza (D.Lgs. 81/08), comma 2:il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

La seconda tesi: no imposizione del vaccino, no licenziamento

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Questa tesi presenta diversi argomenti a favore. In particolare:

L’articolo 2087 c.c.

Tale norma non può essere considerata la disposizione di legge di cui all’art. 32 Cost. che obbliga un soggetto a sottoporsi alla vaccinazione, dovendo tale norma consistere in una normazione ad hoc, specificamente diretta ad imporre la vaccinazione anti Covid-19.

L’art. 2087 c.c. impone al datore di conformarsi al criterio della “massima sicurezza possibile”, ma il rispetto di tale criterio è pur sempre ancorato a dati scientifici dedotti dall’”esperienza e la tecnica”. Al momento si conosce poco sul vaccino ed i suoi effetti e gli scienziati si dividono anche sui mezzi di propagazione del virus. Dunque, mancherebbero quei dati di acquisita “esperienza e tecnica”, che potrebbero imporre al datore l’adozione di tale misura. Così come il lavoratore potrebbe addurre, se non il rispetto della riservatezza, particolari condizioni personali che possono sconsigliare di sottoporsi alla vaccinazione.

L’art. 279 TU

L’art. 279 TU impone la vaccinazione a protezione dello stesso lavoratore esposto ad un rischio che comunque promana dall’ambiente lavorativo. Tale norma costituisce la migliore conferma del fatto che solo con una esplicita previsione legislativa si può superare il divieto previsto dall’art. 32 Cost. con il corollario che, trattandosi di norma di stretta interpretazione, non se ne possono allargare le maglie estendendola a situazioni diverse e non previste.

Conclusioni della seconda tesi.

Sei un imprenditore o un aspirante tale? Stai progettando ed implementando qualcosa di estremamente innovativo e sei parecchio preoccupato che qualcuno rubi, copi, riproduca la tua idea? Più che comprensibile.

Sappi che, fortunatamente, hai a disposizione diversi strumenti per tutelare te e il tuo know-how.

NDA

Se a preoccuparti è la condivisione della tua idea con possibili futuri collaboratori, puoi sottoporre alle persone interessate un NDA (letteralmente Non-Disclosure Agreement), ovverosia un accordo di riservatezza. Si tratta di un atto con cui una parte garantisce all’altra di non diffondere, rivelare o riprodurre in qualsivoglia modo determinate informazioni confidenziali, di cui sia venuta a conoscenza sulla base della predetta collaborazione. Tale accordo risulta particolarmente utile qualora nel medesimo sia prevista anche una clausola penale per il caso di inadempimento. Tale clausola, infatti, obbliga il soggetto “rivelante” a corrispondere all’altra parte una somma di denaro qualora violi gli obblighi di riservatezza dell’NDA.

Marchi e brevetti

La proprietà industriale può essere protetta, inter alia, anche attraverso appositi diritti o titoli, definiti tecnicamente “diritti di proprietà industriale”. Si tratta, in altri termini, di privative a vantaggio del loro titolare e a scapito di terzi concorrenti. Per esempio, le medesime possono conferire al titolare dei diritti negativi, come ad esempio il diritto di privare altri dell’uso e della commercializzazione di un’invenzione o di un disegno.

Tali diritti si possono acquistare mediante:

  1. brevettazione
  2. registrazione

Sono oggetto di brevettazione: le invenzioni, i modelli di utilità e le nuove varietà vegetali; mentre sono oggetto di registrazione: i marchi, i disegni, i modelli e le tipografie dei prodotti a semiconduttori.

Posto che abbiamo già trattato questo tema qui e qui, se sei curioso di capire come funzionano le descritte privative, ti invitiamo a leggere gli articoli linkati.

Ma se io volessi tutelare le fasi del processo creativo … come posso fare? WIPO-Proof è la soluzione

Ti stai chiedendo quale strumento utilizzare per tutelare le varie fasi del processo creativo che ti sta conducendo all’implementazione della tua idea? In tuo soccorso c’è WIPO-Proof. Si tratta di un nuovo servizio online, messo a disposizione dalla World Intellectual Property Organization, che ha lo scopo di costituire una prova non falsificabile dell’esistenza di un file digitale in un determinato momento, tutelandolo indipendentemente dal fatto che il risultato divenga poi oggetto di un diritto di proprietà industriale.

Interessante, ma per cosa lo posso utilizzare?

WIPO PROOF è pensato per quelle opere che non possono godere della tutela accordata ai titoli di proprietà industriale sopra descritti, ma che sono protetti dalla legge sul diritto d’autore.

Tale sistema è particolarmente utile ogni qualvolta si voglia dare una data certa e riconoscere la paternità ad un’opera o ad un lavoro. Sono infatti caricabili sul sistema:

•           segreti commerciali

•           lavori creativi (audio, video, lavori letterari)

•           lavori artistici (pattern, lavori di architettura)

•           schemi tecnici, piani, progetti

•           Codice di programma

•           Ricerche (rapporti, note di laboratorio)

•           Algoritmi, sequenze genetiche

•           Documenti firmati digitalmente (contratti, lettere, certificati)

Ma quanto costa?

Non ti preoccupare del costo. Con poco meno di venti euro, poi tutelare in modo adeguato il tuo progetto. Tuttavia, WIPO offre anche altri servizi, per i cui costi ti invitiamo a visitare la seguente pagina.

Il consiglio dell’esperto

Come puoi vedere, hai a disposizione un ampio range di possibilità per proteggere la tua idea, il tuo progetto o la tua invenzione. Scegliere quella più adatta alle tue esigenze non è però facile. Per questo, ti consigliamo di rivolgerti sempre ad un esperto legale che saprà come indirizzarti al meglio.

Lo Studio Legale Soccol è sempre a disposizione per risolvere eventuali tuoi dubbi e per aiutarti a tutelare il tuo progetto.

Hai mai sentito parlare di dropshipping? Si tratta di un particolare modello di business che ti consente, con alcuni piccoli accorgimenti, di fare buoni profitti, con pochissime spese.

Come funziona?

Il dropshipping è un metodo di vendita applicabile all’e-commerce, grazie al quale è possibile vendere un prodotto online senza averlo materialmente in magazzino. Anzi, senza avere il magazzino!

Nessun magazzino… com’è possibile?

Ebbene sì, il venditore non acquista la merce dal fornitore, ma si limita a proporla al pubblico per il tramite del proprio e-commerce. Non appena il venditore riceve l’ordine del cliente, lo trasmette al fornitore, il quale si occupa dell’imballaggio e della spedizione del prodotto direttamente all’acquirente. Semplice, no? Naturalmente, tutto questo è reso possibile da apposito accordo commerciale, regolante i rapporti tra venditore e fornire in un’ottica di mutuo vantaggio.

Caratteristiche dell’accordo commerciale

Se prima di questo articolo non avevi mai sentito nominare il dropshipping, è perché si tratta di un modello di vendita di recente invenzione. Per tale ragione, il contratto di dropshipping non presenta alcuna normativa codicistica di riferimento, salvo le regole generali sui contratti, di cui al nostro codice civile. Va però messo in luce come si tratti pur sempre di una modalità di commercio elettronico, la quale non può che essere regolamentata dal D.Lgs. 70/2003, rubricato “attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico“. Tale normativa impone al venditore una serie composita di obblighi, già descritti in questo nostro precedente articolo. Ad ogni buon conto, come in tutti i rapporti commerciali, è essenziale definire precipuamente quali sono i diritti e i doveri delle parti del contratto, ossia, nel caso di specie, del merchant e del fornitore.

Obblighi del fornitore

L’accordo commerciale deve necessariamente prevedere che il fornitore si impegni a:

  1. Garantire la disponibilità in magazzino dei beni pubblicizzati nell’e-commerce dal merchant, avvisandolo prontamente qualora un prodotto risulti esaurito;
  2. Curare la logistica del magazzino, ovverosia il flusso delle merci in entrata e in uscita;
  3. Curare l’imballaggio dei beni ordinati ed acquistati dal cliente finale, tramite il sito del merchant. Le caratteristiche del packaging devono essere descritte nel contratto o in un suo allegato tecnico;
  4. Garantire che la merce in magazzino soddisfi pienamente i requisiti di sicurezza previsti dalle normative vigenti e siano conformi alle stesse;
  5. Spedire la merce ordinata, nei termini e con le modalità indicate nel contratto, direttamente all’acquirente finale.

Obblighi del venditore

Parimenti, l’accordo commerciale deve stabilire che il merchant si impegni a:

  1. Promuovere nel proprio e-commerce i prodotti del fornitore;
  2. Curare la gestione degli ordini. Si specifica, tuttavia, che dovrebbe essere il fornitore ad inviare ai clienti una notifica via e-mail non appena l’ordine va in consegna;
  3. Curare il flusso dei pagamenti, ed in particolare, corrispondere al fornitore le somme pattuite nel contratto.

Quindi, chi paga chi?

All’interno dell’accordo commerciale è necessario che sia descritto il flusso dei pagamenti, con chiara indicazione delle modalità con cui il merchant corrisponde al fornitore le somme stabilite. Si specifica infatti che il cliente paga il prezzo del prodotto acquistato direttamente al venditore, tramite l’e-commerce. Quest’ultimo trattiene sulla somma incassata una percentuale per i servizi dal medesimo svolti, e trasmette l’importo rimanente al fornitore, a titolo di corrispettivo per le attività effettuate.

È opportuno che nel contratto sia previsto che il merchant corrisponda mensilmente le somme dovute al fornitore. In questo modo, qualora il cliente finale eserciti il diritto di recesso e sia necessario restituire le somme dallo stesso versate, il venditore, non avendo ancora pagato il fornitore, non si troverà a dover sborsare di tasca propria le somme in questione.

Chi è responsabile nei confronti del cliente finale?

La responsabilità per eventuali vizi, non conformità, o danni causati dai prodotti acquistati dal cliente è una tematica davvero spinosa. È essenziale che nel contratto sia inserita apposita clausola di manleva, con cui il fornitore si impegna a tenere indenne il venditore da qualsivoglia danno cagionato a persone e/o cose derivante dai prodotti dallo stesso forniti.

Consigli pratici

Se sei arrivato fino a qui, dovrebbe esserti chiaro che il dropshipping è davvero un business innovativo e ricco di potenzialità economicamente allettanti. Tuttavia, avrai anche capito che, per tutelare la tua posizione, è essenziale che i rapporti con il fornitore da te scelto siano disciplinati da apposito contratto scritto. Per la redazione dello stesso, ti consigliamo di rivolgerti sempre ad un esperto del settore: saprà come proteggere al meglio i tuoi interessi, scongiurando il rischio di fraintendimenti con il fornitore, che nel peggiore dei casi si traducono in annose controversie giudiziali.

In caso di dubbi o perplessità, non avere remore a contattare lo Studio Legale Soccol.

In questi giorni si è sentito molto parlare della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nella causa C-311/18 (c.d. caso Schrems II), la quale ha sollevato alcune criticità sia per chi, come noi, si occupa di privacy, sia per tutte le aziende che si avvalgono di fornitori di software o di altri servizi che sono localizzati negli Stati Uniti.

Occorre premettere che non c’è motivo di allarmarsi, tuttavia per poter continuare ad utilizzare i servizi di fornitori extra UE si richiedono nuovi adempimenti da parte sia delle aziende che trattano dati personali sia dei DPO, alla luce della recente sentenza.

Il caso

Nello specifico, nel caso giudicato dalla Corte di giustizia, il sig. Schrems aveva sollevato dubbi circa la validità della decisione con cui la Commissione europea aveva stabilito che il rispetto, da parte di soggetti localizzati negli Stati Uniti, delle misure indicate nel c.d. Privacy Shield USA-UE, e quindi l’adesione allo stesso, costituiva una condizione sufficiente per garantire che i dati personali ricevessero una tutela sostanzialmente equivalente a quella prevista all’interno dell’Unione Europea, in forza del Regolamento sulla protezione dei dati (“GDPR”) e delle normative nazionali di attuazione.

La Corte di giustizia, nella sua sentenza, ha ritenuto invalida la suddetta decisione e ne ha determinato l’immediata cessazione dell’efficacia.

I motivi della sentenza.

Il motivo di questa decisione è rappresentato principalmente dal fatto che i dati dei cittadini europei non risultano sufficientemente tutelati negli Stati Uniti perché manca un’autorità indipendente a cui rivolgersi per eventuali reclami. Inoltre, i dati conservati negli Stati Uniti, a chiunque appartenenti, risultano accessibili alle autorità governative del Paese, senza possibilità per l’interessato di opporvisi.

Le Clausola Contrattuali Standard

Nella stessa sentenza, la Corte ha approfondito anche il tema della validità delle c.d. Clausole Contrattuali Standard (“SCC”), approvate dalla Commissione europea per mezzo di un’altra decisione, che pure era stata impugnata dal sig. Schrems. La Commissione europea ha infatti il potere di stabilire se determinati gruppi di clausole contrattuali offrono, o meno, sufficienti garanzie di tutela dei dati che vengono trasferiti al di fuori dell’Unione Europea. A tale riguardo, da una parte, la Corte ha confermato la validità delle clausole già approvate dalla Commissione e quindi le stesse, se inserite nel contratto tra “esportatore” ed “importatore” dei dati, sono teoricamente idonee a legittimare un trasferimento di dati all’estero (si intende: al di fuori dell’Unione Europea). D’altra parte, la Corte ha richiamato l’attenzione sul fatto che l’idoneità delle stesse SCC a legittimare il trasferimento dei dati non può essere riconosciuta in modo automatico, ma deve essere valutata caso per caso. In base alle caratteristiche dell’ “importatore” e allo Stato in cui si trova, potrebbe infatti essere necessario integrare le stesse con ulteriori clausole contrattuali, oppure prevedere l’adozione di ulteriori misure di sicurezza, affinché il livello di tutela dei dati sia davvero “sostanzialmente equivalente” a quello riconosciuto all’interno dell’Unione Europea.

Impatto sulle attività imprenditoriali

Passando al concreto impatto di questa decisione della Corte di giustizia sulle attività imprenditoriali, si deve notare, ad esempio, che l’utilizzo di servizi di Google comporta il trasferimento dei dati personali trattati anche negli Stati Uniti. Fino alla sentenza in oggetto, il trasferimento poteva avvenire legittimamente, a condizione che l’interessato (cioè la persona fisica a cui siano riferibili i dati personali) ne fosse informato. Google, infatti, dichiarava di aderire al Privacy Shield USA – UE e in quanto tale avrebbe dovuto offrire garanzie sufficienti per la protezione dei dati. Ora invece, per poter continuare ad usufruire dei servizi di Google, o di Microsoft, o di tanti altri fornitori di software (ma non solo) che trattano i dati negli Stati Uniti, sarà necessario trovare altre basi giuridiche che legittimino il trasferimento.

A tale proposito, il GDPR ne indica diverse:

• la sussistenza di decisioni di adeguatezza agli standard europei in materia di protezione dei dati personali (ad oggi, riguardano i seguenti Paesi: Andorra, Argentina, Canada, Isole Faroe, Guernsey, Israel, Isle of Man, Japan, Jersey, New Zealand, Switzerland, Uruguay) (v. art. 45 GDPR). Le Autorità Garanti europee auspicano di pervenire ad una decisione di adeguatezza anche per gli Stati Uniti, ma la strada da percorrere sarà molto lunga;

• le Clausole Contrattuali Standard adottate dalla Commissione Europea (c.d. “SCC”) (per cui si veda sopra);

le norme vincolanti d’impresa (c.d. Binding Corporate Rules), che però sono utilizzabili solo per i trasferimenti infragruppo, in grandi gruppi multinazionali, e che devono essere negoziate con le Autorità Garanti;

• le clausole contrattuali adottate dalle singole autorità di controllo, nella cui redazione però l’Autorità Garante italiana è in ritardo rispetto ad altre autorità europee;

• l’adesione, da parte dell’importatore extra UE, ad un codice di condotta o ad un meccanismo di certificazione, unitamente all’impegno dello stesso di applicare garanzie adeguate.

In mancanza di una decisione di adeguatezza o di una delle garanzie adeguate sopra elencate (v. art. 46 GDPR), il trasferimento di dati personali verso un Paese terzo o un’organizzazione internazionale può essere comunque ammesso, ma deve essere:

basato sul conferimento, da parte dell’interessato, dell’esplicito consenso al trasferimento proposto, e lo stesso deve essere stato informato dei possibili rischi che siffatti trasferimenti comportano, oppure

motivato dalla necessità di dare esecuzione ad un contratto concluso tra l’interessato ed il titolare del trattamento, ovvero all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su istanza dell’interessato, oppure

un trasferimento temporaneo, che riguarda pochi interessati e che si fonda su un interesse legittimo cogente dell’esportatore (v. art. 49 GDPR).

Le soluzioni

Le soluzioni che al momento risultano perseguibili sono quindi quelle della verifica dell’adesione, da parte dei fornitori extra UE, a meccanismi di certificazione (es. ISO) e/o l’ottenimento del consenso dell’interessato. Le ulteriori deroghe previste dall’art. 49 GDPR riguardano invece trasferimenti per interesse pubblico, per la tutela di interessi vitali, riguardanti dati giudiziari oppure provenienti da registri pubblici.

In ogni caso, occorrerà attendere una presa di posizione da parte dei fornitori di servizi, che in realtà sono gli unici che possono garantire l’assoluto rispetto del livello di tutela dei dati previsto dal GDPR. Questo vale sia per le società estere che aderivano al Privacy Shield, sia per quelle localizzate in altri Paesi del mondo, alla luce dei richiami operati dalla Corte di giustizia in merito all’uso delle SCC.

Adempimenti necessari

Risulta pertanto necessario revisionare tutte le informative privacy, al fine di inserire maggiori informazioni circa i dati che possono essere trasferiti all’estero, il luogo in cui vengono trasferiti e le garanzie di tutela di cui godono. Le stesse dovranno essere poi portate a conoscenza degli interessati. Anche i Registri del Titolare o del Responsabile del trattamento dovranno essere di conseguenza aggiornati.

Lo Studio è sempre a vostra disposizione per garantire l’adeguamento della vostra attività rispetto a tutte le più recenti pronunce e normative.

Nella situazione emergenziale dovuta al Covid-19, si è parlato tanto di app di tracciamento. Lo abbiamo fatto anche noi qui. Le medesime hanno attirato molto l’attenzione per la rilevanza dei dati che devono raccogliere e trasmettere; di conseguenza, molto ci si è interrogati circa la loro conformità alle normative in materia di privacy. Lungi dall’essere una scoperta degli ultimi mesi, in realtà le app di tracciamento sono diffuse da una decina di anni in tutto il mondo. E non si può dire che non abbiano anche raccolto dati “sensibili” dei loro utenti. Ci riferiamo in particolare a quella categoria di app che sono definite “family tracker”.

Vediamo quindi come le società sviluppatrici di queste app hanno cercato di realizzare prodotti redditizi, ma allo stesso tempo conformi alle leggi applicabili.

Prendiamo ad esempio due delle app più conosciute nel settore, Life360 e Find My Kids.

Il family tracking

Life360, direttamente dalla California, si descrive come “localizzatore” per la famiglia, che permette di vedere su una mappa privata la posizione dei membri di un “gruppo”, di chattare con essi e di ricevere diversi tipi di notifiche in relazione agli spostamenti degli altri soggetti.

Find My Kids, invece, è stata sviluppata in Russia ed offre un sistema di monitoraggio per famiglie, per garantire la sicurezza dei bambini ed il controllo da parte dei genitori, tramite l’installazione di due diverse app, rispettivamente sul telefono del genitore e del figlio. L’app può interagire anche con orologi GPS.

Alcuni dei dati che queste app raccolgono sono, ad esempio, oltre ad i dati identificativi e al numero di cellulare, la localizzazione, registrazioni di suoni, foto, siti consultati e dati statistici sulle modalità d’uso degli smartphone.

Quali sono quindi i requisiti da rispettare quando si sviluppano app simili, e cosa bisogna controllare come utenti?

Innanzitutto, se l’app si rivolge ad un mercato di utenti che potenzialmente si estende al mondo intero, si complica il requisito della conformità alle molteplici normative nazionali applicabili. Mentre è tutto più semplice se si progetta di destinare l’app ad un uso solo all’interno dell’Unione Europea.

Localizzazione dei server e trasferimento dei dati

Un aspetto fondamentale, ma spesso trascurato nelle informative privacy delle app, come si verifica per Find My Kids, è quello dell’indicazione della localizzazione dei server della società fornitrice e della previsione, o meno, del trasferimento dei dati a soggetti stabiliti in Paesi terzi. L’utente dovrebbe infatti essere informato di queste circostanze, perché i Paesi in cui sono conservati i suoi dati potrebbero garantire un livello minore di protezione.

Diritti degli utenti interessati

Si mette inoltre in evidenza che le leggi degli Stati attribuiscono di per sé diritti ai singoli individui, che, in quanto fondamentali, non sono rinunciabili tramite contratti stipulati con altri soggetti. Nel settore delle app bisogna considerare l’esistenza di questi diritti, al fine di garantirne l’esercizio effettivo agli utenti. Si rischia altrimenti di ostacolare l’esercizio di diritti anche fondamentali e di causare danni inestimabili. Occorre quindi adottare misure di sicurezza e procedure tecniche che permettano, ad esempio, la correzione dei dati personali raccolti, la loro cancellazione, l’accesso agli stessi e la loro portabilità. Se si implementano tali misure, è necessario informare l’utente del modo in cui può servirsene. Questo è un elemento che, per esempio, manca, nella privacy policy di Find My Kids, dove è assente qualsiasi riferimento al diritto di accesso ai dati, al diritto alla loro portabilità o al diritto di rettifica.

App per minori

Se si sceglie poi di sviluppare un’app destinata appositamente ad essere utilizzata da soggetti minori, le cautele da richiamare si moltiplicano. Qualsiasi consenso, ad esempio, non è valido se fornito dal minore stesso ed il fornitore dell’app deve essere in grado di dimostrare di averlo legittimamente raccolto dai genitori. In realtà, il riferimento andrebbe più correttamente fatto non alla minore età, bensì all’età richiesta per esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali, che varia da Stato a Stato, anche a livello europeo (dove però non può mai essere inferiore ai 13 anni).

È in ogni caso consigliabile ridurre al minimo la raccolta di dati di minori, ad esempio consentendo la creazione di avatar, ed evitare l’utilizzo degli stessi a scopi marketing.

Le app Life360 e Find My Kids prevedono a tale scopo che i genitori possano esprimere il consenso al trattamento dei dati dei figli, tramite la compilazione di un modulo reperibile online e che deve essere poi inviato alla società.

Non bisogna tuttavia dimenticare che la protezione dei dati personali è solo uno degli aspetti da valutare quando si progettano app estremamente “invasive” per la vita degli individui. Si pensi solo, ad esempio, all’ipotesi che un’app per il family tracking sia utilizzata da un genitore violento o che abusi (anche emotivamente) dei figli.  O ai pericoli che si correrebbero qualora lo smartphone con l’app suddetta finisse nelle mani di un soggetto malintenzionato.

I dati raccolti tramite queste app possono essere venduti a soggetti terzi?

Allo scopo di valorizzare le app come prodotti commerciali, a molti potrebbe venire la forte tentazione di rivendere a terzi i numerosissimi e preziosissimi dati che esse raccolgono. In questo caso, è necessario ottenere apposito consenso dagli utenti. Ad esempio, Life360 raccoglie i dati sull’esperienza di guida degli utenti e li cede ad una società di analisi dati, che elabora statistiche per conto di società assicuratrici o di altri soggetti interessati. Tuttavia, la medesima informa di questo trattamento l’utente, che può scegliere di negare il consenso a tale ulteriore utilizzo dei propri dati.

Profilazione e marketing

Parimenti, molte società potrebbero decidere di intraprendere una profilazione massiva degli utenti, per rivolgere loro una pubblicità personalizzata. Per usare i dati raccolti anche per finalità di marketing, tuttavia, è necessario ottenere il consenso degli utenti, che devono poter essere in grado di stabilire in base a quali dati possono essere profilati, quale tipo di pubblicità sono interessati a ricevere e in che modo preferiscono riceverla (ad esempio, con notifiche o tramite e-mail). Più si permette all’utente di personalizzare il suo uso dell’app, meno si rischia che lo stesso sia lesivo per i suoi interessi.

Come vedi, creare un’app può essere molto redditizio, ma bisogna fare attenzione alle norme di legge. Qualora decidessi di sviluppare un nuovo applicativo, possiamo fornirti supporto nell’individuazione delle misure di sicurezza da applicare, al fine del rispetto della normativa privacy.

La pandemia ci ha sicuramente ricordato l’importanza del ruolo ricoperto dalla tecnologia in vari ambiti della nostra quotidianità. Non da ultimo: il business. Invero, sono sempre di più gli imprenditori che si stanno rendendo conto che per sopravvivere in questa nuova era, la tecnologia non è una risorsa, ma la risorsa. Il fine? Vendere. Come? Aprendo un e-commerce.

Aprire un e-commerce, tuttavia, non è un gioco da ragazzi. È essenziale valutare attentamente alcuni aspetti.

Aspetti organizzativi.

Il primo passo per aprire un e-commerce è: fare delle scelte. Scegli il tuo target, cosa vendergli, e come farlo. Per esempio, puoi decidere di dotarti di un magazzino (acquistandone la proprietà o prendendolo in affitto), oppure puoi basare il tuo business sul c.d. dropshipping: niente magazzino, giri gli ordini del tuo utente al grossista, che spedisce la merce ordinata al secondo.

Aspetti tecnologici.

La tecnologia è il tuo mezzo, ma attenzione: non fa tutto da sola . Lo sai che è possibile aprire un e-commerce gratuitamente, attraverso servizi online quasi del tutto preconfigurati? Un esempio è Shopify, che può essere utilizzato gratuitamente per un periodo di prova limitato, (senza inserire dati di pagamento e senza obbligo di rinnovo). Se invece preferisci qualcosa di più professionale puoi acquistare un hosting, un dominio e installare un CMS, ovverosia un software che ti permette di configurare l’e-commerce in ogni suo aspetto, come WordPress, Magento o Prestashop. In alternativa, puoi realizzare il tuo e-commerce da zero, attraverso il linguaggio di programmazione. Ma in questo caso, ti consigliamo di affidarti ad un professionista del settore.

Aspetti fiscali e doganali.

Starai pensando: perché limitarsi all’Italia quando si può conquistare il mondo? Qualora questo fosse il tuo proposito, bada bene di considerare eventuali dazi per la circolazione delle merci, nonché le diverse normative fiscali e legali degli stati che vuoi “conquistare”.

Non dimenticare il marketing!

Ricorda che per avere successo, non basta vendere un prodotto di qualità, serve anche il marketing. A tal proposito, è particolarmente indicato che il nome a dominio e i testi presenti nel sito siano improntanti al rispetto delle regole SEO.

Ovviamente, non possono mancare le immagini. Attenzione però alla legge sul diritto d’autore. Qualora tu decida di affidare ad un fotografo la realizzazione delle immagini per il tuo sito, ti consigliamo di disciplinare contrattualmente gli aspetti inerenti al diritto di riproduzione, utilizzo e diffusione delle fotografie.

Aspetti giuridici.

Salvo che tu non voglia fornire servizi sottoforma di prestazioni occasionali, dovrai aprire la partita IVA, che rappresenta però uno degli obblighi che dovrai sostenere se vuoi davvero aprire il tuo e-commerce. Occorre infatti anche:

  1. inviare una comunicazione all’Agenzia delle Entrate e all’INPS;
  2. l’iscrizione alla Camera di Commercio e allo Sportello Unico Attività Produttive (SUAP) del comune;
  3. eventualmente l’iscrizione al VIES (Vat Information Exchange System), se intendi vendere all’estero nella Comunità Europea.

Non è però finita qui. Invero, il commercio elettronico, ovverosia lo svolgimento di attività commerciali e di transazioni per via elettronica soggiace alla disciplina del D.lgs. 70/2003, attuativo della direttiva n. 2000/31/CE. È pertanto chiaro che il tuo il tuo e-commerce deve necessariamente essere costruito nel rispetto di quanto stabilito dalla succitata normativa.

Obblighi informativi

Lo sai per esempio che il tuo sito e-commerce deve obbligatoriamente contenere alcune specifiche informazioni? Invero, gli artt. 7 e ss. del D.lgs. 70/2003 impongono l’indicazione di:

  1. Identità del titolare della ditta, dei soci della società o del professionista;
  2. Dati fiscali (codice fiscale o partita iva);
  3. Indirizzo geografico e contatti dell’impresa (numero di telefono, indirizzo mail, posta elettronica certificata);
  4. Caratteristiche essenziali dei beni e/o dei servizi offerti;
  5. Prezzo totale dei beni e/o servizi offerti con indicazione dell’imposta sul valore aggiunto;
  6. Modalità di pagamento (contrassegno, carta di credito, ecc.);
  7. Modalità di consegna del bene o esecuzione del servizio;
  8. Modalità di presentazione dei reclami;
  9. Esplicazione delle modalità di esercizio del diritto di recesso;
  10. Eventuali altre informazioni sui costi da sostenere in caso di esercizio del diritto di recesso;
  11. Esistenza di garanzie legali di conformità dei beni o di adeguatezza dei servizi offerti;
  12. Durata del contratto.

Puoi inserire le informazioni di cui a punti 1, 2 e 3 nel footer del tuo sito, in modo che siano sempre a disposizione dell’utente; mentre per le altre, dovrai armati di condizioni generali di contratto.

Condizioni generali di contratto

Sei già allarmato, vero? In realtà, le condizioni generali di contratto oltre a fornire le informazioni di cui sopra, possono tutelarti in più di un’occasione. Nelle medesime, per esempio, vengono disciplinate le limitazioni alla tua responsabilità, le procedure da seguire in caso di merce viziata, quelle per gli avvenimenti di forza maggiore, come la pandemia che ben conosciamo, ed infine possono essere inserite apposite regole per la tutela della tua proprietà intellettuale e/o industriale.

Consumatore o professionista?

Ora che ti sei convinto dell’utilità – oltre che della necessarietà – delle condizioni generali di contratto, fermati! Vuoi vendere a consumatori o a imprenditori come te? Invero, qualora tu decidessi di rivolgerti alla prima categoria, le regole da tenere in considerazione per la redazione delle condizioni generali si arricchiscono di un ulteriore tassello: la normativa del Codice del Consumo (D.lgs. 206/2005). A titolo d’esempio, tale normativa assicura a tutti i consumatori la facoltà di recedere dal contratto entro 14 giorni dalla sua conclusione. Fra l’altro, nelle condizioni generali, è essenziale che tale indicazione sia messa nero su bianco, giacché, in assenza, il termine per l’esercizio del succitato diritto diventa di dodici mesi.

E la privacy?

Avrai di certo sentito molto parlare di privacy e trattamento dei dati personali. Invero, per la costruzione del tuo e-commerce, devi tenere in considerazione anche quanto stabilito a tal proposito dal Regolamento Europeo n. 679/2016, meglio conosciuto con il nome di GDPR. Bada bene, non è sufficiente che tu provveda a caricare all’interno del tuo sito e-commerce l’informativa sul trattamento dei dati personali, con tutte le informazioni di cui all’art. 13 del GDPR e la relativa cookie policy.

Infatti, l’art. 25 del GDPR ti impone, in quanto Titolare del trattamento, di mettere in atto, già nella fase di ideazione e creazione del tuo e-commerce, misure tecniche e organizzative adeguate, quali la pseudonimizzazione e la minimizzazione, per proteggere i dati e i diritti degli utenti (c.d. principio della privacy by default e by design).

Le nostre istruzioni per l’uso

Se sei arrivato in fondo a questo articolo, ti sarai certamente reso conto che la rete normativa sottesa al commercio elettrico è parecchio intricata.

Ecco perché è sempre preferibile rivolgersi ad un consulente specializzato in materia, fin dall’inizio dell’implementazione dell’e-commerce. Lo stesso, infatti, può guidare te e gli sviluppatori nella creazione di un portale a norma di legge, facendoti risparmiare non solo il denaro che saresti costretto ad investire in eventuali, alquanto probabili modifiche e/o correzioni, ma anche quello che potresti essere costretto a sborsare in sanzioni, qualora prediligessi il famoso “fai da te”.

Non esitare a contattarci, se vuoi approfondire la questione ovvero se hai bisogno di supporto per la creazione del tuo e-commerce.

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha coinvolto le imprese anche dal punto di vista del loro assetto organizzativo. In particolare, le imprese che hanno deciso di dotarsi di Modelli Organizzativi, ai sensi del d.lgs. 231/2001, hanno dovuto valutare la tenuta dei loro Modelli e il ruolo dell’Organismo di Vigilanza.

Sul tema, Confindustria ha emanato, nel presente mese, delle linee operative che aiutano le imprese dotate di un Modello 231, ad affrontare l’emergenza.

Il profilo di rischio indiretto

La situazione che le imprese hanno vissuto e stanno vivendo può comportare un aumento del rischio di commissione di alcuni dei reati presupposto. Invero, basti pensare alla famiglia dei reati corruttivi (reati contro la PA, corruzione tra privati), reati che possono più facilmente essere commessi in un periodo di crisi finanziaria (ad esempio, per la partecipazione a procedure di gara semplificate, piuttosto che per accedere ad ammortizzatori sociali o per continuare l’attività produttiva nel periodo del lock down).

Non solo di corruzione si occupa il d.lgs. 231/2001.

Difatti, l’impresa potrebbe incorrere nella commissione di ulteriori reati (es. ricettazione, riciclaggio, impiego di cittadini di Paesi terzi con permesso irregolare) anche attraverso i propri dipendenti in smart working. Non dimentichiamo invero che nell’alveo del catalogo 231, sono annoverati anche i reati informatici e le violazioni del diritto d’autore. Basti pensare all’utilizzo promiscuo dei dispositivi personali anche per finalità lavorative e al rischio che possano essere, ad esempio, utilizzati software non originali.

Risulta pertanto necessario procedere alla modifica del Modello 231?

Come correttamente indicato da Confindustria, i rischi sopra richiamati sono rischi indiretti e trasversali alle varie tipologie aziendali. Tali rischi invero avrebbero dovuto già essere valutati e mappati all’interno del Modello 231 e l’impresa avrebbe dovuto dotarsi di procedure idonee a ridurre al minimo, se non ad eliminare, il rischio di commissione di reato. Qualora l’azienda non abbia adempiuto in tal senso, si presenta in ogni caso l’occasione per procedere ad una nuova analisi e valutazione del rischio a cui seguirà poi l’adozione di procedure specifiche.

Per le imprese invero che hanno già adottato siffatte procedure, probabilmente si renderà necessario procedere ad un loro rafforzamento.

Rischi diretti

I rischi invece che direttamente impattano sull’impresa sono quelli connessi al rischio di contagio da Covid-19, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Ad ogni modo, il rischio di commissione dei reati di omicidio colposo e lesioni personali gravi e gravissime, commessi in violazione delle norme antinfortunistiche, erano già parte del catalogo 231, prima dell’emergenza epidemiologica. Ne deriva che, il rischio di contagio da Covid-19, diventa un ulteriore rischio specifico che non impatta però sui presidi di carattere generale. In altri termini il Covid-19 non impone l’adozione di un sistema gestionale ad hoc per tale rischio.

Diversamente, nell’ipotesi in cui l’impresa abbia deciso di integrare le procedure sicurezza all’interno del Modello 231, si dovrà invece valutare se procedere alla loro revisione oppure alla creazione di un addendum specifico.

In ogni caso, onere del datore di lavoro è quello di predisporre le misure idonee a tutelare i lavoratori da tale rischio.

Data l’assoluta novità di tale virus, il datore di lavoro dovrà attenersi alle misure di contenimento che sono state individuate, e che verranno via via individuate in futuro, dalle Autorità Pubbliche (sul tema si veda il nostro contributo video).

Organismo di Vigilanza

L’Organismo di Vigilanza, in tale contesto, deve procedere a rafforzare il proprio controllo sulla corretta ed efficace implementazione del Modello 231 esistente, nonché sulle misure adottate dal datore di lavoro nel rispetto di quanto indicato dalle Autorità Pubbliche. L’OdV dovrà mantenere un costante confronto con i vertici aziendali e con il comitato per l’applicazione e la verifica dei presidi indicati dalle Autorità Pubbliche per evitare il contagio da Covid-19.

Il monitoraggio della situazione aziendale viene garantito dai flussi informativi tra i responsabili di funzione e l’OdV, che si ritiene debbano essere potenziati in tale periodo. Invero, l’OdV dovrà essere tenuto in costante aggiornamento circa le misure adottate in azienda, circa gli strumenti, anche di natura finanziaria, messi in campo per arginare l’eventuale crisi economica (es. ammortizzatori sociali, finanziamenti a fondo perduto etc).

L’OdV conserva in ogni caso il proprio ruolo propulsivo nell’ipotesi di inerzia dell’impresa, ovvero nel caso in cui, ad esempio, l’impresa non proceda ad adottare le misure poste a presidio del contagio.

Nell’emergenza epidemiologica il Modello 231 e tutta la compliance aziendale rappresenta un valido presidio per la gestione del rischio di commissione dei reati del d.lgs. 231/2001.

Vi invitiamo a contattare lo Studio per ogni ulteriore approfondimento.

Il commercio elettronico è in costante crescita sia in Italia che nel mondo. Nell’ultimo periodo, esso si è ulteriormente diffuso a causa dell’emergenza sanitaria, che ha comportato il blocco delle vendite al dettaglio delle merci ritenute non essenziali. Alla crescente importanza del settore non sempre si accompagna, però, la consapevolezza da parte degli operatori circa le normative vigenti e i rischi legali a cui possono andare incontro, in caso di violazione delle normative applicabili.

Dal punto di vista privacy, come tutti i siti web, anche quello e-commerce soggiace alle regole dettate in materia di data protection, sia per quanto riguarda le finalità di trattamento dei dati che il titolare è tenuto a fornire agli utenti, sia relativamente alle misure di sicurezza tecniche poste alla base del sistema informatico.

Nello specifico, le principali regole in tema di privacy da tenere in considerazione ai fini della costruzione di un e-commerce conforme alla legge sono individuate dal Reg. Ue 679/216 (GDPR) e dai provvedimenti emessi dal Garante

Le regole basilari

In particolare, in base ai principi dettati dall’art. 25 del GDPR, la creazione dell’e-commerce deve essere effettuata contestualmente alla progettazione del trattamento dei dati (privacy by desing) e il Titolare del Trattamento deve trattare i dati dell’interessato nella misura necessaria e sufficiente per le finalità previste e per il periodo strettamente necessario (privacy by default). Invero, il trattamento dei dati degli utenti deve avvenire tenendo conto del principio di minimizzazione dei dati, di cui all’art. 5 GDPR, secondo il quale possono essere trattati solo quei dati necessari e indispensabili in relazione alle finalità per le quali sono raccolti, nonché  secondo le logiche di accountability, consistenti nelle responsabilità di definire (a monte di un’attenta analisi dei dati trattati e dei possibili rischi connessi) l’insieme di quelle misure adeguate, che limitano il più possibile il verificarsi di eventuali rischi e garantiscono il rispetto delle disposizioni GDPR.

Ma come deve essere nella pratica un e-commerce per essere GDPR compliance?

Anzitutto l’e-commerce deve contenere una privacy policy (informativa), redatta ai sensi dell’art. 13 GDPR, che fornisce tutte le informazioni necessarie affinché i visitatori del sito possano decidere in modo consapevole se prestare o meno il loro consenso al trattamento dei dati personali. In particolare, nell’informativa devono essere inserite specifiche informazioni in relazione ai trattamenti dei dati degli utenti per determinate richieste o servizi (ad esempio alla gestione di un’area riservata per monitorare gli ordini effettuati). Altresì dovrà essere prevista una cookies policy e inserito, ad esempio, un banner con opt-in che contenga i vari cookies utilizzati, in modo da permettere all’Utente di poter fornire un consenso espresso.

Newsletter e messaggi sponsorizzati

Proprio per il fatto che il consenso deve essere prestato dall’utente in modo inequivocabile ed espresso, i moduli per le newsletters inseriti nel sito non possono contenere il consenso di default. L’impresa deve pertanto inserire una casella di spunta per il consenso al trattamento dei dati personali, senza che la stessa possa essere precompilata. Inoltre, sia i messaggi sponsorizzati che i moduli funzionanti con modalità opt- out (cioè i moduli che appaiono quando il cursore del mouse si muove verso la parte superiore della pagina per chiuderla) devono essere riadattati in modalità opt-in opzionale.

Attenzione al database e misure di sicurezza!

L’e-commerce deve poi essere dotato di un proprio database separato che faciliti la richiesta di cancellazione dei dati personali, e di un sistema di verifica dei dati degli utenti/visitatori, che renda possibile la verifica immediata nel caso in cui vengano violati i dati personali. Infine, deve essere garantita la sicurezza dei dati attraverso l’adozione di specifiche misure di sicurezza come, a titolo esemplificativo non esaustivo: utilizzare sistemi che permettono la riservatezza, l’integrità, la disponibilità dei dati personali; dotarsi di metodi che permettono di ripristinare la disponibilità dei dati personali e l’accesso ad essi in tempi appropriati in caso di incidenti fisici o tecnici; adottare procedure volte a verificare, analizzare e valutare regolarmente l’efficacia delle misure tecniche operative per assicurare la sicurezza.

Si ricorda che il mancato adeguamento agli obblighi imposti dal GDPR può comportare sanzioni molto pesanti per le imprese, in quanto sono previste multe sino a 20 milioni di Euro o fino al 4% del fatturato.

Proprio per questa ragione, se state pensando di dotarvi di un e-commerce, fatevi affiancare da un avvocato esperto in materia, per evitare di incorrere in guai con il Garante per la protezione dei dati personali.

Proseguiamo con questo articolo raccontando alcune delle Start-up del Fashion che lo scorso 7 aprile sono state presentate presso il noto incubatore H-Farm, in occasione di una visita organizzata da Antia (Associazione Italiana tecnici professionisti del sistema moda).

La Start-up di cui vogliamo parlarvi si chiama THECOLORSOUP: il primo shop on-line di tessuti personalizzati on demand. Thecolorsoup è una piattaforma web dalla quale è possibile ordinare tessuti con grafiche personalizzate, scegliendo tra 21 basi di tessuto (per fare qualche esempio: voile di seta, lino, cotone, microfibra, voile di poliestere, felpa ecc.) sia per l’abbigliamento che per l’arredamento. Il portale offre già più di 500 grafiche di alta qualità tra cui scegliere, ma l’utente potrà anche caricare e richiedere la stampa di una propria grafica.
Si tratta di una start-up un po’ atipica in quanto nasce all’interno del Gruppo Miroglio, non ha avuto quindi necessità di trovare investor nel libero mercato. Il Gruppo stesso ha creduto nell’idea ed ha fatto tutto ciò che era necessario per permettere il suo sviluppo ottimale.

Ma chiediamo a Elena Guarene (Project Manager) di dirci qualcosa di più su questo progetto davvero innovativo ed originale.

Come è nata l’idea di “TheColorSoup”?

L’idea è maturata all’interno dell’area Miroglio Innovation Program. Il Gruppo Miroglio ha reso possibile la nostra permanenza in H-FARM perché potessimo sviluppare il progetto in autonomia, contaminandoci con la cultura innovativa e il fermento creativo del più grande acceleratore europeo d’imprese.

Ad ottobre 2015, dopo 4 mesi di lavoro, la piattaforma è stata messa on- line.

Oggi possiamo definirci il negozio di tessuti 2.0, ma abbiamo tanti plus: texture di tendenza, la personalizzazione della base tessuto, la stampa digitale e la velocità nella consegna.

Siamo la soluzione a diverse richieste! THECOLORSOUP è nato per dare spazio a sarte, designer professionisti, handmaker per hobby e stilisti. Acquistando il materiale più idoneo il cliente potrà realizzare ogni tipo di accessorio, dall’abbigliamento all’arredamento, mai banale!

Che livello di complessità aveva raggiunto la vostra start-up quando siete arrivati in H-Farm?

Quando siamo arrivati in H-Farm siamo partiti da zero sia con l’analisi del mercato e del nostro ipotetico target che con la costruzione del sito stesso.

Anche il nome del progetto è nato in H-Farm!

Quale parte del supporto fornito da H-Farm è stato secondo lei di maggiore importanza?

L’affiancamento da parte di mentors e tutors ci ha aiutato a lavorare in team, pianificare in modo ottimale le varie attività per riuscire a raggiungere l’obiettivo in modo veloce, stringere legami e conoscere realtà giovani e innovative.

Come avete gestito e formalizzato i ruoli di ciascuno startupper all’interno del progetto?

Il Gruppo Miroglio ha voluto supportare il progetto investendo sulle idee di giovani dipendenti intraprendenti e desiderosi di crescere.

Il team è formato da tre trentenni:

Io, (Elena – project manager): lavoro nel Gruppo da 8 anni, sono nata come controller corporate (analisi/controlli costi e budget) e negli anni ho maturato esperienza nell’area corporate development. Sono curiosa e mi piace tutto ciò che è “novità”

Daniela – content editor&digital marketing: web designer e fotografa per i siti e-commerce di Miroglio Fashion srl

Lorenzo – web designer&developer: proviene da una web agency di Udine, appassionato di design, tecnologie web ed innovazione, lavora per creare soluzioni che siano al contempo belle da vedere ed intuitive da utilizzare.

Che futuro vede per “TheColorSoup”?

Vorremmo creare dei contest per grafici e illustratori per ampliare il nostro marketplace e avere sempre più tessuti greggi da proporre ai nostri clienti.

L’esigenza di stampare sul tessuto per realizzare un capo d’abbigliamento unico o arredare casa in modo speciale è forte! Oggi, tutti vogliono personalizzare…ecco perché nasce thecolorsoup.com

TheColorSoup utilizza stampa digitale e sublimatica con i migliori colori del mercato, affidandosi al know how del Gruppo Miroglio. Il risparmio dell’acqua è uno degli obiettivi che hanno guidato gli investimenti tecnologici nel settore, facendo ottenere al Gruppo performance di rilievo.