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Categoria: Tutela proprietà industriale

In un recente articolo vi abbiamo parlato di un caso in cui è stata riconosciuta la contraffazione degli scarponi Moon Boot, che sono tutelati come opera del disegno industriale.

Moon Boot - Wikipedia

Nell’ambito della moda rilevano tuttavia anche altri diritti di proprietà intellettuale, come i marchi ed i disegni e modelli registrati.

I marchi nel fashion

I marchi sono di frequente rappresentati dal nome o dal logo del produttore o del rivenditore. I marchi ricevono una qualche tutela anche se usati solo “di fatto”, tuttavia è evidente che tutti i marchi più prestigiosi risultano registrati in uno o più registri, a livello nazionale, europeo o internazionale. La registrazione legittima di per sé il titolare di un marchio ad agire contro eventuali contraffattori, senza dover ulteriormente provare la validità del titolo. In fase di giudizio, tuttavia, colui che venga accusato di contraffazione potrà pur sempre cercare di difendersi contestando la validità della registrazione del marchio altrui (come è successo per alcuni marchi di Hermés su cui torneremo in seguito).

Nel settore della moda però è fondamentale anzitutto riuscire a riconoscere i segni che sono marchi tutelati. Infatti, oltre ai “classici” marchi rappresentati dal nome o logo del produttore, sono molto diffusi anche i cosiddetti marchi “di colore”.

Ad esempio, è un marchio di colore registrato, e di cui di recente ne è stata riaffermata la validità (Commissione di Ricorso dell’EUIPO, decisione del 16 giugno 2011, R 2272/2010-2), la precisa tonalità di rosso che si trova sulla suola delle scarpe create dal noto stilista francese Christian Louboutin.

Di recente, anche Chiara Ferragni, o meglio, alcune società che producono per il suo brand, sono incorsi in un errore di valutazione per quanto riguarda la produzione di una linea di calzature e sono stati condannati ad interrompere la produzione e a risarcire i danni per la violazione del diritto d’autore di Tecnica Group sui celebri doposcì Moon Boot (sentenza del Tribunale di Milano, n. 493 del 25 gennaio 2021).

Moon Boot Kids : Clothes & Accessories | Melijoe

Gli imprenditori nell’ambito della moda sono spesso guidati e trascinati dal proprio pensiero creativo, che può essere più o meno libero o influenzato dall’ambiente esterno. Ma dopo lo spunto creativo, a cosa bisogna stare attenti nella realizzazione di un nuovo capo, calzatura o collezione? L’ “ispirazione” da idee altrui non può infatti trasformarsi in una “copia”, che sarà dichiarata illecita, sussistendo determinate condizioni, a prescindere dal fatto che fosse, o meno, consapevole.

Può ad esempio accadere che taluni prodotti del settore moda, come è stato riconosciuto dal Tribunale di Milano nel caso dei Moon Boot e come avvenuto in precedenza anche per altri capi di abbigliamento o calzature, siano tutelati dal diritto d’autore, se ritenuti qualificabili come “opere del disegno (o “design”) industriale” con carattere creativo e valore artistico. Di conseguenza, eventuali capi simili dovrebbero presentare un’“autonomia creativa” per essere a propria volta tutelati e non considerati in contraffazione con la creazione precedente.

Qual è il rischio effettivo in cui incorre un imprenditore che non consideri questi aspetti?

Innanzitutto, occorre considerare che una violazione del diritto d’autore danneggia sia il “creatore morale” dell’opera, sia colui che è titolare dei relativi diritti di sfruttamento economico. L’idea innovativa può venire a chiunque, ma quando entrano in gioco forti interessi economici, è evidente come ci si esponga ad un elevato rischio sia di contestazioni “stragiudiziali” sia di eventuali procedimenti giudiziali.

Di solito la società titolare dei diritti (che nel “caso Ferragni” era Tecnica Group) invia inizialmente una diffida al presunto contraffattore. Con la diffida si viene intimati di cessare la produzione e la commercializzazione dei prodotti in questione ed è possibile che venga anche chiesto un risarcimento per i danni fino a quel momento subiti. In questi casi, la cifra richiesta potrebbe essere rilevante, ma talvolta viene comunque accettata e pagata per evitare il rischio di un procedimento giudiziale dall’esito e dalla durata incerti. In tema di riconoscimento del diritto d’autore, infatti, le valutazioni dei giudici risultano spesso oscillanti e non prevedibili.

Se si accetta di cessare la produzione e la vendita dei prodotti, ed eventualmente di pagare il risarcimento richiesto, i soggetti coinvolti stipulano quindi una transazione, che tra l’altro potrebbe prevedere anche clausole penali per eventuali futuri inadempimenti, esponendo l’attività dell’imprenditore contestato ad ancora maggiori rischi.

L’Italia è famosa nel mondo per le proprie bellezze storiche e ambientali, per l’arte culinaria e…. per la moda!

La filiera della moda in Italia rappresenta, infatti, l’8,5% del fatturato (oltre 80 miliardi) e il 12,5% dell’occupazione (quasi 500mila addetti) dell’industria manifatturiera italiana. Il saldo commerciale (relativo ai Personal Luxury Goods) ammonta a oltre 33 miliardi di euro (il secondo valore più consistente in Italia dopo la meccanica). L’industria della moda, peraltro, cresce senza sosta dal 2007, registrando un tasso di crescita medio annuo pari a più del doppio di quello riferito al resto della manifattura italiana (1,3% vs 0,6%)[1].

Come sappiamo, le imprese della filiera italiana sono perlopiù di piccole o medie dimensioni. Tuttavia, tale caratteristica, invece che rappresentare uno svantaggio, favorisce la specializzazione e l’internazionalizzazione. Infatti, la piccola dimensione delle aziende del fashion viene bilanciata da una forte interrelazione tra le medesime, che ne garantisce una elevata capacità di innovazione e quindi di competitività sui mercati internazionali.

L’interrelazione tra le imprese e il contratto di subfornitura

Sebbene l’interrelazione tra le aziende della filiera della moda italiana sia di fatto uno dei suoi punti di forza, la stessa può facilmente trasformarsi in una trappola infernale, in assenza di una regolamentazione scritta delle relazioni commerciali che ne costituiscono la base sostanziale. Ed è proprio per questo, che il contratto di subfornitura è il lusso che la moda si deve permettere.

La categoria del contratto d'impresa nel diritto italo-europeo. Il modello  della subfornitura | Salvis Juribus

Perché avere un contratto scritto di subfornitura è così importante?

Non tutti sanno che questa tipologia negoziale è regolata da una normativa ad hoc, ossia la L. 192/1998. L’art.2 di tale legge prevede espressamente la nullità dei contratti di subfornitura che non siano stati conclusi per iscritto, e/o nei quali non siano stati determinati in modo chiaro i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente, il prezzo pattuito, i termini e le modalità di consegna, di collaudo e di pagamento.

Quindi il primo buon motivo per dotarsi di un contratto scritto è quello di evitare la nullità. Anche perché, il citato articolo 2 prevede che, in caso di nullità, il subfornitore abbia comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto.

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Quali rischi si corrono senza un contratto scritto?

Molti e diversi. Il più eclatante? Il rischio che il subfornitore – dopo la conclusione del rapporto negoziale – utilizzi, senza alcuna autorizzazione, bozzetti, disegni o istruzioni tecniche, consegnate dal cliente. La filiera, infatti, funziona così: il cliente trasmette il bozzetto, oppure già il cartamodello o il prototipo al committente del contratto di subfornitura, il quale, a sua volta, trasmette gli stessi a vari subfornitori per le lavorazioni di loro competenza: sviluppo delle taglie, piazzamento, taglio del tessuto, trattamenti, confezione, controllo qualità, stiro, apposizione di accessori ed etichette, fino alla spedizione.

A tutelare la proprietà intellettuale in costanza di rapporto, vi è l’art. 7 della L. 192/98, secondo cui il committente conserva la proprietà industriale di progetti e prescrizioni di carattere tecnico da lui comunicati al fornitore e sopporta i rischi ad essi relativi. Il fornitore è, a sua volta, tenuto alla riservatezza e risponde della corretta esecuzione di quanto richiesto, sopportando i relativi rischi. Ma dopo la fine del rapporto negoziale cosa può accadere?

Senza un contratto scritto e una clausola contrattuale ad hoc che vieti al subfornitore l’utilizzo, dopo la fine del rapporto negoziale, di bozzetti, disegni, istruzioni, etc., potrebbe accadere – in forma peraltro più grave – quanto avvenuto nella vicenda di cui alla sentenza del 15 febbraio 2011 n. 185 del Tribunale di Vicenza.

Tribunale di Vicenza, Sezione 2, Civile, Sentenza del 15 febbraio 2011 n. 185

La Società Da. S.p.A. – affermata ditta produttrice di articoli di abbigliamento ed ulteriori articoli per motociclismo ed altri sports – aveva concluso con Ke.Ro. s.n.c. un contratto di fornitura e di lavorazioni in conto terzi, nel quale si prevedeva che Ke.Ro. effettuasse alcune lavorazioni per conto della prima e che, su richiesta di quest’ultima, provvedesse anche alla fabbricazione completa di alcuni articoli in pelle, impegnandosi ad attenersi a specifiche tecniche di lavorazione, comunicate di volta in volta da Da., con fornitura delle attrezzature e dei materiali necessari (mazzette, fustelle, capi campione e pelli).

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Il contratto conteneva il divieto assoluto per il subfornitore, anche tramite interposta persona, di realizzare prodotti simili e/o effettuare lavorazioni su medesimi prodotti, su ordinazione di terzi, per il  settore su indicato, anche dopo il termine naturale del contratto. Tale disposizione è stata ovviamente disattesa. Ke.Ro, per il tramite della Bl.Li, sua collegata, aveva lanciato una serie di articoli che imitavano in tutto o in parte i corrispondenti articoli della Da., della quale aveva utilizzato i cartamodelli.

Morale della storia? Le società Ke.Ro e Bl.Li venivano accusate e condannate del reato di concorrenza sleale e grazie al contratto scritto, le medesime sono state anche condannate al risarcimento dei danni patiti dalla committente Da. S.p.A.

Alcuni importanti vantaggi

Vi state chiedendo se ci sono altri vantaggi in ordine alla conclusione di un contratto di subfornitura scritto? Molti altri. Per esempio, è possibile introdurre una clausola penale per il caso d’inadempimento o di ritardo nell’adempimento da parte del subfornitore. Il vantaggio di questa previsione è che la clausola penale esonera il committente dalla prova del danno. Ciò significa che il medesimo, in caso di inadempimento, può pretendere la penale indipendentemente dalla verificazione o meno di una lesione effettiva.

Inoltre, mediante la stipulazione di un contratto scritto, il committente può imporre degli obblighi precisi al subfornitore anche dopo la conclusione del contratto. Come? Introducendo, per esempio, una clausola di riservatezza, obbligando così il subfornitore, sia durante la vigenza del contratto che per «x» anni successivi alla sua cessazione, a non divulgare o ad utilizzare per scopi estranei al medesimo le informazioni e le notizie di qualsiasi natura di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto commerciale.

Infine, il contratto scritto risulta particolarmente utile per determinare in modo chiaro e preciso le modalità di effettuazione degli audit e dei controlli qualità.

Spesso, infatti, i subfornitori sono restii a collaborare per rendere queste attività di controllo efficaci. Il contratto di subfornitura può diventare il documento ove prevedere degli obblighi specifici sia in tema di documenti da consegnare, sia circa le modalità di svolgimento dei controlli stessi.

Inoltre, nel medesimo possono essere predeterminate le modalità con cui vengono effettuati i controlli qualità, che idealmente dovrebbero inerire tutte le fasi della produzione. Per esempio, potrebbe essere particolarmente efficace, prevedere che, in caso di vizi, il committente possa valutare se affidare le lavorazioni/servizi da eseguire al subfornitore responsabile delle non conformità o se affidare la relativa esecuzione a terzi oppure se procedere direttamente alla loro esecuzione, specificando che il subfornitore dovrà in ogni caso sostenere i costi dei tali attività. Parimenti utile potrebbe essere la definizione chiara delle modalità con cui il subfornitore accetta le citate non conformità contestate. Prevedere per esempio dei meccanismi di silenzio assenso può ridurre notevolmente i tempi per la correzione dei vizi o il rifacimento dei capi.

Ma volete sapere il vantaggio più grande? Il risparmio di notevoli risorse economiche

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Grazie all’introduzione, nei rapporti con i subfornitori, di un contratto scritto, infatti, è possibile ridurre, se non del tutto eliminare, le perdite di tempo nelle fasi di esecuzione del contratto; migliorare la collaborazione di tutte le imprese parte della filiera, favorendo comportamenti proattivi, quali quello di chiedere autonomamente istruzioni al committente, qualora assenti; efficientare gli audit, che non vengono più percepiti come intrusioni; ed infine ridurre notevolmente le costose controversie.

Concludendo, pare evidente come tutte le società – piccole o grandi che siano – che lavorino nella filiera della moda, e soprattutto in quella del lusso, dovrebbero regolare i loro rapporti, ovvero quelli con i subfornitori, mediante la conclusione di un contratto scritto, mettendosi così al riparo da rischi e perdite tutt’altro che secondari. D’altronde “un contratto verbale, non vale la carta su cui dovrebbe essere scritto” (Goldwyn).


[1] I dati qui riportati sono tratti dal report “L’economia italiana, dalla crisi alla ricostruzione. Settore Moda e Covid-19, Scenario, impatti, prospettive” elaborato nel Luglio 2020 da EY e Luiss Business School

Sei un imprenditore o un aspirante tale? Stai progettando ed implementando qualcosa di estremamente innovativo e sei parecchio preoccupato che qualcuno rubi, copi, riproduca la tua idea? Più che comprensibile.

Sappi che, fortunatamente, hai a disposizione diversi strumenti per tutelare te e il tuo know-how.

NDA

Se a preoccuparti è la condivisione della tua idea con possibili futuri collaboratori, puoi sottoporre alle persone interessate un NDA (letteralmente Non-Disclosure Agreement), ovverosia un accordo di riservatezza. Si tratta di un atto con cui una parte garantisce all’altra di non diffondere, rivelare o riprodurre in qualsivoglia modo determinate informazioni confidenziali, di cui sia venuta a conoscenza sulla base della predetta collaborazione. Tale accordo risulta particolarmente utile qualora nel medesimo sia prevista anche una clausola penale per il caso di inadempimento. Tale clausola, infatti, obbliga il soggetto “rivelante” a corrispondere all’altra parte una somma di denaro qualora violi gli obblighi di riservatezza dell’NDA.

Marchi e brevetti

La proprietà industriale può essere protetta, inter alia, anche attraverso appositi diritti o titoli, definiti tecnicamente “diritti di proprietà industriale”. Si tratta, in altri termini, di privative a vantaggio del loro titolare e a scapito di terzi concorrenti. Per esempio, le medesime possono conferire al titolare dei diritti negativi, come ad esempio il diritto di privare altri dell’uso e della commercializzazione di un’invenzione o di un disegno.

Tali diritti si possono acquistare mediante:

  1. brevettazione
  2. registrazione

Sono oggetto di brevettazione: le invenzioni, i modelli di utilità e le nuove varietà vegetali; mentre sono oggetto di registrazione: i marchi, i disegni, i modelli e le tipografie dei prodotti a semiconduttori.

Posto che abbiamo già trattato questo tema qui e qui, se sei curioso di capire come funzionano le descritte privative, ti invitiamo a leggere gli articoli linkati.

Ma se io volessi tutelare le fasi del processo creativo … come posso fare? WIPO-Proof è la soluzione

Ti stai chiedendo quale strumento utilizzare per tutelare le varie fasi del processo creativo che ti sta conducendo all’implementazione della tua idea? In tuo soccorso c’è WIPO-Proof. Si tratta di un nuovo servizio online, messo a disposizione dalla World Intellectual Property Organization, che ha lo scopo di costituire una prova non falsificabile dell’esistenza di un file digitale in un determinato momento, tutelandolo indipendentemente dal fatto che il risultato divenga poi oggetto di un diritto di proprietà industriale.

Interessante, ma per cosa lo posso utilizzare?

WIPO PROOF è pensato per quelle opere che non possono godere della tutela accordata ai titoli di proprietà industriale sopra descritti, ma che sono protetti dalla legge sul diritto d’autore.

Tale sistema è particolarmente utile ogni qualvolta si voglia dare una data certa e riconoscere la paternità ad un’opera o ad un lavoro. Sono infatti caricabili sul sistema:

•           segreti commerciali

•           lavori creativi (audio, video, lavori letterari)

•           lavori artistici (pattern, lavori di architettura)

•           schemi tecnici, piani, progetti

•           Codice di programma

•           Ricerche (rapporti, note di laboratorio)

•           Algoritmi, sequenze genetiche

•           Documenti firmati digitalmente (contratti, lettere, certificati)

Ma quanto costa?

Non ti preoccupare del costo. Con poco meno di venti euro, poi tutelare in modo adeguato il tuo progetto. Tuttavia, WIPO offre anche altri servizi, per i cui costi ti invitiamo a visitare la seguente pagina.

Il consiglio dell’esperto

Come puoi vedere, hai a disposizione un ampio range di possibilità per proteggere la tua idea, il tuo progetto o la tua invenzione. Scegliere quella più adatta alle tue esigenze non è però facile. Per questo, ti consigliamo di rivolgerti sempre ad un esperto legale che saprà come indirizzarti al meglio.

Lo Studio Legale Soccol è sempre a disposizione per risolvere eventuali tuoi dubbi e per aiutarti a tutelare il tuo progetto.

La pandemia ci ha sicuramente ricordato l’importanza del ruolo ricoperto dalla tecnologia in vari ambiti della nostra quotidianità. Non da ultimo: il business. Invero, sono sempre di più gli imprenditori che si stanno rendendo conto che per sopravvivere in questa nuova era, la tecnologia non è una risorsa, ma la risorsa. Il fine? Vendere. Come? Aprendo un e-commerce.

Aprire un e-commerce, tuttavia, non è un gioco da ragazzi. È essenziale valutare attentamente alcuni aspetti.

Aspetti organizzativi.

Il primo passo per aprire un e-commerce è: fare delle scelte. Scegli il tuo target, cosa vendergli, e come farlo. Per esempio, puoi decidere di dotarti di un magazzino (acquistandone la proprietà o prendendolo in affitto), oppure puoi basare il tuo business sul c.d. dropshipping: niente magazzino, giri gli ordini del tuo utente al grossista, che spedisce la merce ordinata al secondo.

Aspetti tecnologici.

La tecnologia è il tuo mezzo, ma attenzione: non fa tutto da sola . Lo sai che è possibile aprire un e-commerce gratuitamente, attraverso servizi online quasi del tutto preconfigurati? Un esempio è Shopify, che può essere utilizzato gratuitamente per un periodo di prova limitato, (senza inserire dati di pagamento e senza obbligo di rinnovo). Se invece preferisci qualcosa di più professionale puoi acquistare un hosting, un dominio e installare un CMS, ovverosia un software che ti permette di configurare l’e-commerce in ogni suo aspetto, come WordPress, Magento o Prestashop. In alternativa, puoi realizzare il tuo e-commerce da zero, attraverso il linguaggio di programmazione. Ma in questo caso, ti consigliamo di affidarti ad un professionista del settore.

Aspetti fiscali e doganali.

Starai pensando: perché limitarsi all’Italia quando si può conquistare il mondo? Qualora questo fosse il tuo proposito, bada bene di considerare eventuali dazi per la circolazione delle merci, nonché le diverse normative fiscali e legali degli stati che vuoi “conquistare”.

Non dimenticare il marketing!

Ricorda che per avere successo, non basta vendere un prodotto di qualità, serve anche il marketing. A tal proposito, è particolarmente indicato che il nome a dominio e i testi presenti nel sito siano improntanti al rispetto delle regole SEO.

Ovviamente, non possono mancare le immagini. Attenzione però alla legge sul diritto d’autore. Qualora tu decida di affidare ad un fotografo la realizzazione delle immagini per il tuo sito, ti consigliamo di disciplinare contrattualmente gli aspetti inerenti al diritto di riproduzione, utilizzo e diffusione delle fotografie.

Aspetti giuridici.

Salvo che tu non voglia fornire servizi sottoforma di prestazioni occasionali, dovrai aprire la partita IVA, che rappresenta però uno degli obblighi che dovrai sostenere se vuoi davvero aprire il tuo e-commerce. Occorre infatti anche:

  1. inviare una comunicazione all’Agenzia delle Entrate e all’INPS;
  2. l’iscrizione alla Camera di Commercio e allo Sportello Unico Attività Produttive (SUAP) del comune;
  3. eventualmente l’iscrizione al VIES (Vat Information Exchange System), se intendi vendere all’estero nella Comunità Europea.

Non è però finita qui. Invero, il commercio elettronico, ovverosia lo svolgimento di attività commerciali e di transazioni per via elettronica soggiace alla disciplina del D.lgs. 70/2003, attuativo della direttiva n. 2000/31/CE. È pertanto chiaro che il tuo il tuo e-commerce deve necessariamente essere costruito nel rispetto di quanto stabilito dalla succitata normativa.

Obblighi informativi

Lo sai per esempio che il tuo sito e-commerce deve obbligatoriamente contenere alcune specifiche informazioni? Invero, gli artt. 7 e ss. del D.lgs. 70/2003 impongono l’indicazione di:

  1. Identità del titolare della ditta, dei soci della società o del professionista;
  2. Dati fiscali (codice fiscale o partita iva);
  3. Indirizzo geografico e contatti dell’impresa (numero di telefono, indirizzo mail, posta elettronica certificata);
  4. Caratteristiche essenziali dei beni e/o dei servizi offerti;
  5. Prezzo totale dei beni e/o servizi offerti con indicazione dell’imposta sul valore aggiunto;
  6. Modalità di pagamento (contrassegno, carta di credito, ecc.);
  7. Modalità di consegna del bene o esecuzione del servizio;
  8. Modalità di presentazione dei reclami;
  9. Esplicazione delle modalità di esercizio del diritto di recesso;
  10. Eventuali altre informazioni sui costi da sostenere in caso di esercizio del diritto di recesso;
  11. Esistenza di garanzie legali di conformità dei beni o di adeguatezza dei servizi offerti;
  12. Durata del contratto.

Puoi inserire le informazioni di cui a punti 1, 2 e 3 nel footer del tuo sito, in modo che siano sempre a disposizione dell’utente; mentre per le altre, dovrai armati di condizioni generali di contratto.

Condizioni generali di contratto

Sei già allarmato, vero? In realtà, le condizioni generali di contratto oltre a fornire le informazioni di cui sopra, possono tutelarti in più di un’occasione. Nelle medesime, per esempio, vengono disciplinate le limitazioni alla tua responsabilità, le procedure da seguire in caso di merce viziata, quelle per gli avvenimenti di forza maggiore, come la pandemia che ben conosciamo, ed infine possono essere inserite apposite regole per la tutela della tua proprietà intellettuale e/o industriale.

Consumatore o professionista?

Ora che ti sei convinto dell’utilità – oltre che della necessarietà – delle condizioni generali di contratto, fermati! Vuoi vendere a consumatori o a imprenditori come te? Invero, qualora tu decidessi di rivolgerti alla prima categoria, le regole da tenere in considerazione per la redazione delle condizioni generali si arricchiscono di un ulteriore tassello: la normativa del Codice del Consumo (D.lgs. 206/2005). A titolo d’esempio, tale normativa assicura a tutti i consumatori la facoltà di recedere dal contratto entro 14 giorni dalla sua conclusione. Fra l’altro, nelle condizioni generali, è essenziale che tale indicazione sia messa nero su bianco, giacché, in assenza, il termine per l’esercizio del succitato diritto diventa di dodici mesi.

E la privacy?

Avrai di certo sentito molto parlare di privacy e trattamento dei dati personali. Invero, per la costruzione del tuo e-commerce, devi tenere in considerazione anche quanto stabilito a tal proposito dal Regolamento Europeo n. 679/2016, meglio conosciuto con il nome di GDPR. Bada bene, non è sufficiente che tu provveda a caricare all’interno del tuo sito e-commerce l’informativa sul trattamento dei dati personali, con tutte le informazioni di cui all’art. 13 del GDPR e la relativa cookie policy.

Infatti, l’art. 25 del GDPR ti impone, in quanto Titolare del trattamento, di mettere in atto, già nella fase di ideazione e creazione del tuo e-commerce, misure tecniche e organizzative adeguate, quali la pseudonimizzazione e la minimizzazione, per proteggere i dati e i diritti degli utenti (c.d. principio della privacy by default e by design).

Le nostre istruzioni per l’uso

Se sei arrivato in fondo a questo articolo, ti sarai certamente reso conto che la rete normativa sottesa al commercio elettrico è parecchio intricata.

Ecco perché è sempre preferibile rivolgersi ad un consulente specializzato in materia, fin dall’inizio dell’implementazione dell’e-commerce. Lo stesso, infatti, può guidare te e gli sviluppatori nella creazione di un portale a norma di legge, facendoti risparmiare non solo il denaro che saresti costretto ad investire in eventuali, alquanto probabili modifiche e/o correzioni, ma anche quello che potresti essere costretto a sborsare in sanzioni, qualora prediligessi il famoso “fai da te”.

Non esitare a contattarci, se vuoi approfondire la questione ovvero se hai bisogno di supporto per la creazione del tuo e-commerce.

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha coinvolto le imprese anche dal punto di vista del loro assetto organizzativo. In particolare, le imprese che hanno deciso di dotarsi di Modelli Organizzativi, ai sensi del d.lgs. 231/2001, hanno dovuto valutare la tenuta dei loro Modelli e il ruolo dell’Organismo di Vigilanza.

Sul tema, Confindustria ha emanato, nel presente mese, delle linee operative che aiutano le imprese dotate di un Modello 231, ad affrontare l’emergenza.

Il profilo di rischio indiretto

La situazione che le imprese hanno vissuto e stanno vivendo può comportare un aumento del rischio di commissione di alcuni dei reati presupposto. Invero, basti pensare alla famiglia dei reati corruttivi (reati contro la PA, corruzione tra privati), reati che possono più facilmente essere commessi in un periodo di crisi finanziaria (ad esempio, per la partecipazione a procedure di gara semplificate, piuttosto che per accedere ad ammortizzatori sociali o per continuare l’attività produttiva nel periodo del lock down).

Non solo di corruzione si occupa il d.lgs. 231/2001.

Difatti, l’impresa potrebbe incorrere nella commissione di ulteriori reati (es. ricettazione, riciclaggio, impiego di cittadini di Paesi terzi con permesso irregolare) anche attraverso i propri dipendenti in smart working. Non dimentichiamo invero che nell’alveo del catalogo 231, sono annoverati anche i reati informatici e le violazioni del diritto d’autore. Basti pensare all’utilizzo promiscuo dei dispositivi personali anche per finalità lavorative e al rischio che possano essere, ad esempio, utilizzati software non originali.

Risulta pertanto necessario procedere alla modifica del Modello 231?

Come correttamente indicato da Confindustria, i rischi sopra richiamati sono rischi indiretti e trasversali alle varie tipologie aziendali. Tali rischi invero avrebbero dovuto già essere valutati e mappati all’interno del Modello 231 e l’impresa avrebbe dovuto dotarsi di procedure idonee a ridurre al minimo, se non ad eliminare, il rischio di commissione di reato. Qualora l’azienda non abbia adempiuto in tal senso, si presenta in ogni caso l’occasione per procedere ad una nuova analisi e valutazione del rischio a cui seguirà poi l’adozione di procedure specifiche.

Per le imprese invero che hanno già adottato siffatte procedure, probabilmente si renderà necessario procedere ad un loro rafforzamento.

Rischi diretti

I rischi invece che direttamente impattano sull’impresa sono quelli connessi al rischio di contagio da Covid-19, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Ad ogni modo, il rischio di commissione dei reati di omicidio colposo e lesioni personali gravi e gravissime, commessi in violazione delle norme antinfortunistiche, erano già parte del catalogo 231, prima dell’emergenza epidemiologica. Ne deriva che, il rischio di contagio da Covid-19, diventa un ulteriore rischio specifico che non impatta però sui presidi di carattere generale. In altri termini il Covid-19 non impone l’adozione di un sistema gestionale ad hoc per tale rischio.

Diversamente, nell’ipotesi in cui l’impresa abbia deciso di integrare le procedure sicurezza all’interno del Modello 231, si dovrà invece valutare se procedere alla loro revisione oppure alla creazione di un addendum specifico.

In ogni caso, onere del datore di lavoro è quello di predisporre le misure idonee a tutelare i lavoratori da tale rischio.

Data l’assoluta novità di tale virus, il datore di lavoro dovrà attenersi alle misure di contenimento che sono state individuate, e che verranno via via individuate in futuro, dalle Autorità Pubbliche (sul tema si veda il nostro contributo video).

Organismo di Vigilanza

L’Organismo di Vigilanza, in tale contesto, deve procedere a rafforzare il proprio controllo sulla corretta ed efficace implementazione del Modello 231 esistente, nonché sulle misure adottate dal datore di lavoro nel rispetto di quanto indicato dalle Autorità Pubbliche. L’OdV dovrà mantenere un costante confronto con i vertici aziendali e con il comitato per l’applicazione e la verifica dei presidi indicati dalle Autorità Pubbliche per evitare il contagio da Covid-19.

Il monitoraggio della situazione aziendale viene garantito dai flussi informativi tra i responsabili di funzione e l’OdV, che si ritiene debbano essere potenziati in tale periodo. Invero, l’OdV dovrà essere tenuto in costante aggiornamento circa le misure adottate in azienda, circa gli strumenti, anche di natura finanziaria, messi in campo per arginare l’eventuale crisi economica (es. ammortizzatori sociali, finanziamenti a fondo perduto etc).

L’OdV conserva in ogni caso il proprio ruolo propulsivo nell’ipotesi di inerzia dell’impresa, ovvero nel caso in cui, ad esempio, l’impresa non proceda ad adottare le misure poste a presidio del contagio.

Nell’emergenza epidemiologica il Modello 231 e tutta la compliance aziendale rappresenta un valido presidio per la gestione del rischio di commissione dei reati del d.lgs. 231/2001.

Vi invitiamo a contattare lo Studio per ogni ulteriore approfondimento.

Vi siete mai chiesti che tutela ha il design? Le opere di design possono essere coperte anche dalla tutela del diritto d’autore, oltre che dalla tutela della proprietà industriale? Numerosi sono i casi giudiziali di violazione dei diritti di proprietà industriale sui disegni e modelli che però hanno visto anche il riconoscimento della tutela degli autori qualificando il design come vera e propria “opere d’arte”.

Prima di analizzare i casi più importanti che riguardano il design riconosciuto in tutto il mondo, occorre soffermarsi su alcune premesse di carattere generale. La domanda che ci si pone, infatti, è: che differenza c’è tra la tutela del diritto d’autore e quella della proprietà industriale?
Innanzitutto definiamo il design, che comprende: a) il disegno, che ha carattere bidimensionale, quali le linee o i colori di un prodotto, e b) il modello, che ha carattere tridimensionale e riguarda la forma del prodotto.
Secondo quanto previsto dal Codice della Proprietà Industriale (D.lgs. 30/2005, art. 31), può essere oggetto di registrazione nazionale o comunitaria come design l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua riguardante le caratteristiche delle linee, i contorni, i colori, la forma, la struttura superficiale, i materiale dei prodotto stesso o, ancora, il suo ornamento, a condizione però che sia nuovo e abbia carattere individuale.
Il design è considerato nuovo, in base all’art. 32 CPI, se nessun disegno o modello identico è stato divulgato precedentemente alla data di presentazione della domanda di registrazione (o di divulgazione, per il design non registrato).

Si considerano identici i disegni o modelli quando le loro caratteristiche differiscono solamente per dettagli irrilevanti. Il carattere individuale del design, in base all’art. 33 CPI, sussiste quando nell’utilizzatore informato (cioè un soggetto che ha un’approfondita conoscenza del settore di riferimento, quindi una figura intermedia tra il consumatore e l’esperto) il disegno o modello suscita un’impressione generale diversa da qualsiasi disegno o modello che sia stato divulgato al pubblico prima.
La registrazione di un disegno o modello conferisce al titolare il diritto esclusivo di utilizzarlo e di vietare a terzi di utilizzarlo senza il suo consenso. Pertanto, né può essere vietata la fabbricazione, la commercializzazione, l’importazione, l’esportazione, e la detenzione dei prodotto per i predetti fini.
I diritti esclusivi previsti dalla registrazione hanno durata massimo di 25 anni e si estendono a tutto il territorio italiano, mentre la tutela prevista per il design non registrato è limitata ad un periodo di 3 anni ed è prevista dalla normativa comunitaria (art. 11 Reg. CE n. 6/2002). In quest’ultimo caso, il periodo inizia dalla data in cui il disegno o modello è stato divulgato al pubblico per la prima volta nel territorio dell’Unione Europea.

Il diritto d’autore tutela, tramite la legge n. 633/1941, tutte le opere artistiche dotate di creatività. L’autore di un’opera ha diritto esclusivo di pubblicarla e di sfruttarla economicamente in ogni forma e modo originale, nei limiti fissati dalla legge. Non di meno, l’autore di un’opera ha il diritto morale di essere riconosciuto come tale e di veder tutelata la propria personalità in relazione al processo creativo che ha portato alla creazione dell’opera.
La tutela del diritto d’autore ha una durata molto più ampia rispetto a quella riconosciuta al design, essendo di 70 anni dalla morte dell’autore.
Da questi brevi cenni delle due discipline, si notano subito i vantaggi a veder riconosciuta al design anche la tutela del diritto d’autore:
a) l’estensione temporale della tutela;
b) la mancanza di costi di registrazione in quanto la tutela autoriale sorge con la mera creazione dell’opera.
Per quanto interessa per i contenuti dell’articolo, l’art. 2, n. 10, della legge sul diritto d’autore riconosce la propria tutela a tutte le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico.
Brevemente, si ricorda che per veder riconosciuto il “carattere creativo” in un’opera di design deve sussistere un atto creativo minimo suscettibile di manifestazione esteriore, frutto di un’impronta personale dell’autore. Il concetto di “valore artistico”, invece, è più difficilmente definibile: a volte è stato riconosciuto come “un particolare pregio estetico dell’opera”, mentre in altre occasioni è stato specificato che l’accertamento deve fondarsi su elementi indiziari, idonei a provare il riconoscimento collettivo del valore dell’opera, quali ad esempio, l’inclusione in musei o collezioni di design o di arte contemporanea, il riconoscimento di premi di design o il giudizio di esperti dei singoli rami dell’arte.

Tutto quanto sopra illustrato, ha degli interessanti risvolti pratici: vediamone alcuni.
Caso Kiko (Tribunale di Milano, sentenza n. 1416/2015). Si tratta di un caso particolarmente noto, che vede estesa la tutela autoriale anche al c.d. concept di uno store, cioè al progetto di arredamento di interni. Kiko S.p.a., nel 2005, affidava allo studio Iosa Ghini Associati S.r.l. la realizzazione del concept dei suoi negozi, dando vita ad un progetto d’arredamento per interni, depositato con il modello n. 91752 dal titolo “Design di arredi di interni per negozi monomarca Kiko Make-up Milano”. Sulla base di tale disegno vengono aperti numerosi store (299 solo in Italia). Nel giudizio conclusosi con la citata sentenza, Kiko non solo richiedeva il riconoscimento della tutela del diritto d’autore, ma addebitava alla controparte Wycon S.p.a. di aver posto in essere atti di concorrenza sleale parassitaria ex art 2598 c.c. per la “diretta appropriazione del concept della catena concorrente, con una ripresa integrale degli elementi di arredo” e altri elementi quali l’abbigliamento e accessori delle commesse. Riconoscendo la legittimità delle pretesa di Kiko, Wycon veniva condannata al pagamento di un risarcimento dei danni pari a circa 700.000 euro e alla modifica di tutti i suoi store entro il termine di 60 giorni, pena la condanna al pagamento di euro 10.000 per ogni negozio che non si fosse conformato alla predetta decisione. Successivamente, Wycon presentava ricorso alla Corte di Appello di Milano, che, con ordinanza del 26.1.2016, tramite una valutazione comparativa, riteneva prevalente il danno che sarebbe derivato all’appellante dall’esecuzione della sentenza rispetto a quello che deriverebbe all’appellata dalla mancata esecuzione della stessa e quindi disponeva la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza del giudice di primo grado. Rimaniamo in attesa della sentenza della Corte di Appello di Milano: vi terremo aggiornati.

Caso Flos (Tribunale di Milano, sentenza n. 9906/2012). Nel 1962, i fratelli Castiglioni progettavano per Flos S.p.a. l’ormai famosissima lampada Arco. Successivamente alla commercializzazione, una società cinese produceva la lampada modello Fluida che imitava le caratteristiche stilistiche ed estetiche della lampada Arco. Un’impresa italiana, la Semeraro Casa&Famiglia S.p.a., importava in Italia la lampada Fluida, prodotta dalla società cinese. Il 23 novembre 2006, Flos citava in giudizio Semeraro dinanzi al Tribunale di Milano per aver importato dalla Cina e commercializzato in Italia la lampada Fluida, violando i diritti di privativa industriale e i diritti d’autore connessi al modello Arco. Dopo una lunga vicenda giudiziaria, che ha visto l’intervento anche della Corte di Giustizia Europea (Corte UE 27/01/2011 – causa C168/09), la lampada Arco viene riconosciuta come opera artistica e dunque protetta dalla tutela riconosciuta agli autori. Proprio per questo, è stato riconosciuto a Flos il diritto ad un risarcimento dei danni pari a 40 milioni di euro.

Caso Moon Boots (Tribunale di Milano, sentenza n. 8628/2016). Tecnica Group S.p.a. agiva nei confronti della concorrente Gruppo Anniel, ritenendo che i doposci modello Anouk prodotti da quest’ultima costituissero una violazione sia dei diritti d’autore sui Moon Boots, sia di alcuni propri modelli comunitari registrati relativi ai doposci della collezione “east-west”, l’evoluzione stilistica dei primi. Tale commercializzazione secondo Tecnica Group costituiva altresì concorrenza sleale a suo danno. Il Tribunale di Milano riconosceva i requisiti del “carattere creativo” e del “valore artistico” richiesti dall’art. 2, comma 1, n. 10 legge sul diritto d’autore ai Moon Boots e accertava la contraffazione dei Moon Boots da parte dei prodotti Anniel, statuendo che “Il modello Anouk delle convenute presenta tutte le predette caratteristiche creative dei Moon Boots, salvo che l’altezza del gambale è ridotta e le coppie di occhielli sono due anziché tre.” Il Tribunale di Milano inibiva di conseguenza la convenuta dall’ulteriore commercializzazione dei prodotti, con una penale di 250 euro per ogni ulteriore paio di doposci commercializzato.

Caso Bormioli (Tribunale di Milano, sentenza n. 31487/2015). La società Ty Nant Spring Water Ltd. e il titolare (italiano) della società instaurava un procedimento dinanzi al Tribunale di Milano contro la società Bormioli Rocco S.p.A., fabbricante di prodotti in vetro per la casa, lamentando che la serie di bicchieri in vetro denominati “Sorgente” prodotti e venduti in Italia dalla Bormioli Rocco avrebbe violato i diritti d’autore sulla bottiglia Ty Nant, ideata dal famoso designer gallese Ross Lovegrove. Il Tribunale di Milano riconosceva in capo alla bottiglia TY Nant la presenza dei requisiti di novità, carattere creativo e valore artistico necessari per godere della protezione prevista dall’art. 2, comma 10, della legge sul diritto d’autore. L’Organo Giudicante ha inoltre ritenuto che, sebbene le due società producessero prodotti differenti, vi era il rischio concreto che i consumatori confondessero la provenienza imprenditoriale dei prodotto e li ritenessero commerciati dalla medesima azienda, con evidente danno per la Ty Nant Spring Water Ltd. Veniva quindi riconosciuto che i bicchieri Sorgente stavano violando sia i diritti d’autore che i diritti di marchio sul design della bottiglia Ty Nant, e la Bormioli Rocco veniva inibita dal produrre e vendere i bicchieri di quel modello.

Caso chaise longue Le Corbusier (Tribunale di Milano, sentenza n. 2311/2014). La chaise longue LC4 è una originale seduta, frutto del genio creativo di Le Corbusier, diventata nel tempo la chaise longue per antonomasia. È infatti una vera e propria icona del design, un pezzo celeberrimo che nessuno può dire di non aver visto almeno una volta nella vita. La prima produzione e commercializzazione risale al 1929 da parte di Thonet. Oggi fa parte della collezione “I Maestri di Cassina”, la cui società Cassina S.p.a. ha ottenuto l’autorizzazione a produrla sin dal 1964. La chaise longue è stata oggetto di una lunga vicenda giudiziaria, in cui da un parte Cassina S.p.a. riteneva di essere titolare di diritti esclusivi di utilizzazione economica su alcuni mobili ideati dal maestro del design Le Corbusier, in virtù di accordi stipulati con lo stesso nel 1964 e poi periodicamente rinnovati, da ultimo con la Fondazione Le Corbusier e gli altri eredi dei coautori. Dall’altra, High Tech S.r.l. commercializzava modelli di arredo riproducenti alcune delle predette opere di Le Corbusier. La ricorrente invocava la tutela dal diritto d’autore da parte di High Tech. L’Organo Giudicante statuiva, riconoscendo la tutela autoriale alla chaise longue LC4, di Le Corbusier, che “l’espressione del valore artistico di un prodotto del design industriale non può ritenersi in radice compromessa dal carattere industriale del prodotto, posto che in tale ambito sussiste la possibilità che l’opera del design possegga caratteristiche tali da suscitare un apprezzamento sul piano estetico che prevalga sulle specifiche funzionalità del prodotto in misura superiore al normale contributo che il designer apporta all’aspetto esteriore di linee e forme particolarmente gradevoli, raffinate ed eleganti”.

In conclusione, si pone in evidenza il fatto che la tutela autoriale viene riconosciuta anche al design industriale se effettivamente è connaturato di un valore artistico e creativo, che sia riconosciuto a livello internazionale da esperti e pubblico.

Sei un’azienda che lavora con l’estero o che ci vorrebbe provare? Ti sei mai chiesto come viene protetto fuori dall’Italia il know-how della tua azienda e quale tutela viene riconosciuta alle informazioni commerciali riservate?

Innanzitutto occorre precisare che attualmente non esiste, a livello europeo, una normativa omogenea in materia di tutela del segreto commerciale, e vi sono ancora notevoli differenze in termini di protezione dei segreti commerciali tra gli Stati membri. Tali disomogeneità generano un rilevante pregiudizio alle aziende che intraprendono (o lo vorrebbero) attività commerciali nel territori di altri Stati membri.

Per arginare tali differenze normative, il 15 giugno 2016 è stata pubblicata, nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, la Direttiva (UE) 2016/943sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti” e gli Stati Membri avranno tempo fino al 9 giugno 2018 per recepirla. In ogni caso gli Stati membri avranno la facoltà di adottare una tutela più stringente del know-how, rispetto alle disposizioni “base” previste dalla Direttiva.

Nel periodo transitorio, in Italia continueranno a trovare applicazione gli artt. 98 e 99 del Codice della Proprietà intellettuale (D.lgs. n. 30/2005).

Passando all’analisi del contenuto della direttiva UE, si nota che il Legislatore comunitario ha fornito, all’articolo 2, la definizione del segreto commerciale individuandolo nelle: (i) informazioni segrete, nel senso che non sono, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione, (ii) con un valore commerciale in quanto segrete, (iii) sottoposte a misure ragionevoli a mantenerle segrete.

All’articolo 3 della Direttiva sono stabilite le condizioni in cui l’acquisizione di un segreto commerciale è da considerarsi lecita, come ad esempio quando l’informazione sia ottenuta nell’ambito di una pratica commerciale leale, o sia frutto di una scoperta o creazione indipendente o, ancora, dell’osservazione, studio, smontaggio o prova di un oggetto messo a disposizione del pubblico. Tra le ipotesi lecite anche il diritto di informazione e consultazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti.

La Direttiva (art. 4) individua le ipotesi di acquisizione, utilizzo e divulgazione illecite dei segreti commerciali, prevedendo la possibilità di attivare le tutele disciplinate nella Direttiva stessa. In linea generale, il Legislatore europeo ha ritenuto che l’acquisizione di un segreto commerciale senza il consenso del detentore è da considerarsi illecita qualora sia compiuta in uno dei seguenti modi:

a) con l’accesso non autorizzato, l’appropriazione o la copia non autorizzate di documenti, oggetti, materiali, sostanze o file elettronici sottoposti al lecito controllo del detentore del segreto commerciale, che contengono il segreto commerciale o dai quali il segreto commerciale può essere desunto;

b) con qualsiasi altra condotta che, secondo le circostanze, è considerata contraria a leali pratiche commerciali

Con riferimento, invece, alle condotte di utilizzo e divulgazione, la condotta illecita viene delineata prendendo a riferimento il soggetto agent. Quest’ultimo, infatti, dovrà soddisfare una delle condizioni previste dalla norma (art. 4 della Direttiva) tra cui l’aver acquisito il segreto illecitamente, l’aver violato un accordo di riservatezza od un obbligo contrattuale o di altra natura che impone limiti all’utilizzo del segreto commerciale.

Sono inoltre considerate illecite le condotte di chi, al momento dell’acquisizione, utilizzo o divulgazione, fosse a conoscenza o sarebbe dovuto esserlo, del fatto che l’informazione era stata precedentemente acquisita illecitamente da un terzo.

La Direttiva 2016/943 precisa ulteriormente ed espressamente che la produzione, l’offerta o la commercializzazione di merci costituenti violazione oppure l’importazione, l’esportazione o lo stoccaggio di merci costituenti violazione si considerano un utilizzo illecito di un segreto commerciale anche quando il soggetto che svolgeva tali attività era a conoscenza o, secondo le circostanze, avrebbe dovuto essere a conoscenza del fatto che il segreto commerciale era stato utilizzato illecitamente.

L’articolo 5 della Direttiva identifica invece le eccezioni all’applicazione delle misure di repressione, che sussistono qualora il presunto utilizzo del segreto commerciale sia avvenuto:

  • nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione e d’informazione;
  • per rivelare una condotta scorretta, un’irregolarità o un’attività illecita, allo scopo di proteggere l’interesse pubblico generale;
  • con la divulgazione da parte dei lavoratori ai loro rappresentanti nell’ambito del legittimo esercizio delle funzioni di questi ultimi, conformemente al diritto dell’Unione o al diritto nazionale, a condizione che la divulgazione fosse necessaria per tale esercizio;
  • al fine di tutelare un legittimo interesse riconosciuto dal diritto dell’Unione o dal diritto nazionale.

Da ultimo, analizziamo brevemente gli strumenti che sono previsti a tutela delle situazioni di illecita acquisizione, utilizzo o divulgazione.

In ordine alle misure provvisorie e cautelari (art. 10 della Direttiva), le competenti autorità giudiziarie possano ordinare, nei confronti del presunto autore della violazione:

a) la cessazione o, a seconda dei casi, il divieto di utilizzo o di divulgazione del segreto commerciale a titolo provvisorio;

b) il divieto di produzione, offerta, commercializzazione o utilizzo di merci costituenti violazione oppure di importazione, esportazione o immagazzinamento di merci costituenti violazione per perseguire tali fini;

c) il sequestro o la consegna delle merci sospettate di costituire violazione, compresi i prodotti importati, in modo da impedirne l’ingresso sul mercato o la circolazione al suo interno.

Infine, con la decisione giudiziaria che abbia accertato l’acquisizione, l’utilizzo o la divulgazione illeciti di un segreto commerciale, le competenti autorità giudiziarie possano ordinare una o più delle seguenti misure nei confronti dell’autore della violazione:

a) la cessazione o il divieto di utilizzo o di divulgazione del segreto commerciale;

b) il divieto di produzione, offerta, commercializzazione o utilizzazione di merci costituenti violazione oppure di importazione, esportazione o immagazzinamento di merci costituenti violazione per perseguire tali fini;

c) l’adozione delle opportune misure correttive per quanto riguarda le merci costituenti violazione;

d) la distruzione della totalità o di una parte dei documenti, oggetti, materiali, sostanze o file elettronici che contengono o incorporano un segreto commerciale, oppure la consegna di una parte o della totalità degli stessi.

Le misure correttive sopra citate comprendono il richiamo dal mercato delle merci costituenti violazione, l’eliminazione dalle merci costituenti violazione delle qualità che le rendono tali e la distruzione delle merci costituenti violazione.

Rimaniamo quindi in attesa di conoscere le normative che verranno emanate da ciascun Stato membro in recepimento del contenuto della Direttiva UE.

La funzione essenziale del marchio consiste nel garantire al consumatore o all’utilizzatore finale l’identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato dal marchio, dando quindi la possibilità di distinguere, senza confusione, il determinato prodotto o il servizio da quelli di provenienza diversa.

Il marchio diventa la garanzia che tutti i prodotti o servizi che ne sono contrassegnati sono stati fabbricati o forniti sotto il controllo di un’unica azienda alla quale può attribuirsi la responsabilità della loro qualità (cfr. CGCE, 12 novembre 2002 – C – 206/2001).

Oltre alla funzione principale che è quella di indicare l’origine imprenditoriale del prodotto, il marchio ha anche un valore pubblicitario per l’azienda stessa ed è in grado di portare il consumatore a pensare che tutti i prodotti recanti lo stesso marchio siano della medesima qualità di quelli precedentemente acquistati. Il marchio, inoltre, fornisce delle informazioni aggiuntive e in parte anche non direttamente collegate al prodotto stesso (es. l’adozione di procedure produttive a basso impatto ambientale, gestione eco-solidale, sistemi di qualità o di sicurezza, ecc.).

Proprio alla luce di tali (necessarie) funzioni, il Legislatore ha previsto che il marchio, per essere tale, debba soddisfare determinati requisiti. Il Codice della proprietà industriale (D.lgs. 30/2005) prevede, all’art. 7, che “Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese

I requisiti per la validità del marchio sono quindi: i) la capacità distintiva; ii) la novità e iii) la liceità.

La capacità distintiva

La capacità distintiva è l’idoneità del marchio a distinguere l’azienda e i suoi prodotti dalle aziende concorrenti.

Sono sicuramente privi della capacità distintiva, ai sensi dell’art. 13 CPI, i marchi esclusivamente costituiti dalle:

  1. denominazioni generiche di prodotti o servizi (ad es. “Gonna” per contraddistinguere una gonna, mentre è consentito il marchio “Scarpe&Scarpe” per l’accostamento delle due parole e la lettera grafica di congiunzione) o
  2. indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, quali i segni che, in commercio, individuano la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, la data di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio (ad es. “Jeans” per pantaloni);

La novità

Con riferimento alla novità, il Legislatore ha individuato le categorie e i casi in cui il marchio non è nuovo (art. 12 CPI), ovvero quando:

  1. consistano esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio (ad es. la locuzione “Ciao bella Italia” presente su capellini e magliette difetta del requisito della novità in quanto si tratta di espressioni comunemente utilizzate nel campo commerciale);
  2. è identico o simile ad un segno già noto come marchio o segno di un’altra azienda per altri prodotti affini o identici e si possa creare un rischio di confusione;
  3. è identico o simile ad un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attività economica, quando a causa della somiglianza possa determinarsi per il pubblico un rischio di confusione o di associazione;
  4. è identico o simile ad un marchio già registrato da altri nello Stato o con efficacia nello Stato (cfr. art. 12, comma 1, lett. c), d), e), (ad es., per l’abbigliamento, il marchio “Gucci” e quello “Guccini”);
  5. è identico o simile ad un marchio già notoriamente conosciuto ai sensi dell’articolo 6-bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, per prodotti o servizi anche non affini.

La liceità

Infine, l’ultimo requisito che il marchio deve avere per poter essere registrato è la liceità, ai sensi dell’art. 14 CPI. Non possono costituire oggetto di registrazione, in particolare:

  1. i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (ad es. è stato dichiarato contrario all’ordine pubblico, almeno in una parte dell’Unione, il marchio “URSS”);
  2. i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi (è, però, consentito se l’indicazione geografica è slegata con il luogo di origine del prodotto, ad es., abbigliamento “Australian”, penne “Montblanc”);
  3. i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi.

Il diritto esclusivo all’uso del marchio, e la conseguente possibilità di vietarne l’uso a terzi, è attribuito con la registrazione, anche se i diritti retroagiscono dalla data di deposito della domanda di registrazione.

La registrazione dura 10 anni a partire dalla data di deposito della domanda, salvo il caso di rinuncia del titolare. La registrazione può essere rinnovata per un numero indeterminato di volte, ogni volta per una durata di ulteriori 10 anni.