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In un recente articolo vi abbiamo parlato di un caso in cui è stata riconosciuta la contraffazione degli scarponi Moon Boot, che sono tutelati come opera del disegno industriale.

Moon Boot - Wikipedia

Nell’ambito della moda rilevano tuttavia anche altri diritti di proprietà intellettuale, come i marchi ed i disegni e modelli registrati.

I marchi nel fashion

I marchi sono di frequente rappresentati dal nome o dal logo del produttore o del rivenditore. I marchi ricevono una qualche tutela anche se usati solo “di fatto”, tuttavia è evidente che tutti i marchi più prestigiosi risultano registrati in uno o più registri, a livello nazionale, europeo o internazionale. La registrazione legittima di per sé il titolare di un marchio ad agire contro eventuali contraffattori, senza dover ulteriormente provare la validità del titolo. In fase di giudizio, tuttavia, colui che venga accusato di contraffazione potrà pur sempre cercare di difendersi contestando la validità della registrazione del marchio altrui (come è successo per alcuni marchi di Hermés su cui torneremo in seguito).

Nel settore della moda però è fondamentale anzitutto riuscire a riconoscere i segni che sono marchi tutelati. Infatti, oltre ai “classici” marchi rappresentati dal nome o logo del produttore, sono molto diffusi anche i cosiddetti marchi “di colore”.

Ad esempio, è un marchio di colore registrato, e di cui di recente ne è stata riaffermata la validità (Commissione di Ricorso dell’EUIPO, decisione del 16 giugno 2011, R 2272/2010-2), la precisa tonalità di rosso che si trova sulla suola delle scarpe create dal noto stilista francese Christian Louboutin.

Di recente, anche Chiara Ferragni, o meglio, alcune società che producono per il suo brand, sono incorsi in un errore di valutazione per quanto riguarda la produzione di una linea di calzature e sono stati condannati ad interrompere la produzione e a risarcire i danni per la violazione del diritto d’autore di Tecnica Group sui celebri doposcì Moon Boot (sentenza del Tribunale di Milano, n. 493 del 25 gennaio 2021).

Moon Boot Kids : Clothes & Accessories | Melijoe

Gli imprenditori nell’ambito della moda sono spesso guidati e trascinati dal proprio pensiero creativo, che può essere più o meno libero o influenzato dall’ambiente esterno. Ma dopo lo spunto creativo, a cosa bisogna stare attenti nella realizzazione di un nuovo capo, calzatura o collezione? L’ “ispirazione” da idee altrui non può infatti trasformarsi in una “copia”, che sarà dichiarata illecita, sussistendo determinate condizioni, a prescindere dal fatto che fosse, o meno, consapevole.

Può ad esempio accadere che taluni prodotti del settore moda, come è stato riconosciuto dal Tribunale di Milano nel caso dei Moon Boot e come avvenuto in precedenza anche per altri capi di abbigliamento o calzature, siano tutelati dal diritto d’autore, se ritenuti qualificabili come “opere del disegno (o “design”) industriale” con carattere creativo e valore artistico. Di conseguenza, eventuali capi simili dovrebbero presentare un’“autonomia creativa” per essere a propria volta tutelati e non considerati in contraffazione con la creazione precedente.

Qual è il rischio effettivo in cui incorre un imprenditore che non consideri questi aspetti?

Innanzitutto, occorre considerare che una violazione del diritto d’autore danneggia sia il “creatore morale” dell’opera, sia colui che è titolare dei relativi diritti di sfruttamento economico. L’idea innovativa può venire a chiunque, ma quando entrano in gioco forti interessi economici, è evidente come ci si esponga ad un elevato rischio sia di contestazioni “stragiudiziali” sia di eventuali procedimenti giudiziali.

Di solito la società titolare dei diritti (che nel “caso Ferragni” era Tecnica Group) invia inizialmente una diffida al presunto contraffattore. Con la diffida si viene intimati di cessare la produzione e la commercializzazione dei prodotti in questione ed è possibile che venga anche chiesto un risarcimento per i danni fino a quel momento subiti. In questi casi, la cifra richiesta potrebbe essere rilevante, ma talvolta viene comunque accettata e pagata per evitare il rischio di un procedimento giudiziale dall’esito e dalla durata incerti. In tema di riconoscimento del diritto d’autore, infatti, le valutazioni dei giudici risultano spesso oscillanti e non prevedibili.

Se si accetta di cessare la produzione e la vendita dei prodotti, ed eventualmente di pagare il risarcimento richiesto, i soggetti coinvolti stipulano quindi una transazione, che tra l’altro potrebbe prevedere anche clausole penali per eventuali futuri inadempimenti, esponendo l’attività dell’imprenditore contestato ad ancora maggiori rischi.

Bentrovati. Come promesso, torniamo a parlare della possibilità per il datore di lavoro di imporre la vaccinazione ai propri dipendenti, e dell’eventuale legittimità del licenziamento in caso di rifiuto.

Come ricorderete, la questione è molto dibattuta e sul punto si registrano due tesi:

  • la prima, secondo cui il datore di lavoro può imporre il vaccino ai propri lavoratori e in caso di rifiuto licenziarli per giusta causa. Di questa vi abbiamo parlato qui;
  • la seconda, per cui il datore di lavoro non può imporre il vaccino ai propri dipendenti e conseguentemente il licenziamento è illegittimo.

Ed è proprio di questa seconda tesi che vi vogliamo parlare oggi.

Quadro normativo di riferimento.

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Prima di addentrarci nella questione, rivediamo assieme il quadro normativo di riferimento.

Art. 32 Costituzione, comma 2: nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”;

– Art. 2087 c.c.:L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;

Art. 279 Testo Unico in materia di sicurezza (D.Lgs. 81/08), comma 2:il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

La seconda tesi: no imposizione del vaccino, no licenziamento

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Questa tesi presenta diversi argomenti a favore. In particolare:

L’articolo 2087 c.c.

Tale norma non può essere considerata la disposizione di legge di cui all’art. 32 Cost. che obbliga un soggetto a sottoporsi alla vaccinazione, dovendo tale norma consistere in una normazione ad hoc, specificamente diretta ad imporre la vaccinazione anti Covid-19.

L’art. 2087 c.c. impone al datore di conformarsi al criterio della “massima sicurezza possibile”, ma il rispetto di tale criterio è pur sempre ancorato a dati scientifici dedotti dall’”esperienza e la tecnica”. Al momento si conosce poco sul vaccino ed i suoi effetti e gli scienziati si dividono anche sui mezzi di propagazione del virus. Dunque, mancherebbero quei dati di acquisita “esperienza e tecnica”, che potrebbero imporre al datore l’adozione di tale misura. Così come il lavoratore potrebbe addurre, se non il rispetto della riservatezza, particolari condizioni personali che possono sconsigliare di sottoporsi alla vaccinazione.

L’art. 279 TU

L’art. 279 TU impone la vaccinazione a protezione dello stesso lavoratore esposto ad un rischio che comunque promana dall’ambiente lavorativo. Tale norma costituisce la migliore conferma del fatto che solo con una esplicita previsione legislativa si può superare il divieto previsto dall’art. 32 Cost. con il corollario che, trattandosi di norma di stretta interpretazione, non se ne possono allargare le maglie estendendola a situazioni diverse e non previste.

Conclusioni della seconda tesi.

La questione, oltre ad essere più attuale che mai, risulta anche molto dibattuta. Per tali ragioni, vogliamo con questo nostro contributo non solo analizzare tutte le tesi avanzate sul tema, ma anche fornirvi il nostro parere, indicandovi alcune indicazioni pratiche.

Sul punto, infatti, vi segnaliamo la presenza di due diverse tesi:

  • la prima, secondo cui il datore di lavoro può imporre il vaccino ai propri lavoratori e in caso di rifiuto licenziarli per giusta causa;
  • la seconda, per cui il datore di lavoro non può imporre il vaccino ai propri dipendenti e conseguentemente il licenziamento è illegittimo.

Posto che la tematica è tutt’altro che semplice, vi proponiamo di seguirci in un percorso di tre appuntamenti così strutturato:

1. oggi parleremo della prima tesi, ossia quella favorevole all’imposizione del vaccino e della conseguente legittimità del licenziamento;

2. giovedì tratteremo invece la seconda tesi, ossia quella contraria all’imposizione del vaccino e al licenziamento da parte del datore di lavoro;

3. Infine, vi forniremo le nostre considerazioni pratiche, mediate un video, pubblicato nei nostri canali social (Facebook, Linkedin, Youtube).

Pronti? Partiamo!

Quadro normativo di riferimento

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Prima di addentrarci su quali sono gli elementi a favore dell’una o dell’altra tesi, è necessario individuare il quadro normativo di riferimento. Nello specifico, le norme che vengono in rilevo sono:

Art. 32 Costituzione, comma 2: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”;

Art. 2087 c.c.: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;

Art. 279 Testo Unico in materia di sicurezza (D.Lgs. 81/08), comma 2: “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

Analizziamo, quindi, il primo filone di pensiero.

La prima tesi: sì al vaccino e sì al licenziamento

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Nello specifico, coloro che ritengono che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione e conseguentemente licenziare il lavoratore in caso di rifiuto, fondano la propria tesi sui seguenti argomenti:

  1. Il contratto di lavoro. Pur in assenza di una legge che rende obbligatoria la vaccinazione anti Covid-19, il datore di lavoro potrebbe comunque imporlo per effetto del contratto di lavoro. Infatti, sebbene l’art. 32 Cost. preveda una riserva di legge, secondo il Prof. Ichino Pietro[1], l’autonomia negoziale privata può comunque disporre dei diritti assoluti della persona. In tal senso il contratto di lavoro costituirebbe un esempio evidente della disponibilità di diritti personalissimi: con esso, infatti, il lavoratore accetta la limitazione alla propria libertà di movimento, la possibilità di indagini dell’imprenditore sulle proprie attitudini e i propri precedenti professionali, la possibilità di essere sottoposto a visita medica domiciliare dal servizio ispettivo competente, e così via. Pertanto, allo stesso modo, il lavoratore dovrebbe accettare la possibilità che, pur in assenza di una norma legislativa da cui derivi l’obbligo di una determinata vaccinazione, gli si chieda di vaccinarsi. Sotto tale aspetto ciò che accadrebbe in relazione al contratto di lavoro non sarebbe molto diverso da ciò che potrebbe accadere per esempio nel contratto di trasporto, nel quale il vettore – obbligato a garantire la massima sicurezza di tutti i viaggiatori – condizioni l’accesso all’aereo o alla carrozza ferroviaria all’esibizione di un certificato di vaccinazione.
  • L’art. 2087. Le indicazioni della scienza medica ritengono che in un luogo in cui tutti sono vaccinati si realizzano condizioni di sicurezza apprezzabilmente maggiori rispetto alla fabbrica o ufficio nel quale una parte dei dipendenti non è vaccinata. Pertanto, l’imprenditore ben potrebbe, in ottemperanza all’articolo 2087 c.c., a seguito di attenta valutazione del rischio specifico nella propria azienda, richiedere a tutti i propri dipendenti la vaccinazione, dove questa sia per essi concretamente possibile. La richiesta di effettuare la vaccinazione potrebbe essere esclusa soltanto laddove si ponesse in contrasto con norme di ordine pubblico, o fosse comunque funzionale a interessi non meritevoli di tutela nell’ordinamento. Secondo i sostenitori di tali tesi l’art. 2087 c.c. costituirebbe una “norma aperta”, dunque, l’obbligo di sicurezza si arricchirebbe di contenuti concreti, via via che la scienza e la tecnica mettono a disposizione nuove misure efficaci.
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  • L’art. 279 TU. Possibile opposizione di impedimenti di natura medico-sanitaria. Viene, inoltre, sottolineato dal Prof. Ichino Pietro, che l’ammissibilità della richiesta da parte del datore di lavoro della vaccinazione non comporta che la persona interessata non possa ragionevolmente opporre un impedimento di natura medico-sanitaria. Potrebbe essere addotta, per esempio, una condizione personale di immunodeficienza (per i tipi di vaccino tradizionali), o altra patologia che sconsigli la vaccinazione, oppure lo stato di gravidanza (in relazione al quale permane una controindicazione prudenziale da parte delle autorità competenti). In questo caso il datore di lavoro dovrebbe adottare, in accordo con il medico competente e con gli altri organi preposti alla sicurezza sul lavoro, misure appropriate per consentire comunque lo svolgimento della prestazione nella condizione della massima possibile sicurezza: per esempio collocando la persona interessata in una postazione isolata e non a contatto con utenti o fornitori, e ciò anche eventualmente riducendo il contenuto professionale delle mansioni. Oppure, dove la natura della prestazione lo consenta, autorizzando la persona interessata a svolgerla dal luogo di abitazione fino alla fine della pandemia. Dove nessuna di queste soluzioni sia ragionevolmente praticabile, può rendersi necessaria la sospensione della prestazione a norma dell’art. 2110 c.c., oppure se possibile, con attivazione dell’integrazione salariale, fino alla fine della pandemia.
  • Sebbene l’art. 279 TU sia riferito al rischio di infezione derivante da un “agente biologicpresente nella lavorazione”, è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio di infezione derivante da un virus altamente contagioso, del quale può essere portatrice una qualsiasi delle diverse persone contemporaneamente presenti nello spazio aziendale chiuso nel quale l’attività lavorativa è destinata a svolgersi. A questa applicazione estensiva dell’art. 279 del Testo Unico si obietta che le norme protettive in materia di sicurezza e igiene del lavoro “sono pensate per prevenire i rischi derivanti dal luogo di lavoro” e non i rischi provenienti dall’esterno. Ma, secondo la tesi qui analizzata, per superare questa obiezione è sufficiente considerare che l’imprenditore, nell’esercizio del suo potere organizzativo, è tenuto a valutare e prevenire anche rischi provenienti da agenti esterni all’azienda, come per esempio gli agenti atmosferici cui i dipendenti possono essere esposti nello svolgimento della prestazione. Inoltre, il rischio dell’infezione da Covid-19, a differenza degli altri rischi di contrarre malattie infettive, è stato qualificato dalla legge come rischio di infortunio sul lavoro, proprio in considerazione dell’elevatissima contagiosità e diffusione del virus. Dunque, la vaccinazione dovrebbe essere imposta.

Conclusioni della prima tesi: retinenza = licenziamento nei casi più gravi

Mano, Uomo, Figura, Flick, Flick Fuori

Alla luce di tutte le argomentazioni sopra esposte, chi ritiene che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione sostiene che la renitenza ingiustificata del dipendente è in astratto suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza, che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare.

Tuttavia, lo stesso Prof. Ichino Pietro, principale sostenitore della tesi qui analizzata, ritiene che sia sconsigliabile applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, in quanto potrebbe essere contestata la sussistenza dell’elemento psicologico, così come sconsiglia l’applicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poiché ad oggi la questione, anche a livello politico, è molto dibattuta e, in ogni caso, sino a fine marzo 2021 non è possibile il licenziamento. 

Egli, in un’ottica moderata, suggerisce che se la natura della prestazione non consente lo svolgimento da remoto, e non è disponibile una posizione di lavoro – anche di contenuto professionale inferiore – che consenta l’isolamento rispetto agli altri dipendenti, fornitori e utenti, al lavoratore potrà prospettarsi la sospensione dal lavoro fino a che la pandemia non sia cessata: sospensione che in questo caso, a differenza del caso di rifiuto giustificato da impedimento di natura medica, non comporta il diritto al trattamento economico.

Qual è il vostro pensiero in proposito? Scrivetelo nei commenti qui sotto o nei nostri social.

In attesa di leggere la vostra opinione, vi invitiamo all’appuntamento di Giovedì prossimo, con la presentazione della tesi contraria all’imposizione della vaccinazione da parte del datore di lavoro.


[1] Professore di Diritto del Lavoro presso l’Università Statale di Milano, giurista e sindacalista dedica da decenni il suo impegno di studioso e di uomo politico alle problematiche legate al mondo del lavoro e ai diritti dei lavoratori.

L’Italia è famosa nel mondo per le proprie bellezze storiche e ambientali, per l’arte culinaria e…. per la moda!

La filiera della moda in Italia rappresenta, infatti, l’8,5% del fatturato (oltre 80 miliardi) e il 12,5% dell’occupazione (quasi 500mila addetti) dell’industria manifatturiera italiana. Il saldo commerciale (relativo ai Personal Luxury Goods) ammonta a oltre 33 miliardi di euro (il secondo valore più consistente in Italia dopo la meccanica). L’industria della moda, peraltro, cresce senza sosta dal 2007, registrando un tasso di crescita medio annuo pari a più del doppio di quello riferito al resto della manifattura italiana (1,3% vs 0,6%)[1].

Come sappiamo, le imprese della filiera italiana sono perlopiù di piccole o medie dimensioni. Tuttavia, tale caratteristica, invece che rappresentare uno svantaggio, favorisce la specializzazione e l’internazionalizzazione. Infatti, la piccola dimensione delle aziende del fashion viene bilanciata da una forte interrelazione tra le medesime, che ne garantisce una elevata capacità di innovazione e quindi di competitività sui mercati internazionali.

L’interrelazione tra le imprese e il contratto di subfornitura

Sebbene l’interrelazione tra le aziende della filiera della moda italiana sia di fatto uno dei suoi punti di forza, la stessa può facilmente trasformarsi in una trappola infernale, in assenza di una regolamentazione scritta delle relazioni commerciali che ne costituiscono la base sostanziale. Ed è proprio per questo, che il contratto di subfornitura è il lusso che la moda si deve permettere.

La categoria del contratto d'impresa nel diritto italo-europeo. Il modello  della subfornitura | Salvis Juribus

Perché avere un contratto scritto di subfornitura è così importante?

Non tutti sanno che questa tipologia negoziale è regolata da una normativa ad hoc, ossia la L. 192/1998. L’art.2 di tale legge prevede espressamente la nullità dei contratti di subfornitura che non siano stati conclusi per iscritto, e/o nei quali non siano stati determinati in modo chiaro i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente, il prezzo pattuito, i termini e le modalità di consegna, di collaudo e di pagamento.

Quindi il primo buon motivo per dotarsi di un contratto scritto è quello di evitare la nullità. Anche perché, il citato articolo 2 prevede che, in caso di nullità, il subfornitore abbia comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto.

Rischio, Parola, Lettere, Boggle, Gioco

Quali rischi si corrono senza un contratto scritto?

Molti e diversi. Il più eclatante? Il rischio che il subfornitore – dopo la conclusione del rapporto negoziale – utilizzi, senza alcuna autorizzazione, bozzetti, disegni o istruzioni tecniche, consegnate dal cliente. La filiera, infatti, funziona così: il cliente trasmette il bozzetto, oppure già il cartamodello o il prototipo al committente del contratto di subfornitura, il quale, a sua volta, trasmette gli stessi a vari subfornitori per le lavorazioni di loro competenza: sviluppo delle taglie, piazzamento, taglio del tessuto, trattamenti, confezione, controllo qualità, stiro, apposizione di accessori ed etichette, fino alla spedizione.

A tutelare la proprietà intellettuale in costanza di rapporto, vi è l’art. 7 della L. 192/98, secondo cui il committente conserva la proprietà industriale di progetti e prescrizioni di carattere tecnico da lui comunicati al fornitore e sopporta i rischi ad essi relativi. Il fornitore è, a sua volta, tenuto alla riservatezza e risponde della corretta esecuzione di quanto richiesto, sopportando i relativi rischi. Ma dopo la fine del rapporto negoziale cosa può accadere?

Senza un contratto scritto e una clausola contrattuale ad hoc che vieti al subfornitore l’utilizzo, dopo la fine del rapporto negoziale, di bozzetti, disegni, istruzioni, etc., potrebbe accadere – in forma peraltro più grave – quanto avvenuto nella vicenda di cui alla sentenza del 15 febbraio 2011 n. 185 del Tribunale di Vicenza.

Tribunale di Vicenza, Sezione 2, Civile, Sentenza del 15 febbraio 2011 n. 185

La Società Da. S.p.A. – affermata ditta produttrice di articoli di abbigliamento ed ulteriori articoli per motociclismo ed altri sports – aveva concluso con Ke.Ro. s.n.c. un contratto di fornitura e di lavorazioni in conto terzi, nel quale si prevedeva che Ke.Ro. effettuasse alcune lavorazioni per conto della prima e che, su richiesta di quest’ultima, provvedesse anche alla fabbricazione completa di alcuni articoli in pelle, impegnandosi ad attenersi a specifiche tecniche di lavorazione, comunicate di volta in volta da Da., con fornitura delle attrezzature e dei materiali necessari (mazzette, fustelle, capi campione e pelli).

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Il contratto conteneva il divieto assoluto per il subfornitore, anche tramite interposta persona, di realizzare prodotti simili e/o effettuare lavorazioni su medesimi prodotti, su ordinazione di terzi, per il  settore su indicato, anche dopo il termine naturale del contratto. Tale disposizione è stata ovviamente disattesa. Ke.Ro, per il tramite della Bl.Li, sua collegata, aveva lanciato una serie di articoli che imitavano in tutto o in parte i corrispondenti articoli della Da., della quale aveva utilizzato i cartamodelli.

Morale della storia? Le società Ke.Ro e Bl.Li venivano accusate e condannate del reato di concorrenza sleale e grazie al contratto scritto, le medesime sono state anche condannate al risarcimento dei danni patiti dalla committente Da. S.p.A.

Alcuni importanti vantaggi

Vi state chiedendo se ci sono altri vantaggi in ordine alla conclusione di un contratto di subfornitura scritto? Molti altri. Per esempio, è possibile introdurre una clausola penale per il caso d’inadempimento o di ritardo nell’adempimento da parte del subfornitore. Il vantaggio di questa previsione è che la clausola penale esonera il committente dalla prova del danno. Ciò significa che il medesimo, in caso di inadempimento, può pretendere la penale indipendentemente dalla verificazione o meno di una lesione effettiva.

Inoltre, mediante la stipulazione di un contratto scritto, il committente può imporre degli obblighi precisi al subfornitore anche dopo la conclusione del contratto. Come? Introducendo, per esempio, una clausola di riservatezza, obbligando così il subfornitore, sia durante la vigenza del contratto che per «x» anni successivi alla sua cessazione, a non divulgare o ad utilizzare per scopi estranei al medesimo le informazioni e le notizie di qualsiasi natura di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto commerciale.

Infine, il contratto scritto risulta particolarmente utile per determinare in modo chiaro e preciso le modalità di effettuazione degli audit e dei controlli qualità.

Spesso, infatti, i subfornitori sono restii a collaborare per rendere queste attività di controllo efficaci. Il contratto di subfornitura può diventare il documento ove prevedere degli obblighi specifici sia in tema di documenti da consegnare, sia circa le modalità di svolgimento dei controlli stessi.

Inoltre, nel medesimo possono essere predeterminate le modalità con cui vengono effettuati i controlli qualità, che idealmente dovrebbero inerire tutte le fasi della produzione. Per esempio, potrebbe essere particolarmente efficace, prevedere che, in caso di vizi, il committente possa valutare se affidare le lavorazioni/servizi da eseguire al subfornitore responsabile delle non conformità o se affidare la relativa esecuzione a terzi oppure se procedere direttamente alla loro esecuzione, specificando che il subfornitore dovrà in ogni caso sostenere i costi dei tali attività. Parimenti utile potrebbe essere la definizione chiara delle modalità con cui il subfornitore accetta le citate non conformità contestate. Prevedere per esempio dei meccanismi di silenzio assenso può ridurre notevolmente i tempi per la correzione dei vizi o il rifacimento dei capi.

Ma volete sapere il vantaggio più grande? Il risparmio di notevoli risorse economiche

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Grazie all’introduzione, nei rapporti con i subfornitori, di un contratto scritto, infatti, è possibile ridurre, se non del tutto eliminare, le perdite di tempo nelle fasi di esecuzione del contratto; migliorare la collaborazione di tutte le imprese parte della filiera, favorendo comportamenti proattivi, quali quello di chiedere autonomamente istruzioni al committente, qualora assenti; efficientare gli audit, che non vengono più percepiti come intrusioni; ed infine ridurre notevolmente le costose controversie.

Concludendo, pare evidente come tutte le società – piccole o grandi che siano – che lavorino nella filiera della moda, e soprattutto in quella del lusso, dovrebbero regolare i loro rapporti, ovvero quelli con i subfornitori, mediante la conclusione di un contratto scritto, mettendosi così al riparo da rischi e perdite tutt’altro che secondari. D’altronde “un contratto verbale, non vale la carta su cui dovrebbe essere scritto” (Goldwyn).


[1] I dati qui riportati sono tratti dal report “L’economia italiana, dalla crisi alla ricostruzione. Settore Moda e Covid-19, Scenario, impatti, prospettive” elaborato nel Luglio 2020 da EY e Luiss Business School

Whatsapp nelle ultime settimane è finita al centro di un’incredibile bagarre mediatica, a causa dell’aggiornamento delle proprie condizioni di utilizzo e della propria privacy policy.

WhatsApp

Della questione si è interessato anche il Garante Privacy Italiano, che il 14 gennaio scorso ha informato ufficialmente l’EDPB, ossia il Comitato Europeo per la Protezione dei Dati Personali, della vicenda, e si è riservato di intervenire per la tutela dei dati personali degli utenti italiani.

What’s up?

Se ne è parlato e scritto molto, ma essenzialmente il problema denunciato dal Garante è la scarsa chiarezza della nuova privacy policy di Whatsapp.

Come denunciato dall’Avv. Andrea Lisi, presidente di ANORC, per l’utente è già particolarmente laborioso rinvenire, nel sito dell’applicazione, quali sono i termini di utilizzo e la privacy policy che si applicano nel suo caso, posto che ve ne sono diversi a seconda della regione del mondo in cui si risiede.

Il Garante ha infatti ritenuto che dalla lettura dei termini di servizio e dalla nuova informativa non sia possibile, per gli utenti, evincere con precisione e completezza quali siano le modifiche introdotte, né comprendere chiaramente quali trattamenti di dati saranno in concreto effettuati dal servizio di messaggistica.

E d’altronde se la privacy policy e le condizioni di utilizzo fossero state chiare, probabilmente non avremmo assistito alle diatribe di questi giorni.

Ad ogni modo, come ormai saprai, Whatsapp, a fronte delle critiche di associazioni, governi ed esperti, pare essere giunto a miti consigli, prendendo tempo per vagliare l’opportunità di redigere in modo più chiaro la propria informativa. Infatti, il termine per l’accettazione delle nuove condizioni d’uso e dell’informativa è stato postergato dall’8 febbraio al 15 maggio.

Ma quindi è sicuro per la mia privacy utilizzare Whatsapp o meglio cambiare applicazione?

WhatsApp growth slumps as rivals Signal, Telegram rise

Ad essere sinceri, ci sono sicuramente app di messaggistica maggiormente privacy-friendly, quali Signal, Element, e la più conosciuta Telegram.

Ad ogni buon conto, Whatsapp è tenuta a rispettare, almeno per gli utenti europei, il GDPR, che fa da scudo contro eventuali abusi da parte del colosso internazionale.

In ogni caso, Whatsapp ha recentemente puntualizzato tramite il proprio profilo Twitter ed un comunicato ufficiale che:

  • i messaggi scambiati tramite l’app continueranno ad essere protetti dalla crittografia end-to-end;
  • l’app non tiene traccia delle persone chiamate o con cui ci si è scambiati messaggi;
  • l’app non ha accesso alle posizioni che condividi;
  • i gruppi sono assolutamente privati;
  • è garantito la possibilità per l’utente di scaricare tutti i dati personali trattati dall’applicazione.

Whatsapp ha, altresì sottolineato, come l’aggiornamento dell’informativa non riguardi in alcun modo la privacy dei messaggi scambiati con amici e familiari, ma includa unicamente modifiche inerenti al servizio Whatsapp Business.

Cos’è Whatsapp Business?

La funzione Catalogo su WhatsApp Business nel chatvertising

In pratica, si tratta un’applicazione gratuita per Android e iPhone, pensata per semplificare l’interazione tra società e clienti.

Le società hanno, infatti, la possibilità di creare un profilo aziendale che aiuta i clienti ad ottenere informazioni aggiuntive, come l’indirizzo e-mail, il sito web, l’indirizzo dell’attività, etc. Inoltre, la versione business mette a disposizione una sezione dedicata alle statistiche sulla messaggistica e una funzione che fornisce delle metriche sul numero dei messaggi inviati, consegnati e letti. Questi dati possono essere utilizzati dalle società per comprendere se una determinata strategia di marketing sta funzionando oppure no.

Inoltre, le aziende possono decidere di collegare il profilo Whastapp a quelli di Facebook ed Instagram, e così implementare campagne apposite per raccogliere nuovi contatti da utilizzare per attività di remarketing.

E cosa cambia nelle condizioni di utilizzo e nella privacy policy per Whatsapp Business?

I principali aggiornamenti delle condizioni di utilizzo chiariscono le modalità con cui le società che utilizzano Whatsapp Business possono utilizzare i servizi disponibili su Facebook per gestire le chat. Nulla di nuovo, insomma.

Ma Whatsapp condivide o no i miei dati personali con Facebook?

In che modo WhatsApp ha venduto la nostra privacy a Facebook - Data Manager  Online

Forse non lo sapevi, ma da quando Facebook, nel lontano 2014, ha acquistato Whatsapp, può avere accesso al numero di telefono con cui gli utenti si registrano all’app di messaggistica e alle informazioni sul dispositivo da cui viene utilizzata l’applicazione.

Tuttavia, come chiarito nell’ultimo comunicato emanato da Whastapp, Facebook, nonostante i rumors, continuerà a non poter utilizzare queste informazioni per l’invio di pubblicità o contenuti targhetizzati. Almeno in Europa, grazie al GDPR.

Nel resto del mondo e negli Stati Uniti, diventa invece obbligatorio per tutti gli utenti accettare che dati come il numero di cellulare o la rubrica di Whatsapp possano essere usati da Facebook per mostrare pubblicità personalizzate. In Europa, invece, Facebook potrà unicamente costruire profili statistici anonimi degli utenti di Whatsapp, usando i dati che ad oggi ha a disposizione.

Ad ogni buon conto Whatsapp, ha precisato che:

  1. Né WhatsApp né Facebook possono leggere i tuoi messaggi privati o ascoltare le tue chiamate;
  2. Né WhatsApp né Facebook possono vedere la posizione da te condivisa;
  3. WhatsApp non condivide i tuoi contatti con Facebook.

Conclusioni

Al di là di tutte le dichiarazioni e i comunicati del colosso della messaggistica, qualsivoglia valutazione sulla sicurezza e la regolarità dei servizi offerti da Whatsapp, almeno per quanto concerne gli utenti dell’Unione Europea, è rimandata, in attesa della pronuncia dell’EDPB e delle eventuali modifiche alle policy dell’applicazione, promesse dalla Società per garantire una maggiore chiarezza in ordine ai trattamenti implicati.

Stay tuned per tutti gli aggiornamenti.

L’abolizione del Privacy Shield è stato certamente un evento di cui si è parlato molto. Nella bagarre generata dalla decisione della Corte di Giustizia Europea sul Caso Schrems II, pochi però sono stati gli esperti che si sono esposti e hanno cercato di individuare delle soluzioni pratiche alle problematiche emerse a seguito di detta sentenza. Tra di essi, fortunatamente, anche l’Avv. Manuela Soccol, che in questo webinar enucleava alcuni dei consigli e delle buone pratiche individuati, poi, lo scorso 10 novembre, dall’EDPB nelle “Recommendations 01/2020 on measures that supplement transfer tools to ensure compliance with the EU level of protection of personal data”.

I consigli dell’EDPB

Il Comitato Europeo per la Protezione dei Dati Personali ha finalmente sciolto le riserve, pubblicando una serie composita di raccomandazioni relative al trasferimento dei dati personali in territorio extra-UE, organizzandole in quattro diversi step.

1^ Step: mappare i flussi di dati.

Come prima cosa, è necessario mappare tutti i trasferimenti di dati posti in essere verso paesi terzi. Perché? Essere consapevoli della destinazione dei dati personali è essenziale per garantire che al trattamento siano applicati livelli di sicurezza equivalenti a quelli europei.

2^ Step: individuare lo strumento normativo su cui si basa il trasferimento

Il secondo passo da seguire è quello di identificare lo strumento normativo su cui si basa il trasferimento. Gli artt. 45, 46 e 49 del GDPR, sono chiari sul punto: decisioni di adeguatezza, clausole standard, binding corporate rules, o le eccezioni di cui all’art.49 (es. consenso dell’interessato, esecuzione di un contratto, etc.) possono essere le basi che legittimano tale trasferimento. Non preoccupatevi: il vostro legale o il vostro DPO dovrebbero aver individuato a monte, prima che il trattamento fosse posto in essere, lo strumento normativo in questione.

3^ Step: assessment sulla normativa del paese importatore

Questo step risulta necessario unicamente in assenza di decisioni di adeguatezza della Commissione Europea. In altri termini, il Titolare del Trattamento dovrà verificare la presenza dei presupposti di cui all’art. 46 del GDPR, ossia delle “garanzie adeguate” e, per gli interessati, di“diritti azionabili e mezzi di ricorso effettivi”. Al fine di verificare se sussistono tali circostanze, l’EDPB consiglia di far riferimento alle raccomandazioni dallo stesso fornite nelle “European Essential Guarantees recommendations. Si badi che l’intero processo di valutazione deve essere documentato e condotto sulla base del principio di accountability.

4^ Step: eventuale applicazione di misure ulteriori

Si tratta del passo sicuramente più importante. Posto che sentenza Schrems II ha precisato che le Clausole Contrattuali Standard possono essere utilizzate solo in presenza di misure ulteriori, qualora il trasferimento di dati si basasse su tali clausole è essenziale verificare la sussistenza di misure tecniche aggiuntive… ma, quali? Ce lo dice l’EDPB, mediante l’elencazione di diversi accorgimenti, all’interno dell’Annex 2 delle Raccomandazioni.

In tal senso, a titolo esemplificativo, relativamente ai data storage e ai backup, il documento afferma che il trasferimento può ritenersi sicuro, se per esempio:

1.         i dati personali vengono elaborati utilizzando una crittografia avanzata prima della trasmissione;

2.         l’algoritmo di crittografia e la sua parametrizzazione (ad esempio, lunghezza della chiave, modalità operativa, se applicabile) sono conformi allo stato dell’arte e possono essere considerati robusti contro la crittoanalisi eseguita dalle autorità pubbliche nel paese destinatario;

3.         le chiavi sono gestite in modo affidabile (generate, amministrate, archiviate, se pertinente, collegate all’identità di un destinatario previsto e revocate);

4.         le chiavi sono conservate esclusivamente sotto il controllo dell’esportatore di dati o di altre entità incaricate di questo compito, che risiedono nel SEE o in un paese terzo con normativa adeguata.

Consigli dello Studio

I nostri consigli si possono riassumere in poche parole: accountabilty, DPIA e bilanciamento degli interessi. Al di là di quanto espresso dalle citate raccomandazioni, che peraltro non vanno esenti da critiche di vario genere, è essenziale che il Titolare del Trattamento analizzi l’opportunità di trasferire i dati personali all’estero effettuando una preventiva valutazione di impatto e bilanciando gli interessi in gioco, tra sicuramente anche le misure eventualmente adottate dal fornitore estero in ordine all’annoso problema dei cybercrime. Tale genere di valutazione è tutt’altro che agevole. Pertanto, è senza dubbio essenziale che il Titolare del Trattamento si rivolga ad un legale esperto nel settore, che possa condurlo alla decisione più sicura ed adatta al suo business.

Con la Circolare 4 settembre 2020 n. 13, i Ministeri del Lavoro e della Salute hanno fornito una serie d’indicazioni e di chiarimenti sulla sorveglianza sanitaria dei lavoratori fragili e sulle visite mediche obbligatorie.

Nello specifico, la circolare ha cercato di chiarire il concetto di fragilità evidenziando che la “fragilità” va individuata nelle condizioni di salute del lavoratore rispetto alle patologie preesistenti che potrebbero determinare, in caso di infezione, un esito più grave o infausto. Pertanto, il solo parametro dell’età non è elemento sufficiente per definire uno stato di fragilità.

La circolare in oggetto, inoltre, fornisce alcune indicazioni operative, prevedendo che ai lavoratori debba essere assicurata la possibilità di richiedere al proprio datore di lavoro l’attivazione di adeguate misure di sorveglianza, in ragione dell’esposizione al rischio Covid-19, in presenza di patologie con scarso compenso clinico (a titolo esemplificativo si citano malattie cardiovascolari, respiratorie, metaboliche). In particolare, le richieste di visita dovranno essere corredate da documentazione medica relativa alla patologia diagnosticata, con modalità che garantiscano la riservatezza, a supporto della valutazione del medico competente.

Inoltre, la sorveglianza sanitaria dovrà essere garantita anche laddove il datore di lavoro non è tenuto alla nomina del medico competente. In tale ipotesi, ferma la possibilità di nomina del medico competente, ai fini della massima tutela dei lavoratori fragili, su richiesta dei lavoratori o delle lavoratrici, il datore di lavoro può inviare gli stessi ad effettuare la visita all’INAIL, alle ASL o ai dipartimenti di medicina legale e di medicina del lavoro delle Università. Ai fini della valutazione della condizione di fragilità, il datore di lavoro dovrà fornire al medico incaricato di emettere il giudizio una dettagliata descrizione della mansione svolta dal lavoratore o dalla lavoratrice e della postazione/ambiente di lavoro dove presta l’attività, nonché le informazioni relative all’integrazione del documento di valutazione del rischio, in particolare con riferimento alle misure di prevenzione e protezione adottate per mitigare il rischio da Covid-19, in attuazione del Protocollo condiviso del 24 aprile 2020.

Sulla base di tali elementi il lavoratore sarà giudicato, quindi, come idoneo o meno. In modo poco chiaro e del tutto generico viene ulteriormente affermato che «resta ferma la necessità di ripetere periodicamente la visita anche alla luce dell’andamento epidemiologico e dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche in termini di prevenzione, diagnosi e cura».  Pertanto, si consiglia al medico competente di scadenzare, in base al quadro clinico del lavoratore o della lavoratrice, la periodicità con cui la visita dovrà essere ripetuta.

Altresì la circolare precisa che la sorveglianza sanitaria eccezionale introdotta dall’art. 83 del D.L. n. 34/2020, riguardante la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori fragili, per effetto dell’art. 1, co. 4 del D.L. n. 83/2020 è da ritenersi come non più in vigore dal 1° agosto 2020. Tuttavia, in termini operativi, il quadro muta di poco in quanto nella stessa circolare viene precisato che allo stato, in ragione dei mutamenti del quadro normativo, le visite mediche richieste dai lavoratori e dalle lavoratrici entro il 31 luglio 2020, ai sensi del menzionato articolo 83 saranno regolarmente svolte sulla base delle indicazioni operative illustrate nella presente circolare e secondo la disciplina speciale di cui al citato disposto normativo.

Infine, con riferimento alle visite obbligatorie, nella circolare viene precisato che «nell’attuale fase, si ritiene opportuno tendere al completo – seppur graduale – ripristino delle visite mediche previste dal decreto legislativo n. 81 del 2008, sempre a condizione che sia consentito operare nel rispetto delle misure igieniche raccomandate dal Ministero della salute e secondo quanto previsto dall’organizzazione Mondiale della Sanità, nonché tenendo conto dell’andamento epidemiologico nel territorio di riferimento».

Secondo i Ministeri, in linea generale, possono essere ancora differibili, previa valutazione del medico competente, anche in relazione all’andamento epidemiologico territoriale:

  • la visita medica periodica (art. 41, co. 2, lett. b) del D. Lgs. n. 81/2008);
  • la visita medica alla cessazione del rapporto di lavoro, nei casi previsti dalla normativa vigente (art. 41, co. 1, lett. e) del D. Lgs. n. 81/2008).

Tuttavia, si ritiene opportuno non prorogarle salvo gravi motivi legati all’andamento dell’epidemia che non rendano possibile l’effettuazione di tali attività.

In caso di dubbi o per necessità di consigli per la tua attività, non esitare a contattare lo Studio legale Soccol .

Sei un imprenditore o un aspirante tale? Stai progettando ed implementando qualcosa di estremamente innovativo e sei parecchio preoccupato che qualcuno rubi, copi, riproduca la tua idea? Più che comprensibile.

Sappi che, fortunatamente, hai a disposizione diversi strumenti per tutelare te e il tuo know-how.

NDA

Se a preoccuparti è la condivisione della tua idea con possibili futuri collaboratori, puoi sottoporre alle persone interessate un NDA (letteralmente Non-Disclosure Agreement), ovverosia un accordo di riservatezza. Si tratta di un atto con cui una parte garantisce all’altra di non diffondere, rivelare o riprodurre in qualsivoglia modo determinate informazioni confidenziali, di cui sia venuta a conoscenza sulla base della predetta collaborazione. Tale accordo risulta particolarmente utile qualora nel medesimo sia prevista anche una clausola penale per il caso di inadempimento. Tale clausola, infatti, obbliga il soggetto “rivelante” a corrispondere all’altra parte una somma di denaro qualora violi gli obblighi di riservatezza dell’NDA.

Marchi e brevetti

La proprietà industriale può essere protetta, inter alia, anche attraverso appositi diritti o titoli, definiti tecnicamente “diritti di proprietà industriale”. Si tratta, in altri termini, di privative a vantaggio del loro titolare e a scapito di terzi concorrenti. Per esempio, le medesime possono conferire al titolare dei diritti negativi, come ad esempio il diritto di privare altri dell’uso e della commercializzazione di un’invenzione o di un disegno.

Tali diritti si possono acquistare mediante:

  1. brevettazione
  2. registrazione

Sono oggetto di brevettazione: le invenzioni, i modelli di utilità e le nuove varietà vegetali; mentre sono oggetto di registrazione: i marchi, i disegni, i modelli e le tipografie dei prodotti a semiconduttori.

Posto che abbiamo già trattato questo tema qui e qui, se sei curioso di capire come funzionano le descritte privative, ti invitiamo a leggere gli articoli linkati.

Ma se io volessi tutelare le fasi del processo creativo … come posso fare? WIPO-Proof è la soluzione

Ti stai chiedendo quale strumento utilizzare per tutelare le varie fasi del processo creativo che ti sta conducendo all’implementazione della tua idea? In tuo soccorso c’è WIPO-Proof. Si tratta di un nuovo servizio online, messo a disposizione dalla World Intellectual Property Organization, che ha lo scopo di costituire una prova non falsificabile dell’esistenza di un file digitale in un determinato momento, tutelandolo indipendentemente dal fatto che il risultato divenga poi oggetto di un diritto di proprietà industriale.

Interessante, ma per cosa lo posso utilizzare?

WIPO PROOF è pensato per quelle opere che non possono godere della tutela accordata ai titoli di proprietà industriale sopra descritti, ma che sono protetti dalla legge sul diritto d’autore.

Tale sistema è particolarmente utile ogni qualvolta si voglia dare una data certa e riconoscere la paternità ad un’opera o ad un lavoro. Sono infatti caricabili sul sistema:

•           segreti commerciali

•           lavori creativi (audio, video, lavori letterari)

•           lavori artistici (pattern, lavori di architettura)

•           schemi tecnici, piani, progetti

•           Codice di programma

•           Ricerche (rapporti, note di laboratorio)

•           Algoritmi, sequenze genetiche

•           Documenti firmati digitalmente (contratti, lettere, certificati)

Ma quanto costa?

Non ti preoccupare del costo. Con poco meno di venti euro, poi tutelare in modo adeguato il tuo progetto. Tuttavia, WIPO offre anche altri servizi, per i cui costi ti invitiamo a visitare la seguente pagina.

Il consiglio dell’esperto

Come puoi vedere, hai a disposizione un ampio range di possibilità per proteggere la tua idea, il tuo progetto o la tua invenzione. Scegliere quella più adatta alle tue esigenze non è però facile. Per questo, ti consigliamo di rivolgerti sempre ad un esperto legale che saprà come indirizzarti al meglio.

Lo Studio Legale Soccol è sempre a disposizione per risolvere eventuali tuoi dubbi e per aiutarti a tutelare il tuo progetto.

Hai mai sentito parlare di dropshipping? Si tratta di un particolare modello di business che ti consente, con alcuni piccoli accorgimenti, di fare buoni profitti, con pochissime spese.

Come funziona?

Il dropshipping è un metodo di vendita applicabile all’e-commerce, grazie al quale è possibile vendere un prodotto online senza averlo materialmente in magazzino. Anzi, senza avere il magazzino!

Nessun magazzino… com’è possibile?

Ebbene sì, il venditore non acquista la merce dal fornitore, ma si limita a proporla al pubblico per il tramite del proprio e-commerce. Non appena il venditore riceve l’ordine del cliente, lo trasmette al fornitore, il quale si occupa dell’imballaggio e della spedizione del prodotto direttamente all’acquirente. Semplice, no? Naturalmente, tutto questo è reso possibile da apposito accordo commerciale, regolante i rapporti tra venditore e fornire in un’ottica di mutuo vantaggio.

Caratteristiche dell’accordo commerciale

Se prima di questo articolo non avevi mai sentito nominare il dropshipping, è perché si tratta di un modello di vendita di recente invenzione. Per tale ragione, il contratto di dropshipping non presenta alcuna normativa codicistica di riferimento, salvo le regole generali sui contratti, di cui al nostro codice civile. Va però messo in luce come si tratti pur sempre di una modalità di commercio elettronico, la quale non può che essere regolamentata dal D.Lgs. 70/2003, rubricato “attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico“. Tale normativa impone al venditore una serie composita di obblighi, già descritti in questo nostro precedente articolo. Ad ogni buon conto, come in tutti i rapporti commerciali, è essenziale definire precipuamente quali sono i diritti e i doveri delle parti del contratto, ossia, nel caso di specie, del merchant e del fornitore.

Obblighi del fornitore

L’accordo commerciale deve necessariamente prevedere che il fornitore si impegni a:

  1. Garantire la disponibilità in magazzino dei beni pubblicizzati nell’e-commerce dal merchant, avvisandolo prontamente qualora un prodotto risulti esaurito;
  2. Curare la logistica del magazzino, ovverosia il flusso delle merci in entrata e in uscita;
  3. Curare l’imballaggio dei beni ordinati ed acquistati dal cliente finale, tramite il sito del merchant. Le caratteristiche del packaging devono essere descritte nel contratto o in un suo allegato tecnico;
  4. Garantire che la merce in magazzino soddisfi pienamente i requisiti di sicurezza previsti dalle normative vigenti e siano conformi alle stesse;
  5. Spedire la merce ordinata, nei termini e con le modalità indicate nel contratto, direttamente all’acquirente finale.

Obblighi del venditore

Parimenti, l’accordo commerciale deve stabilire che il merchant si impegni a:

  1. Promuovere nel proprio e-commerce i prodotti del fornitore;
  2. Curare la gestione degli ordini. Si specifica, tuttavia, che dovrebbe essere il fornitore ad inviare ai clienti una notifica via e-mail non appena l’ordine va in consegna;
  3. Curare il flusso dei pagamenti, ed in particolare, corrispondere al fornitore le somme pattuite nel contratto.

Quindi, chi paga chi?

All’interno dell’accordo commerciale è necessario che sia descritto il flusso dei pagamenti, con chiara indicazione delle modalità con cui il merchant corrisponde al fornitore le somme stabilite. Si specifica infatti che il cliente paga il prezzo del prodotto acquistato direttamente al venditore, tramite l’e-commerce. Quest’ultimo trattiene sulla somma incassata una percentuale per i servizi dal medesimo svolti, e trasmette l’importo rimanente al fornitore, a titolo di corrispettivo per le attività effettuate.

È opportuno che nel contratto sia previsto che il merchant corrisponda mensilmente le somme dovute al fornitore. In questo modo, qualora il cliente finale eserciti il diritto di recesso e sia necessario restituire le somme dallo stesso versate, il venditore, non avendo ancora pagato il fornitore, non si troverà a dover sborsare di tasca propria le somme in questione.

Chi è responsabile nei confronti del cliente finale?

La responsabilità per eventuali vizi, non conformità, o danni causati dai prodotti acquistati dal cliente è una tematica davvero spinosa. È essenziale che nel contratto sia inserita apposita clausola di manleva, con cui il fornitore si impegna a tenere indenne il venditore da qualsivoglia danno cagionato a persone e/o cose derivante dai prodotti dallo stesso forniti.

Consigli pratici

Se sei arrivato fino a qui, dovrebbe esserti chiaro che il dropshipping è davvero un business innovativo e ricco di potenzialità economicamente allettanti. Tuttavia, avrai anche capito che, per tutelare la tua posizione, è essenziale che i rapporti con il fornitore da te scelto siano disciplinati da apposito contratto scritto. Per la redazione dello stesso, ti consigliamo di rivolgerti sempre ad un esperto del settore: saprà come proteggere al meglio i tuoi interessi, scongiurando il rischio di fraintendimenti con il fornitore, che nel peggiore dei casi si traducono in annose controversie giudiziali.

In caso di dubbi o perplessità, non avere remore a contattare lo Studio Legale Soccol.