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Se durante le ultime cene con amici e colleghi hai sentito disquisire spesso di bitcoin[1], ma, nonostante l’interesse e l’entusiasmo iniziali, non sei riuscito a comprendere a fondo le dinamiche che governano il sistema, allora questo articolo è proprio ciò di cui hai bisogno per far chiarezza sul tema.

La prima questione da affrontare, per poi inoltrarci nella fitta selva di problematiche legate a questa materia, è comprendere che cosa in pratica siano i bitcoin.

Si tratta essenzialmente di una moneta elettronica, creata ufficialmente nel 2009 da un anonimo inventore, noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Al contrario delle monete che hanno corso legale, essa non viene né generata né controllata dal potere centrale di uno Stato. Questo è possibile poiché il sistema Bitcoin semplicemente si autogestisce. Esso è infatti costruito sulla base di una serie complessa di algoritmi, che generano “n” bitcoin in “n” unità di tempo. Il processo si interromperà quando saranno prodotti 21 milioni di bitcoin.

Oltre ad essere completamente indipendente da qualunque potere centrale, il circuito funziona regolarmente senza l’intervento di intermediari certificati, quali ad esempio banche ed istituti di credito. A rendere possibile tutto questo è l’impiego della moderna tecnologia della blockchain. Si tratta di un registro distribuito ed incrementale delle transazioni, cioè uno strumento che consente di porre in essere transazioni di qualunque genere, senza che sia necessario l’intervento di alcun intermediario.

A questo punto, risulta chiaro quale sia il primo grande vantaggio dell’utilizzo dei bitcoin: un consistente risparmio di denaro nelle più comuni operazioni economiche, le quali non risultano più assoggettate ad alcuna esosa commissione bancaria.

Il buon funzionamento del Bitcoin è inoltre garantito da tre grandi pilastri, che governano il circuito: condivisione, anonimato e irreversibilità. Questi principi regolatori consentono alla tecnologia di assicurare un servizio sicuro, efficiente e all’avanguardia. Nella pratica ciò comporta che i saldi e le operazioni di tutti gli utenti siano pubbliche, sebben anonime. L’identità di ogni fruitore è infatti celata dietro un indirizzo bitcoin, che permette l’accesso e l’utilizzo della rete. I dati personali dell’utente vengono rivelati solamente al momento dell’ipotetica transazione. Si badi però che, non essendo presente alcun intermediario, tutte le operazioni sono assolutamente irreversibili. Più in generale, invece, la sicurezza del sistema è garantita da un’altra caratteristica importante: tutte le transazioni effettuate all’interno del circuito sono possibili solamente a condizione che chi le effettua sia precedentemente divenuto legittimo proprietario di una quantità di bitcoin almeno pari a quella che ha intenzione di cedere.

Il circuito dunque tende non solo ad autogestirsi, ma anche a tutelare autonomamente ogni suo utente da possibili infrazioni ed eventuali tentativi criminosi. Ciononostante, sebbene il Bitcoin appaia una tecnologia assolutamente sicura ed efficiente, è innegabile che una lunga serie di atti criminali, riconducibili soprattutto ai cybercrime, viene svolta quotidianamente proprio sfruttando surrettiziamente le componenti del sistema che dovrebbero autotutelarlo.

L’utente inoltre deve prendere coscienza del fatto che, non potendo godere del supporto di alcun soggetto terzo che svolga il ruolo di intermediario, in caso di perdita, smarrimento o furto delle credenziali d’acceso al proprio wallet[2] e alla rete stessa, sarebbe per lui impossibile recuperare il denaro investito. Dunque, sebbene il sistema risulti complessivamente sicuro, e sebbene l’assenza di un intermediario comporti di per sé dei benefici economici non di poco conto, questa moderna tecnologia implica di certo una maggiore responsabilizzazione dell’investitore. L’attenzione e la diligenza richieste all’utente non sono purtroppo comuni e non vanno dunque date per scontate; basti pensare al fatto che tutti almeno una volta nella vita abbia perso, smarrito, dimenticato la password della casella della posta elettronica, di qualche social, o addirittura del cellulare.

Nonostante, alcune intrinseche criticità, la forza dirompente di questa circuito, ha attirato l’attenzione anche del Legislatore nazionale, che è indirettamente intervenuto in materia. Con il D.lgs. 231/07, in tema di antiriciclaggio, il Legislatore si è occupato anche di bitcoin, definendoli come “valute virtuali”, ovvero rappresentazioni digitali di valore, non collegate ad una moneta di corso legale, ma comunque utilizzabili come mezzo di scambio. Si badi che esse non hanno alcun valore liberatorio in relazione ad eventuali obbligazioni pecuniarie; ma non per questo sono da ritenersi inutilizzabili, in quanto illecite. È la stessa Banca d’Italia a sostenere nella decisione del 30.01.2015 che «l’acquisto, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute virtuali debbano, allo stato, ritenersi attività lecite».

Ci si chiederà a questo punto se vi siano ulteriori vantaggi economici, oltre al risparmio in commissioni bancarie; in particolare è lecito domandarsi se siano state accordate delle particolari esenzioni relativamente al pagamento di imposte come IVA ed IRES.

Ad oggi, grazie all’intervento della Corte di Giustizia Europea[3], si è certi che le transazioni eseguite in bitcoin siano esenti dal pagamento dell’IVA. La posizione è stata tra l’altro successivamente confermata dalla Risoluzione 72/E del 2 settembre 2016 dell’Agenzia delle Entrate.

Per quanto concerne nello specifico il comportamento delle aziende in caso di scambio di bitcoin contro una prestazione specifica, le certezze sul punto sono minori. È sicuramente necessario emettere regolare scontrino fiscale, con indicazione in euro dell’IVA. Maggiori dubbi invece in merito alla necessità o meno di pagare le imposte sui redditi delle società. Una posizione definitiva sul punto è molto lontana dall’essere raggiunta: continuano quindi ad essere applicate le consuete norme per la determinazione delle imposte sui redditi, con il risultato che i guadagni societari ottenuti in bitcoin non sono esenti dal pagamento di suddette imposte.

Concludendo, non si può che lasciare al lettore la valutazione finale sui vantaggi e gli svantaggi dell’utilizzo di questa avveniristica tecnologia; non ci si può parimenti esentare da alcune semplici osservazioni. Sebbene, il sistema Bitcoin non si avvalga di certo del supporto dei consueti intermediari, ciò non esclude tout court l’intervento di eventuali terzi – al momento non certificati – nei rapporti tra gli utenti del circuito. Infatti, le start-up sviluppatrici dei su citati wallet, quei portafogli virtuali che permettono l’utilizzo della rete Bitcoin, hanno in breve tempo assunto un ruolo equiparabile a quello degli ordinari intermediari, originariamente espunti dal sistema. Spetta al Legislatore intervenire quanto prima in materia, al fine di inquadrare esattamente compiti e caratteristiche di tali società e tutelare gli investitori.

D’altro canto non mancano di certo esempi virtuosi dell’efficienza e della redditività del sistema. In particolare, in Trentino è nata da poco l’ormai nota Bitcoin Valley: una valle in cui è possibile utilizzare il circuito Bitcoin –  affianco ai normali mezzi di pagamento – per diverse operazioni: dalle più semplici, come pagare il conto al ristorante, a quelle più complesse, come pagare eventuali lavoratori dipendenti e fornitori.

Non ci resta dunque che dire: ai posteri l’ardua sentenza!

[1] Si utilizza “bitcoin” per indicare la moneta virtuale, mentre “Bitcoin” per indicare il circuito stesso.

[2] Il c.d. portafoglio virtuale, contenente l’ammontare di bitcoin comprati o guadagnati.

[3] Sentenza n. C – 264/2014 della Corte di Giustizia Europea.

Se sei un imprenditore e gestisci la tua società cercando di ottenere grandi risultati nel tuo settore di mercato, certo non vedrai di buon occhio i tuoi possibili competitors. Ebbene, per quanto possa apparirti strano, il sistema della libera concorrenza risulta essere tendenzialmente quello che offre maggiori possibilità di crescita e di sviluppo all’economia, consentendo – almeno teoricamente – a tutti gli imprenditori di essere presenti sul mercato a condizioni sempre “migliori”.

È innegabile che si tratti di un principio per certi versi crudele, ma garantisce pur sempre a tutte le aziende una possibilità di emergere.

È per questo che sia il Legislatore italiano che quello europeo proteggono la libertà di concorrenza, attraverso la disciplina antitrust, e vedono con sfavore le sue restrizioni. Il patto di non concorrenza è una di queste.

A livello europeo sono infatti vietati tutti quegli accordi – dai veri e propri contratti, ai c.d. gentlemen’s agreements [1] – che abbiano come effetto quello di falsare la libera concorrenza (art. 101 TFUE).[2]

La normativa europea lascia spazio a quella nazionale[3] solamente in caso di intese restrittive che non abbiano effetti negativi sul commercio degli Stati membri, nonché in caso di accordi che non superino i livelli di fatturato richiesti dalla regolamentazione europea. [4]

Le due discipline non solo si compenetrano, ma contano anche ben poche differenze sostanziali.

In ambo i casi infatti le intese vietate sono quelle che tendono a compromettere il gioco della concorrenza, soprattutto attraverso attività consistenti nel:

  • fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;
  • impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;
  • ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
  • applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
  • subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi.

Nonostante la rigidità della disciplina, alcune tipologie di patti di non concorrenza sono comunque ammesse dalla legge. Con la Comunicazione “de minimis” (2014/С 291/01), la Commissione Europea ha chiarito che le intese relative a quote di mercato inferiori al 10 % (o al 15% se conclusi tra aziende non concorrenti) non risultano tendenzialmente pregiudizievoli per la concorrenza e quindi non sono proibite. Diversamente, quelle appartenenti ad una rete di accordi vengono vietate per quote di mercato superiori al 5%.

Il Legislatore italiano non ha invece definito una cd. zona di sicurezza, ovvero una percentuale al di sotto della quale – difficilmente – le intese risultano rilevanti per la libera concorrenza. Questo non significa però che tutti i patti siano di per sé vietati.

Sono infatti ammessi gli accordi che non sono volti a falsare, compromettere, manipolare il sistema della libera concorrenza (art. 2 l. 287/1990); ovvero, quelli che rispettano le condizioni stabilite dall’art. 4 co 1, l. 287/1990[5].

È in questo ridotto spazio giuridico che trova applicazione l’art. 2596 c.c.[6] Tale norma chiarisce quali siano i requisiti essenziali per la validità di un patto di non concorrenza. Di base esso è ammissibile solo se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e solamente se dotato di una durata limitata nel tempo, predeterminata – in mancanza di esplicita pattuizione delle parti – dal Legislatore, in un massimo di cinque anni. Non è necessaria la forma scritta per la sua validità, sebbene sia invece richiesta ad probationem.

Lo scopo della norma è primariamente quello di salvaguardare la libertà individuale degli imprenditori, introducendo limiti alla facoltà di prevedere vincoli perpetui o eccessivamente duraturi alla libertà di iniziativa economica; secondariamente, quello di tutelare l’integrità del mercato e l’interesse dei consumatori.

Va a questo punto fatta un’importante osservazione. L’ambito di operatività dell’art. 2596 c.c. non ricomprende tutti i patti di non concorrenza. In particolare, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale[7], i patti accessori – ovvero quelli che costituiscano degli strumenti necessari e indispensabili per la realizzazione di una più complessa operazione negoziale – non sono limitati temporalmente ad una durata massima di cinque anni. Di fatto essi risultano parte fondamentale di una più articolata forma di collaborazione commerciale e, non esaurendo la loro funzione nella mera ed esclusiva restrizione della concorrenza, non subiscono le limitazioni dell’articolo in questione.

Ad ogni modo, è bene chiarire che l’art. 2596 c.c. non contrasta affatto con la disciplina antitrust nazionale ed europea, trovando applicazione solo per gli accordi ammessi da predetta normativa.

In conclusione, nulla quindi impedisce all’imprenditore  di tentare di raggiungere un accordo con i propri competitors, purché vengano rispettati i requisiti di validità sopra esposti.

[1] Si tratta di accordi informali tra le parti, che pur non dando luogo ad alcun vincolo giuridico, vengono liberamente rispettati dai contraenti.

[2]L’art. 101 TFUE vieta tutti “gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, fingere o falsare il gioco della concorrenza”.

[3] Si fa riferimento in questo caso alla l. 287/1990 (con successive modifiche) e alle relative norme del codice civile (artt. 2596 c.c. e s.s.).

[4] Si veda quando stabilito da: Reg. 1/2003, Reg. 139/2004 e relative leggi attuative.

[5] Art. 4, comma 1, l. 287/1990: “L’Autorità può autorizzare, con proprio provvedimento, per un periodo limitato, intese o categorie di intese vietate ai sensi dell’articolo 2, che diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori e che siano individuati anche tenendo conto della necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenzialità sul piano internazionale e connessi in particolare con l’aumento della produzione, o con il miglioramento qualitativo della produzione stessa o della distribuzione ovvero con il progresso tecnico o tecnologico. L’autorizzazione non può comunque consentire restrizioni non strettamente necessarie al raggiungimento delle finalità di cui al presente comma né può consentire che risulti eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato.

[6]Art. 2596 c.c.: Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio.

[7] Ex multis, Cass. civ., sez. I, 6 agosto 1997, n. 7266, in Giust. civ., 1998, p. 811 con nota di ALBERTINI, Sui patti accessori di non concorrenza.

Vi siete mai chiesti che tutela ha il design? Le opere di design possono essere coperte anche dalla tutela del diritto d’autore, oltre che dalla tutela della proprietà industriale? Numerosi sono i casi giudiziali di violazione dei diritti di proprietà industriale sui disegni e modelli che però hanno visto anche il riconoscimento della tutela degli autori qualificando il design come vera e propria “opere d’arte”.

Prima di analizzare i casi più importanti che riguardano il design riconosciuto in tutto il mondo, occorre soffermarsi su alcune premesse di carattere generale. La domanda che ci si pone, infatti, è: che differenza c’è tra la tutela del diritto d’autore e quella della proprietà industriale?
Innanzitutto definiamo il design, che comprende: a) il disegno, che ha carattere bidimensionale, quali le linee o i colori di un prodotto, e b) il modello, che ha carattere tridimensionale e riguarda la forma del prodotto.
Secondo quanto previsto dal Codice della Proprietà Industriale (D.lgs. 30/2005, art. 31), può essere oggetto di registrazione nazionale o comunitaria come design l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua riguardante le caratteristiche delle linee, i contorni, i colori, la forma, la struttura superficiale, i materiale dei prodotto stesso o, ancora, il suo ornamento, a condizione però che sia nuovo e abbia carattere individuale.
Il design è considerato nuovo, in base all’art. 32 CPI, se nessun disegno o modello identico è stato divulgato precedentemente alla data di presentazione della domanda di registrazione (o di divulgazione, per il design non registrato).

Si considerano identici i disegni o modelli quando le loro caratteristiche differiscono solamente per dettagli irrilevanti. Il carattere individuale del design, in base all’art. 33 CPI, sussiste quando nell’utilizzatore informato (cioè un soggetto che ha un’approfondita conoscenza del settore di riferimento, quindi una figura intermedia tra il consumatore e l’esperto) il disegno o modello suscita un’impressione generale diversa da qualsiasi disegno o modello che sia stato divulgato al pubblico prima.
La registrazione di un disegno o modello conferisce al titolare il diritto esclusivo di utilizzarlo e di vietare a terzi di utilizzarlo senza il suo consenso. Pertanto, né può essere vietata la fabbricazione, la commercializzazione, l’importazione, l’esportazione, e la detenzione dei prodotto per i predetti fini.
I diritti esclusivi previsti dalla registrazione hanno durata massimo di 25 anni e si estendono a tutto il territorio italiano, mentre la tutela prevista per il design non registrato è limitata ad un periodo di 3 anni ed è prevista dalla normativa comunitaria (art. 11 Reg. CE n. 6/2002). In quest’ultimo caso, il periodo inizia dalla data in cui il disegno o modello è stato divulgato al pubblico per la prima volta nel territorio dell’Unione Europea.

Il diritto d’autore tutela, tramite la legge n. 633/1941, tutte le opere artistiche dotate di creatività. L’autore di un’opera ha diritto esclusivo di pubblicarla e di sfruttarla economicamente in ogni forma e modo originale, nei limiti fissati dalla legge. Non di meno, l’autore di un’opera ha il diritto morale di essere riconosciuto come tale e di veder tutelata la propria personalità in relazione al processo creativo che ha portato alla creazione dell’opera.
La tutela del diritto d’autore ha una durata molto più ampia rispetto a quella riconosciuta al design, essendo di 70 anni dalla morte dell’autore.
Da questi brevi cenni delle due discipline, si notano subito i vantaggi a veder riconosciuta al design anche la tutela del diritto d’autore:
a) l’estensione temporale della tutela;
b) la mancanza di costi di registrazione in quanto la tutela autoriale sorge con la mera creazione dell’opera.
Per quanto interessa per i contenuti dell’articolo, l’art. 2, n. 10, della legge sul diritto d’autore riconosce la propria tutela a tutte le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico.
Brevemente, si ricorda che per veder riconosciuto il “carattere creativo” in un’opera di design deve sussistere un atto creativo minimo suscettibile di manifestazione esteriore, frutto di un’impronta personale dell’autore. Il concetto di “valore artistico”, invece, è più difficilmente definibile: a volte è stato riconosciuto come “un particolare pregio estetico dell’opera”, mentre in altre occasioni è stato specificato che l’accertamento deve fondarsi su elementi indiziari, idonei a provare il riconoscimento collettivo del valore dell’opera, quali ad esempio, l’inclusione in musei o collezioni di design o di arte contemporanea, il riconoscimento di premi di design o il giudizio di esperti dei singoli rami dell’arte.

Tutto quanto sopra illustrato, ha degli interessanti risvolti pratici: vediamone alcuni.
Caso Kiko (Tribunale di Milano, sentenza n. 1416/2015). Si tratta di un caso particolarmente noto, che vede estesa la tutela autoriale anche al c.d. concept di uno store, cioè al progetto di arredamento di interni. Kiko S.p.a., nel 2005, affidava allo studio Iosa Ghini Associati S.r.l. la realizzazione del concept dei suoi negozi, dando vita ad un progetto d’arredamento per interni, depositato con il modello n. 91752 dal titolo “Design di arredi di interni per negozi monomarca Kiko Make-up Milano”. Sulla base di tale disegno vengono aperti numerosi store (299 solo in Italia). Nel giudizio conclusosi con la citata sentenza, Kiko non solo richiedeva il riconoscimento della tutela del diritto d’autore, ma addebitava alla controparte Wycon S.p.a. di aver posto in essere atti di concorrenza sleale parassitaria ex art 2598 c.c. per la “diretta appropriazione del concept della catena concorrente, con una ripresa integrale degli elementi di arredo” e altri elementi quali l’abbigliamento e accessori delle commesse. Riconoscendo la legittimità delle pretesa di Kiko, Wycon veniva condannata al pagamento di un risarcimento dei danni pari a circa 700.000 euro e alla modifica di tutti i suoi store entro il termine di 60 giorni, pena la condanna al pagamento di euro 10.000 per ogni negozio che non si fosse conformato alla predetta decisione. Successivamente, Wycon presentava ricorso alla Corte di Appello di Milano, che, con ordinanza del 26.1.2016, tramite una valutazione comparativa, riteneva prevalente il danno che sarebbe derivato all’appellante dall’esecuzione della sentenza rispetto a quello che deriverebbe all’appellata dalla mancata esecuzione della stessa e quindi disponeva la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza del giudice di primo grado. Rimaniamo in attesa della sentenza della Corte di Appello di Milano: vi terremo aggiornati.

Caso Flos (Tribunale di Milano, sentenza n. 9906/2012). Nel 1962, i fratelli Castiglioni progettavano per Flos S.p.a. l’ormai famosissima lampada Arco. Successivamente alla commercializzazione, una società cinese produceva la lampada modello Fluida che imitava le caratteristiche stilistiche ed estetiche della lampada Arco. Un’impresa italiana, la Semeraro Casa&Famiglia S.p.a., importava in Italia la lampada Fluida, prodotta dalla società cinese. Il 23 novembre 2006, Flos citava in giudizio Semeraro dinanzi al Tribunale di Milano per aver importato dalla Cina e commercializzato in Italia la lampada Fluida, violando i diritti di privativa industriale e i diritti d’autore connessi al modello Arco. Dopo una lunga vicenda giudiziaria, che ha visto l’intervento anche della Corte di Giustizia Europea (Corte UE 27/01/2011 – causa C168/09), la lampada Arco viene riconosciuta come opera artistica e dunque protetta dalla tutela riconosciuta agli autori. Proprio per questo, è stato riconosciuto a Flos il diritto ad un risarcimento dei danni pari a 40 milioni di euro.

Caso Moon Boots (Tribunale di Milano, sentenza n. 8628/2016). Tecnica Group S.p.a. agiva nei confronti della concorrente Gruppo Anniel, ritenendo che i doposci modello Anouk prodotti da quest’ultima costituissero una violazione sia dei diritti d’autore sui Moon Boots, sia di alcuni propri modelli comunitari registrati relativi ai doposci della collezione “east-west”, l’evoluzione stilistica dei primi. Tale commercializzazione secondo Tecnica Group costituiva altresì concorrenza sleale a suo danno. Il Tribunale di Milano riconosceva i requisiti del “carattere creativo” e del “valore artistico” richiesti dall’art. 2, comma 1, n. 10 legge sul diritto d’autore ai Moon Boots e accertava la contraffazione dei Moon Boots da parte dei prodotti Anniel, statuendo che “Il modello Anouk delle convenute presenta tutte le predette caratteristiche creative dei Moon Boots, salvo che l’altezza del gambale è ridotta e le coppie di occhielli sono due anziché tre.” Il Tribunale di Milano inibiva di conseguenza la convenuta dall’ulteriore commercializzazione dei prodotti, con una penale di 250 euro per ogni ulteriore paio di doposci commercializzato.

Caso Bormioli (Tribunale di Milano, sentenza n. 31487/2015). La società Ty Nant Spring Water Ltd. e il titolare (italiano) della società instaurava un procedimento dinanzi al Tribunale di Milano contro la società Bormioli Rocco S.p.A., fabbricante di prodotti in vetro per la casa, lamentando che la serie di bicchieri in vetro denominati “Sorgente” prodotti e venduti in Italia dalla Bormioli Rocco avrebbe violato i diritti d’autore sulla bottiglia Ty Nant, ideata dal famoso designer gallese Ross Lovegrove. Il Tribunale di Milano riconosceva in capo alla bottiglia TY Nant la presenza dei requisiti di novità, carattere creativo e valore artistico necessari per godere della protezione prevista dall’art. 2, comma 10, della legge sul diritto d’autore. L’Organo Giudicante ha inoltre ritenuto che, sebbene le due società producessero prodotti differenti, vi era il rischio concreto che i consumatori confondessero la provenienza imprenditoriale dei prodotto e li ritenessero commerciati dalla medesima azienda, con evidente danno per la Ty Nant Spring Water Ltd. Veniva quindi riconosciuto che i bicchieri Sorgente stavano violando sia i diritti d’autore che i diritti di marchio sul design della bottiglia Ty Nant, e la Bormioli Rocco veniva inibita dal produrre e vendere i bicchieri di quel modello.

Caso chaise longue Le Corbusier (Tribunale di Milano, sentenza n. 2311/2014). La chaise longue LC4 è una originale seduta, frutto del genio creativo di Le Corbusier, diventata nel tempo la chaise longue per antonomasia. È infatti una vera e propria icona del design, un pezzo celeberrimo che nessuno può dire di non aver visto almeno una volta nella vita. La prima produzione e commercializzazione risale al 1929 da parte di Thonet. Oggi fa parte della collezione “I Maestri di Cassina”, la cui società Cassina S.p.a. ha ottenuto l’autorizzazione a produrla sin dal 1964. La chaise longue è stata oggetto di una lunga vicenda giudiziaria, in cui da un parte Cassina S.p.a. riteneva di essere titolare di diritti esclusivi di utilizzazione economica su alcuni mobili ideati dal maestro del design Le Corbusier, in virtù di accordi stipulati con lo stesso nel 1964 e poi periodicamente rinnovati, da ultimo con la Fondazione Le Corbusier e gli altri eredi dei coautori. Dall’altra, High Tech S.r.l. commercializzava modelli di arredo riproducenti alcune delle predette opere di Le Corbusier. La ricorrente invocava la tutela dal diritto d’autore da parte di High Tech. L’Organo Giudicante statuiva, riconoscendo la tutela autoriale alla chaise longue LC4, di Le Corbusier, che “l’espressione del valore artistico di un prodotto del design industriale non può ritenersi in radice compromessa dal carattere industriale del prodotto, posto che in tale ambito sussiste la possibilità che l’opera del design possegga caratteristiche tali da suscitare un apprezzamento sul piano estetico che prevalga sulle specifiche funzionalità del prodotto in misura superiore al normale contributo che il designer apporta all’aspetto esteriore di linee e forme particolarmente gradevoli, raffinate ed eleganti”.

In conclusione, si pone in evidenza il fatto che la tutela autoriale viene riconosciuta anche al design industriale se effettivamente è connaturato di un valore artistico e creativo, che sia riconosciuto a livello internazionale da esperti e pubblico.

Sei una piccola azienda del tessile che vorrebbe accedere a particolari finanziamenti o bandi pubblici ma non hai i requisiti richiesti? Sei un imprenditore che vorrebbe espandere la propria rete commerciale o sviluppare nuovi processi produttivi ma non hai i contatti giusti o la forza economica necessaria? La soluzione c’è e prevede una collaborazione con altre piccole-medie imprese come la tua. L’unione fa la forza!

Il contratto di rete tra imprese è stato introdotto nell’ordinamento giuridico dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, di conversione del D.L. 10 febbraio 2009, n. 5 (c.d. “Decreto Incentivi”). La rete di imprese configura una tipologia di associazionismo imprenditoriale su base contrattuale che consente alle singole imprese aderenti, chiamate “retiste”, di collaborare.

Occorre innanzitutto distinguere due possibili tipologie di rete: la rete-soggetto e la rete-contratto.

Le reti-soggetto sono reti di imprese che hanno deciso di acquisire la soggettività giuridica iscrivendosi nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese, e costituiscono un soggetto “distinto” dalle imprese che hanno sottoscritto il contratto e, pertanto, sotto il profilo tributario, in grado di realizzare fattispecie impositive ad essa imputabili (Iva, Irap, imposta di registro, obblighi di tenuta delle scritture contabili).

Nelle reti-contratto, invece, l’adesione al contratto di rete non comporta l’estinzione, né la modificazione della soggettività giuridica e tributaria delle imprese che aderiscono all’accordo, né l’attribuzione di soggettività tributaria alla rete risultante dal contratto stesso. L’assenza di un’autonoma soggettività giuridica e fiscale delle reti di impresa comporta che gli atti posti in essere in esecuzione del programma di rete producano i loro effetti direttamente nelle sfere giuridico-soggettive dei partecipanti alla rete. Dunque, la titolarità di beni, diritti, obblighi ed atti rimane, quota parte, alle singole imprese partecipanti.

Ciò precisato, quali sono i vantaggi di un contratto di rete?

Dal punto di vista dei lavoratori, con il contratto di rete è possibile ottimizzare l’impiego delle risorse umane e raggiungere livelli superiori di efficienza produttiva, organizzativa e qualitativa, aderendo alle richieste del mercato. In particolare, sarà possibile l’utilizzo dell’istituto del distacco dei lavoratori, che si realizza quando un datore di lavoro (cd. distaccante), per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori (cd. distaccato/i) a disposizione di altro soggetto (cd. distaccatario) per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. La legge n. 99/2013, di conversione del Decreto legge n. 76/2013, ha aggiunto all’art. 30 del D.lgs. n. 276/2003, il comma 4-ter che prevede la possibilità di applicare il distacco anche ad aziende appartenenti ad una rete di imprese. Secondo quanto previsto dalla norma, nell’ipotesi di distacco nel contratto di rete, “l’interesse del distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete”. L’introduzione di una presunzione di sussistenza dell’interesse ha come obiettivo primario quello di favorire la circolazione dei lavoratori tra imprese collegate da un obiettivo coordinato all’interno della rete.

Un altro aspetto interessante è l’accesso al credito d’imposta del 50 per cento delle spese incrementali in Ricerca e Sviluppo sostenute nel periodo 2017-2020 che è stato riconosciuto anche a favore dei consorzi e delle reti di impresa, fino a un massimo annuale di 20 milioni di €/anno per beneficiario e computato su una base fissa data dalla media delle spese in Ricerca e Sviluppo negli anni 2012-2014.

Infine, si segnala il Bando MISE “Grandi progetti di Ricerca e Sviluppo”, a valere sul PON Imprese e Competitività 2014-2020 FESR, che finanzia grazie all’intervento del Fondo crescita sostenibile i progetti di ricerca e sviluppo di rilevanti dimensioni in materia di Agenda Digitale e Industria Sostenibile, realizzati nelle Regioni meno sviluppate (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia), e nelle Regioni in transizione (Abruzzo, Molise, Sardegna).

I dati sui contratti di rete in Italia[1] parlano di una “crescita inarrestabile” delle reti di impresa, con oltre 3300 unità, e più di 17300 imprese coinvolte.

A livello di distribuzione per regione, la Lombardia si attesta al primo posto con 2837 imprese interessate da esperimenti di rete, seguita dal Toscana (1685) ed Emilia-Romagna (1606).

Di sicuro interesse i casi di contratti di rete del distretto tessile di Prato e del progetto emiliano Fashion Valley.

Le aspettative di risultato tramite il contratto di rete – settore moda, possono riguardare:

  • la gestione integrata della catena logistica;
  • l’internazionalizzazione del business;
  • la diversificazione dell’offerta;
  • lo sviluppo di innovazioni (ad es. nuove fibre tessili, o nuovi tipi di lavorazioni);
  • lo sviluppo di competenze e risorse;
  • lo sviluppo di una cultura dell’innovazione;
  • la risposta all’esigenza di delocalizzare le produzioni più mature in mercati a basso costo.

Grazie al contratto di rete, le piccole e medie aziende possono quindi permettersi di raggiungere, unendosi, obiettivi di risparmio economico in termini di guadagno in efficienza nella catena di fornitura e in quella di approvvigionamento, di aumento della penetrazione commerciale e di miglioramento della qualità della rete commerciale, di impulso all’innovazione per la competitività, e sviluppo di politiche di eco-sostenibilità.

[1] Dati Infocamere, aggiornati al 03 febbraio 2017. Per ulteriori aggiornamenti visitare il sito http://contrattidirete.registroimprese.it/reti/#.

Sei un’azienda che lavora con l’estero o che ci vorrebbe provare? Ti sei mai chiesto come viene protetto fuori dall’Italia il know-how della tua azienda e quale tutela viene riconosciuta alle informazioni commerciali riservate?

Innanzitutto occorre precisare che attualmente non esiste, a livello europeo, una normativa omogenea in materia di tutela del segreto commerciale, e vi sono ancora notevoli differenze in termini di protezione dei segreti commerciali tra gli Stati membri. Tali disomogeneità generano un rilevante pregiudizio alle aziende che intraprendono (o lo vorrebbero) attività commerciali nel territori di altri Stati membri.

Per arginare tali differenze normative, il 15 giugno 2016 è stata pubblicata, nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, la Direttiva (UE) 2016/943sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti” e gli Stati Membri avranno tempo fino al 9 giugno 2018 per recepirla. In ogni caso gli Stati membri avranno la facoltà di adottare una tutela più stringente del know-how, rispetto alle disposizioni “base” previste dalla Direttiva.

Nel periodo transitorio, in Italia continueranno a trovare applicazione gli artt. 98 e 99 del Codice della Proprietà intellettuale (D.lgs. n. 30/2005).

Passando all’analisi del contenuto della direttiva UE, si nota che il Legislatore comunitario ha fornito, all’articolo 2, la definizione del segreto commerciale individuandolo nelle: (i) informazioni segrete, nel senso che non sono, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione, (ii) con un valore commerciale in quanto segrete, (iii) sottoposte a misure ragionevoli a mantenerle segrete.

All’articolo 3 della Direttiva sono stabilite le condizioni in cui l’acquisizione di un segreto commerciale è da considerarsi lecita, come ad esempio quando l’informazione sia ottenuta nell’ambito di una pratica commerciale leale, o sia frutto di una scoperta o creazione indipendente o, ancora, dell’osservazione, studio, smontaggio o prova di un oggetto messo a disposizione del pubblico. Tra le ipotesi lecite anche il diritto di informazione e consultazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti.

La Direttiva (art. 4) individua le ipotesi di acquisizione, utilizzo e divulgazione illecite dei segreti commerciali, prevedendo la possibilità di attivare le tutele disciplinate nella Direttiva stessa. In linea generale, il Legislatore europeo ha ritenuto che l’acquisizione di un segreto commerciale senza il consenso del detentore è da considerarsi illecita qualora sia compiuta in uno dei seguenti modi:

a) con l’accesso non autorizzato, l’appropriazione o la copia non autorizzate di documenti, oggetti, materiali, sostanze o file elettronici sottoposti al lecito controllo del detentore del segreto commerciale, che contengono il segreto commerciale o dai quali il segreto commerciale può essere desunto;

b) con qualsiasi altra condotta che, secondo le circostanze, è considerata contraria a leali pratiche commerciali

Con riferimento, invece, alle condotte di utilizzo e divulgazione, la condotta illecita viene delineata prendendo a riferimento il soggetto agent. Quest’ultimo, infatti, dovrà soddisfare una delle condizioni previste dalla norma (art. 4 della Direttiva) tra cui l’aver acquisito il segreto illecitamente, l’aver violato un accordo di riservatezza od un obbligo contrattuale o di altra natura che impone limiti all’utilizzo del segreto commerciale.

Sono inoltre considerate illecite le condotte di chi, al momento dell’acquisizione, utilizzo o divulgazione, fosse a conoscenza o sarebbe dovuto esserlo, del fatto che l’informazione era stata precedentemente acquisita illecitamente da un terzo.

La Direttiva 2016/943 precisa ulteriormente ed espressamente che la produzione, l’offerta o la commercializzazione di merci costituenti violazione oppure l’importazione, l’esportazione o lo stoccaggio di merci costituenti violazione si considerano un utilizzo illecito di un segreto commerciale anche quando il soggetto che svolgeva tali attività era a conoscenza o, secondo le circostanze, avrebbe dovuto essere a conoscenza del fatto che il segreto commerciale era stato utilizzato illecitamente.

L’articolo 5 della Direttiva identifica invece le eccezioni all’applicazione delle misure di repressione, che sussistono qualora il presunto utilizzo del segreto commerciale sia avvenuto:

  • nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione e d’informazione;
  • per rivelare una condotta scorretta, un’irregolarità o un’attività illecita, allo scopo di proteggere l’interesse pubblico generale;
  • con la divulgazione da parte dei lavoratori ai loro rappresentanti nell’ambito del legittimo esercizio delle funzioni di questi ultimi, conformemente al diritto dell’Unione o al diritto nazionale, a condizione che la divulgazione fosse necessaria per tale esercizio;
  • al fine di tutelare un legittimo interesse riconosciuto dal diritto dell’Unione o dal diritto nazionale.

Da ultimo, analizziamo brevemente gli strumenti che sono previsti a tutela delle situazioni di illecita acquisizione, utilizzo o divulgazione.

In ordine alle misure provvisorie e cautelari (art. 10 della Direttiva), le competenti autorità giudiziarie possano ordinare, nei confronti del presunto autore della violazione:

a) la cessazione o, a seconda dei casi, il divieto di utilizzo o di divulgazione del segreto commerciale a titolo provvisorio;

b) il divieto di produzione, offerta, commercializzazione o utilizzo di merci costituenti violazione oppure di importazione, esportazione o immagazzinamento di merci costituenti violazione per perseguire tali fini;

c) il sequestro o la consegna delle merci sospettate di costituire violazione, compresi i prodotti importati, in modo da impedirne l’ingresso sul mercato o la circolazione al suo interno.

Infine, con la decisione giudiziaria che abbia accertato l’acquisizione, l’utilizzo o la divulgazione illeciti di un segreto commerciale, le competenti autorità giudiziarie possano ordinare una o più delle seguenti misure nei confronti dell’autore della violazione:

a) la cessazione o il divieto di utilizzo o di divulgazione del segreto commerciale;

b) il divieto di produzione, offerta, commercializzazione o utilizzazione di merci costituenti violazione oppure di importazione, esportazione o immagazzinamento di merci costituenti violazione per perseguire tali fini;

c) l’adozione delle opportune misure correttive per quanto riguarda le merci costituenti violazione;

d) la distruzione della totalità o di una parte dei documenti, oggetti, materiali, sostanze o file elettronici che contengono o incorporano un segreto commerciale, oppure la consegna di una parte o della totalità degli stessi.

Le misure correttive sopra citate comprendono il richiamo dal mercato delle merci costituenti violazione, l’eliminazione dalle merci costituenti violazione delle qualità che le rendono tali e la distruzione delle merci costituenti violazione.

Rimaniamo quindi in attesa di conoscere le normative che verranno emanate da ciascun Stato membro in recepimento del contenuto della Direttiva UE.

Sono molti i termini utilizzati dalle aziende per indicare e qualificare il loro impegno in progetti legati alla sostenibilità, anche coniugandola con tradizione e Made in Italy, tramite la ricerca in innovazione.

Dopo il caso del manichino eco-sostenibile, vediamo un altro caso di eccellenza italiana ‘green’, nel settore dell’abbigliamento.

Per Eurojersey, azienda specializzata in tessuti tecnici, quella che è stata l’intuizione per il miglioramento del processo produttivo è stata la scelta di non delocalizzare. Una scelta forte, non priva di lati “scomodi”, ma lungimirante, volta alla realizzazione del tessuto sul proprio territorio: tale decisione ha permesso all’azienda di prendersi cura direttamente, sia del prodotto che realizza, sia della salute del territorio stesso.

Proprio da questa scelta e filosofia produttiva sono derivati importanti vantaggi di costo che hanno portato ad un’evoluzione dei prodotti aziendali, per mezzo di una continua ricerca interna, anche in ottica di un crescente abbattimento dei costi ambientali.

In particolare, la ricerca si è tradotta nel risparmio diretto di risorse impiegate nel ciclo produttivo, nell’innovazione nella fase di stampa dei tessuti (con il metodo brevettato Eco-Print), e nel packaging dei tessuti: tutti step intrapresi ed orientati al miglioramento qualitativo delle lavorazioni, da cui è derivato un vantaggio in termini di sostenibilità.

Per rendere documentati i risultati, Eurojersey ha proceduto a certificare il processo produttivo, con la certificazione EPD (Environmental Product Declaration) che permette di quantificare l’emissione di Co2 per mq di tessuto prodotto.

Una rete forte e una filiera corta: la giacca a basso impatto

Le leve strategiche del caso Eurojersey sono state il Made in Italy, il ricorso alla filiera corta e l’utilizzo del contratto di rete tra imprese. Credendo in questo, è nata una partnership con RadiciGroup, importante realtà italiana nella produzione di nylon, ed Herno S.p.A., azienda specializzata nell’urban outerwear di qualità.

Dalla sinergia fra queste tre eccellenze italiane prende avvio uno studio per la produzione di una giacca dall’impatto ambientale certificato, primo e unico studio scientifico in Europa di sostenibilità su un capo moda, che si traduce in una giacca 100% Made ‘green’ in Italy.

Il punto di partenza è stata la metodologia PEF (Product Environmental Footprint), introdotta nell’UE attraverso la Raccomandazione 2013/179/CE, che tiene in considerazione 16 parametri – tra cui il consumo di energia primaria, gli effetti cancerogeni sull’uomo, l’utilizzo del suolo, quello dell’acqua, e molti altri – per determinare l’impronta ambientale dei prodotti e stabilire la conformità con lo schema nazionale volontario per l’etichettatura “Made Green in Italy”[1].

L’obiettivo dello studio, che ha portato alla realizzazione del capo, è stato quello di valutare l’impatto ambientale di una giacca da uomo lungo tutte le fasi del suo processo produttivo, dal filo al tessuto, fino al confezionamento del capo pronto, interamente realizzato in Italia.

Il monitoraggio dell’impronta ambientale ha avuto come oggetto nello specifico:

  • Il consumo di energia primaria
  • I cambiamenti climatici
  • La riduzione dello strato di ozono
  • L’acidificazione
  • L’eutrofizzazione acquatica, marina e terrestre
  • Gli effetti cancerogeni sull’uomo
  • Altra tossicità non cancerogena sull’uomo
  • La tossicità sull’ambiente (ecotossicità)
  • L’emissione di polveri sottili
  • Le radiazioni iodizzanti
  • L’utilizzo del suolo
  • L’impoverimento delle risorse minerali, fossili e rinnovabili
  • L’impoverimento delle risorse idriche.

La giacca ‘green’ è stata presentata nel corso dell’ultima edizione di Pitti Immagine Uomo all’interno della collezione primavera-estate 2017.

Il capo, realizzato con filati del Gruppo Radici e tessuti Sensitive® Fabrics by Eurojersey, ha consentito una riduzione dell’utilizzo delle risorse idriche, con parametri inferiori allo 0,4%: un traguardo importantissimo se confrontato con l’indicatore riferito ai consumi medi annui di un cittadino europeo.

Il progetto è proseguito con una valutazione “parallela” dell’impatto della produzione dello stesso capo, realizzato però con una modalità alternativa rispetto al suo confezionamento in filiera corta. L’esperimento ha evidenziato dei valori di emissioni di Co2 pari al 92% in più rispetto alla produzione in Italia!

Complessivamente, il costo per l’ambiente della giacca prodotta all’estero è stato di 5,22 €, contro gli 1,97 € del costo per la produzione dello stesso capo in Italia. Il modello “a filiera lunga” sarà anche meno oneroso in termini di costi diretti per la produzione di capi di abbigliamento, ma ha un costo per l’eco-sistema del 165% in più.

[1] In tema di costi ambientali, si richiama anche la legge italiana del 28 dicembre 2015 n. 221, che disciplina le disposizioni in materia ambientale per la promozione di misure di green economy e il contingentamento dell’uso eccessivo di risorse naturali, con particolare riferimento all’art. 21.

I consumatori rivendicano sempre più il diritto di controllare le fasi dei processi produttivi aziendali, per ottenere una sempre maggiore trasparenza e qualità del prodotto finale

Negli ultimi anni, i consumatori sono sempre più attenti ad aspetti che esulano dal semplice prezzo del bene e dalla sua qualità. L’opinione pubblica, oramai, sembra non accettare più che alcuni temi restino di dominio esclusivo della politica (quali il rispetto ambientale, la tutela di alcuni prodotti e tradizioni tipiche, il rispetto dei diritti umani inalienabili) di conseguenza ha cominciato a far pressione sulle imprese affinché queste inizino ad assumersi le proprie responsabilità non solo nei confronti dello sviluppo ambientale sostenibile, ma anche in relazione ai diritti umani sia dei propri dipendenti, sia di coloro che hanno a che fare – anche indirettamente – con tali organizzazioni. I consumatori infatti si interessano a tematiche quali il rispetto dell’ambiente, l’utilizzo di sostanze biodegradabili, lo sfruttamento del lavoro minorile, il rispetto dei dipendenti, il ricorso di punizioni corporali o multe verso i lavoratori. Questa tendenza sempre più marcata ed esplicita si sta facendo sempre più strada nella coscienza dei consumatori al punto che gli imprenditori non possono più non tenerne conto. È opportuno sottolineare che tutte le principali conquiste sociali finora acquisite sono il frutto di lunghe e  d intense battaglie da parte di quell’opinione pubblica maggiormente sensibile a particolari argomenti. Nel corso degli anni, sono sempre stati i consumatori ad essere una leva di cambiamento per le imprese: basti pensare alla certificazione qualità (ISO 9001) nata per garantire il consumatore finale sulla qualità di un prodotto o di un servizio. Oppure alla più recente certificazione ambientale (ISO 14001), sviluppata per monitorare le gestioni ambientali nell’impresa.

L’impresa “etica”

Da qualche anno, i consumatori si stanno chiedendo cosa si cela dietro la marca dei prodotti che comprano. Domande come “i miei vestiti o i cosmetici che compro sono costruiti in un’officina malfamata? Le mie scarpe sono fabbricate utilizzando lo sfruttamento di minori? Il mio ristorante preferito discrimina contro le donne e le minoranze?” sono sempre più frequenti. Ultimamente, si sta facendo sempre più strada nell’opinione pubblica una particolare attenzione etica verso il prodotto da acquistare. Ma, concretamente, cosa significa essere un’impresa eticamente a posto? Un’azienda che fa lavorare bambini con meno di quattordici anni o, addirittura, di nove (secondo l’UNICEF sono 250 milioni i minori che lavorano nel mondo; più di 500 mila in Italia, secondo dati di ISTAT), un datore di lavoro che infligge ai suoi dipendenti punizioni corporali o violenze psicologiche o, quantomeno, li copre di insulti, un imprenditore che costringe i suoi operai a lavorare più di 60 ore settimanali, un altro che non concede neppure un giorno di riposo su sette, non si possono definire certo condotte eticamente corrette. Cosa pensereste di un’azienda responsabile di uno o più di questi comportamenti? Comprereste ancora i suoi prodotti, magari allettati da un prezzo più basso? Oramai, buona parte dei consumatori responsabili ricercano sempre maggiori informazioni di questo tipo sul prodotto acquistato, non s’accontentano più di prodotti qualitativamente buoni e che rispettino l’ambiente, ma vogliono – anzi pretendono – che chi li ha realizzati assicuri loro d’aver rispettato almeno i principi basilari dei diritti umani riconosciuti.

A questo punto, però, si presenta un altro interrogativo: chi garantisce che quanto dice l’azienda risponda a verità? È sufficiente una scritta sul pallone o sul vestito ad assicurare il mancato sfruttamento di lavoro minorile? Sembra proprio di no: alcune ricerche hanno messo in luce che le aziende, “mettendo in atto politiche di impegno sociale soltanto per fini economici, cioè strumentalizzando comportamenti di apparente disponibilità e impegno, restano ancorate alla vecchia contrapposizione di interessi tra impresa e consumatore” e quindi “non sono ancora riuscite a realizzare un salto radicale nella comunicazione con i propri stakeholder, ed in particolare con i consumatori”[1]. L’autocertificazione, evidentemente, non basta. È necessario, quindi, un ente esterno ed indipendente all’impresa che assicuri, monitori e verifichi il raggiungimento di standard etici prefissati. Questo problema della tutela dei lavoratori, minorenni o adulti che siano, non è certo un’esclusiva del Terzo mondo. Basti pensare a tutti i laboratori più o meno clandestini scoperti nell’ultimo decennio in Italia (e non solo nel meridione) in cui giovanissimi (soprattutto ragazzine) erano costretti a lavorare con orari massacranti e retribuzioni da fame.

Se l’obiettivo principale dell’imprenditore è spendere il meno possibile, una strategia usata per raggiungere tale obiettivo è risparmiare sugli operai, magari assumendo soggetti “deboli” (giovani, donne, bambini e bambine). Di solito, al “primo livello di subappalto è difficile riscontrare irregolarità vistose ed ‘eccessi’ nello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, anche perché è più semplice il monitoraggio. Al secondo livello (in cui si effettuano le lavorazioni di alcune parti del prodotto finito), invece, essendo più difficile effettuare un controllo accurato, è più probabile che si verifichino delle irregolarità.

I requisiti per ottenere la certificazione

 Il tentativo di fornire una certificazione ‘etica’ alle aziende che rispettano gli standard sociali riconosciuti si è concretizzato col marchio SA 8000, che riprende lo stesso criterio della certificazione a norma ISO 9000. Dopo indagini accurate, le imprese che rispondono ai requisiti etici prestabiliti otterrebbero la certificazione, acquisendo così il diritto d’apporre sulla propria merce un marchio riconoscibile dal consumatore. Quest’ultimo avrà così la garanzia che un organismo esterno ed indipendente all’azienda avrà controllato – e continuerà a monitorare periodicamente – il comportamento dell’impresa. Proprio come la certificazione ISO 9001, quella etica estende i suoi effetti non solo ai produttori, ma agisce anche a monte, sui fornitori. Prima di essere produttori, infatti, le imprese sono acquirenti di beni realizzati da altri, per cui un’azienda certificata a livello etico dovrà controllare anche i propri acquisti, imponendo così ai fornitori lo stesso rispetto delle regole etiche a lei richieste. Ma quali sono questi ‘requisiti etici’ da rispettare? Innanzitutto va specificato che per ottenere la certificazione ‘etica’ le imprese devono rispondere ad una serie di requisiti minimi individuati dall’Agenzia di Accreditamento creata dal Council on Economic Priorities (CEPAA). Questi ‘requisiti etici’ sono basati principalmente sui modelli dei diritti umani internazionali già esistenti, quali la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione dei Diritti del Bambino e le varie Convenzioni dell’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) riguardo la regolamentazione del lavoro (minorile e non). La certificazione SA 8000 è, come già accennato, costruita sui meriti provati delle tecniche di verifica ISO, in cui si specificano azioni correttive e preventive, s’incoraggiano continui miglioramenti e ci si concentra sui sistemi di gestione e di documentazione aziendali che forniscono a questi sistemi efficacia. Una particolarità rispetto a tutti gli altri standard previsti dai sistemi di certificazione, è il ruolo previsto per le Organizzazioni Non Governative ed i Sindacati del Paese in cui l’impresa ha le sue fabbriche: è insieme con loro che vengono espletate le procedure di accreditamento che devono tenere conto delle particolarità locali. A queste organizzazioni, inoltre, è riconosciuto il diritto di denunciare il mancato rispetto delle regole previste dal protocollo. Se le accuse sono fondate, la certificazione può essere revocata.[2]

Gli standard di riferimento

La certificazione etica SA8000 fornisce degli standard trasparenti, misurabili e verificabili in nove aree essenziali:

lavoro minorile: ovviamente è proibito il lavoro dei minori al di sotto dei quindici anni e qualora l’azienda se ne fosse avvalsa in passato deve impegnarsi a riparare garantendo ai bambini la possibilità di poter partecipare a programmi di recupero. Inoltre, le imprese certificate devono disporre un fondo per l’educazione dei minori che potrebbero perdere il lavoro a causa dell’osservazione di questi standard;

lavoro forzato: anch’esso è proibito. Ai lavoratori non può essere richiesto di cedere i propri documenti o di pagare un “acconto” come condizione per lavorare;

salute e sicurezza: le imprese devono rispettare gli standard minimi per un ambiente di lavoro sicuro e salubre, includendo in ciò almeno l’accesso all’acqua potabile, una stanza in cui riposarsi, un equipaggiamento di sicurezza adeguato e la formazione necessaria per svolgere il lavoro;

libertà di associazione: deve essere garantito il diritto di formare ed unirsi in un sindacato a scelta e di poter richiedere un contratto collettivo, senza che ciò generi ritorsioni o intimidazioni verso i lavoratori;

discriminazione: non si devono verificare discriminazioni razziali, di casta, di nazionalità, religione, genere, disabilità, orientamento sessuale, d’appartenenza sindacale o politico;

pratiche disciplinari: sono proibite, ovviamente, le punizioni corporali, la coercizione fisica come quella mentale, le multe e l’ingiuria nei confronti dei lavoratori;

orario di lavoro: si possono fare al massimo 48 ore settimanali, con (minimo) un giorno di riposo alla settimana. Gli straordinari, se previsti, non possono superare le 12 ore settimanali e vanno retribuiti con una tariffa speciale;

salario: deve rispettare tutti gli standard minimi legali locali e fornire una rendita sufficiente per coprire almeno i bisogni primari, se non qualcosa in più;

sistema organizzativo: le imprese devono nominare un rappresentante responsabile della politica aziendale, pianificare ed eseguire i controlli richiesti, selezionare i fornitori rispetto alla loro conformità agli standard etici, realizzare le azioni correttive necessarie per la certificazione etica, rendersi disponibili alle verifiche mostrando la documentazione ed i registri necessari.

Dal punto di vista di un’impresa, quanto conviene richiedere la certificazione etica? È veramente un vantaggio avere anche questo certificato oppure rimane solo un ulteriore onere? E, soprattutto, quali sono poi i benefici che otterrebbe da questa certificazione? A parte l’adesione morale a questi principi etici (che gran parte degli imprenditori probabilmente condividerà), al momento della scelta – se aderire o meno a questa certificazione – inevitabilmente emergeranno dubbi e perplessità. Il rischio reale che si presenta nel vaglio delle possibilità (aderire o non aderire?) è di progettare il proprio futuro imprenditoriale – e quindi i relativi investimenti – con una concezione del profitto a breve termine, legato al vantaggio immediato. A causa della pressante concorrenza e del ruolo che l’immagine aziendale gioca per i consumatori, è necessario, oramai, avere una concezione strategica del profitto – e quindi degli investimenti necessari per realizzarlo – per poter rimanere nel mercato. In queste nuove coordinate d’analisi l’ottica a lungo termine diventa vincente e, quindi, concetti quali credibilità, immagine aziendale, visibilità pubblica, impegno ambientale, responsabilità sociale ed etica, assumono connotati nuovi e primari, sia nell’ottica dei consumatori che degli investitori. È opportuno considerare che queste osservazioni hanno valore sia per le multinazionali, sia per le piccole-medie imprese le quali dovranno confrontarsi sempre più spesso con le prime. In questa situazione concorrenziale sarà sempre più importante – se non strategico – l’immagine sociale, che l’azienda riuscirà ad offrire all’opinione pubblica. Se questa verrà gestita ad un livello pari all’improvvisazione, probabilmente i risultati faranno riferimento prevalentemente al caso. Diversamente, se l’impresa gestirà attivamente la propria immagine consapevole non solo dei possibili rischi, ma, soprattutto, delle eventuali occasioni legate al mercato, si otterrà un ritorno d’immagine più corrispondente ai risultati desiderati. A questo punto è essenziale domandarsi: è possibile stimare in termini economici un crollo d’immagine? Ed un possibile rialzo?

[1] M. Crivellaro, G. Vecchiato, F. Scalco – Sostenibilità e rischio greenwashing, 2012

[2] Come chiarito nel SA8000:2014 Standard, al punto 22. Stakeholder engagement, sa-intl.org

Da quando i cicli della moda si sono sempre più ridotti, l’industria del fashion, per tenersi al passo con la domanda, ha adottato tecniche di produzione con effetti nefasti sull’ambiente, al punto da compromettere le pratiche ambientali per la sostenibilità.
Negli ultimi decenni l’incremento dei ritmi produttivi e di comportamento della domanda, con produzioni sempre più low-cost, e acquisti sempre più compulsivi, hanno generato un fenomeno di “fast fashion”, con produzione di collezioni sempre più frequente, moltiplicazione delle “stagioni della moda” proposte annualmente, sempre più consistenti rispetto al passato. Per avere un’idea, si stima che oggi si producano oltre il 400% di capi moda in più rispetto a 20 anni fa; articoli che per lo più restano inutilizzati, e gettati a tonnellate, diventando rifiuti ben prima della fine della loro vita utile, spesso ancor prima del suo inizio. Lo spreco la fa da padrone.

Con l’aumentare del ritmo dei cicli della moda, l’industria ha preso ad adottare tecniche di produzione sempre meno sostenibili, per poter mantenere margini adeguati ai vincoli di domanda e offerta da ottemperare.

Dal lato della domanda, però, i consumatori si stanno dimostrando sempre più sensibili rispetto alle tematiche ambientali, e richiedono che le aziende lo dimostrino. Con azioni concrete e verificabili.

Per agire alla radice della questione occorrono azioni che partono dall’interno del settore. Deve esserci un cambio di rotta dall’origine dalla questione, insomma,       e in senso culturale.

Fra le iniziative per la diffusione di una cultura d’impresa orientata alla sostenibilità, ce n’è una che affronta il tema della moda responsabile sotto la lente delle sue molteplici sfaccettature.

Un corso che insegna a fare moda responsabile

Out of fashion, corso di formazione sulla cultura della moda sostenibile, etica e innovativa, ideato dall’agenzia di ricerca Connecting Cultures e giunto alla sua terza edizione, che prenderà avvio dal prossimo gennaio. Sei masterclass tratteranno come dei moduli tematici gli argomenti della sostenibilità nel settore della moda, dell’arte, dell’etica, della produzione, della comunicazione e dell’economia.

Il corso non si rivolge solo a giovani professionisti interessati ad avviare un’attività o a lanciare il proprio marchio nell’ambito della moda sostenibile, ma anche agli operatori già attivi nel settore e che desiderano ampliare ed approfondire le proprie conoscenze in vari campi della sostenibilità nel settore dell’industria tessile, del design e della moda in generale, oltre a chiunque a cui interessi una formazione culturale nel conscious fashion.

L’iniziativa permetterà a un gruppo di professionisti ed interessati al settore di trovarsi assieme, permettendo di aumentare lo scambio di conoscenze sul tema e creare un network di figure specializzate nel settore, esperti e operatori accomunati dall’interesse per la sostenibilità, che in seguito potranno collaborare alla realizzazione di progetti.

Visione progettuale

E’ proprio la visione progettuale e culturale del sistema moda fondate sui criteri dell’innovazione e della sostenibilità, a cui risponde l’iniziativa di Out of fashion.

La struttura modulare in cui è stato articolato il corso permette ai partecipanti di scegliere le materie maggiormente di loro interesse.

Il corso prevede la partecipazione a tre o più dei sei moduli proposti, con l’opzione finale di accedere al programma gratuito di pre-incubazione di impresa.

In questo modo, attraverso un programma completo di formazione ma anche specifico sui temi affrontati, i partecipanti avranno la possibilità anche di apprendere il percorso di avvio di una start-up propria nell’ambito della moda sostenibile ed innovativa.

I moduli di Out of fashion

I contenuti della prima parte del percorso formativo è diviso nei seguenti moduli tematici di approfondimento:

  1. Green fashion: materiali e impatto ambientale
  2. Ethically made?
  3. Moda tra arte e design
  4. Il sistema dei makers
  5. Alto artigianato e innovazione
  6. Comunicare la moda e il brand

I temi della moda sostenibile vengono quindi affrontati sotto molteplici aspetti e sfaccettature, in modo approfondito ma puntuale, utili focus rivolti a specifici target di operatori del settore, con un rilievo per temi di attualità pratica e strategica: i materiali e il loro impatto sull’ambiente, le innovazioni tecnologiche nel comparto tessile, il rapporto simbiotico e creativo tra arte e moda. Alla base di questi aspetti pratici, saranno discussi i valori etici implicati nella filiera, come responsabilità ambientale e giustizia sociale.

Lezioni e workshop saranno poi focalizzate su ambiti operativi quali: auto-produzione e Fab-Lab, globalizzazione del sistema della moda, l’alto artigianato e il recupero della tradizione, le innovazioni e le nuove tendenze, la comunicazione e le relazioni con il consumatore.

Il corso di pre-incubazione di impresa

Al termine dei moduli tematici è previsto, come opzione, un percorso di avvio di impresa, consistente in un vero e proprio corso di pre-incubazione di impresa, con il supporto di CNA Milano Monza Brianza, focalizzato sulla fase di costituzione di start-up. In concreto, dunque, i partecipanti potranno sviluppare una propria idea di business, e concretizzarla muovendo i primi passi verso l’inizio di un’attività economica indipendente nel settore della moda, sostenibile.

Presupposto di una simile iniziativa risiede nella consapevolezza che il futuro della moda si basi su un approccio etico e responsabile, per cui si ritiene che la consapevolezza, la comprensione e l’aggiornamento professionale sul tema della moda sostenibile costituiranno sempre più un vantaggio competitivo per tutti coloro che operano nel settore della moda in vari ambiti funzionali: dai designer ai produttori, dai distributori a chi si occupa di comunicare la moda, sotto diversi profili: giornalistico, web e digitale, aziendale.

A questo indirizzo web si possono trovare maggiori informazioni sull’iniziativa, per iscriversi alla quale c’è tempo fino all’8 gennaio p.v.

Fra gli strumenti di promozione del brand, i concorsi a premi rappresentano uno dei metodi più efficaci, in virtù della loro attitudine a coinvolgere in parte attiva e in modo diretto i partecipanti, siano essi clienti già affezionati o potenziali.

In genere chi aderisce a un’iniziativa a premi, si fa coinvolgere con entusiasmo e dinamismo, facendosi partecipe di un meccanismo di ingaggio con l’azienda ed il brand, in cui determinante è l’elemento di competizione ludica.  Il concorso a premi, proprio per la dimensione di gioco e sfida, crea un clima di entusiasmo collettivo e partecipazione attorno all’azienda, alla sua storia e valori, ai suoi prodotti e al marchio, di cui si imprime facilmente in chi vi prende parte un ricordo piacevole. Non meno importante, anche il meccanismo di passaparola che si può generarsi con l’avvio di una simile iniziativa, e la sua impronta virale come strumento di pubblicità risulta un mezzo di promozione dei più efficaci. La possibilità di vincere è un argomento di vendita molto efficace. Molto spesso dà al cliente lo stimolo a provare un prodotto nuovo, a cui poi si lega. Anche i clienti abituali gradiranno l’iniziativa, stringendo un legame col brand ancora più forte.

Vediamo in concreto come si organizza un concorso a premi, a norma di legge.

Si può avviare una iniziativa di gioco a premi seguendo la prassi che il  Ministero dello Sviluppo Economico ha predisposto “ad hoc”, istituendo il portale dedicato “PREMA”, attraverso il quale eroga il servizio integrato alle imprese per la gestione dei concorsi e delle manifestazioni a premio[1].

Vediamo in dettaglio le operazioni da seguire.

Innanzitutto bisogna preliminarmente dotarsi di:

  1. Firma digitale del rappresentante legale dell’azienda.
  1. Una casella di posta elettronica.
  1. Un regolamento scritto.

In questo regolamento va indicato con precisione:

  • il nome del concorso;
  • chi è il soggetto promotore (cioè l’azienda);
  • la durata del concorso (che non deve essere superiore ai 12 mesi) indicando, specificando: data di inizio, data di fine e data dell’estrazione dei vincitori dei premi; l’ambito territoriale (ovvero l’area in cui promuoverai il concorso); l’entità del premio ed il suo valore commerciale (montepremi); i soggetti destinatari del concorso; le modalità di svolgimento e di estrazione; eventuali soggetti esclusi dall’iniziativa; si deve inoltre dare indicazione delle società beneficiarie di eventuali premi non assegnati, ed ulteriori eventuali clausole per mettere in chiaro adempimenti e garanzie.
  1. Un deposito a cauzione sul montepremi 

La procedura prevista dal Ministero impone, a titolo di garanzia verso i vincitori, che il soggetto che promuove un concorso a premi depositi una somma pari all’importo del totale del montepremi o in alternativa, presenti una fidejussione a copertura della stessa somma a valere per un periodo di almeno un anno dalla data di conclusione dell’iniziativa (estrazione finale). Si può richiedere la fidejussione presso una banca o una compagnia di assicurativa. La fidejussione, oltre ad indicare che è emessa con finalità di garanzia relativamente alla organizzazione di un concorso a premi, deve essere firmata con autenticazione bollata.

Una volta ci si sia dotati di questi quattro elementi, si può inviare una richiesta di attivazione della iniziativa di organizzazione del concorso a premi, connettendosi al portale www.impresa.gov.it, dal quale, accedendo all’area “Manifestazioni a premio”, sarà possibile visualizzare e selezionare la documentazione e modulistica relativa, in particolare:

  • “Comunicazione di svolgimento di concorso a premio”
  • “Comunicazione di chiusura di concorso a premio”
  • “Comunicazione di cauzione prestata per operazioni a premio”

Nel momento in cui ci si connette al portale, è richiesta autenticazione tramite firma digitale, che consentirà di connettersi in modalità sicura, e operare come utenti registrati, accedendo alle funzionalità previste, fra cui la compilazione ed invio dei predetti moduli necessari all’organizzazione di un’iniziativa a premio.

La domanda di avvio di un concorso a premi “MODULO CO/1: Comunicazione di svolgimento di concorso a premio” consiste nella compilazione di uno specifico modulo online, composto di una decina di schede di compilazione, al quale infine viene richiesto di allegare il regolamento unitamente a copia della fidejussione (di entrambi i documenti conviene disporre di formati .pfd pronti per essere inviati, al momento in cui si compila la domanda).

La domanda va trasmessa in ogni caso almeno 15 giorni prima della data di avvio dell’iniziativa. A inoltro della domanda effettuato, si riceve una comunicazione all’indirizzo e-mail fornito durante la compilazione, a conferma dell’inserimento della domanda e dei dati forniti, verificati i quali, il concorso può avviarsi secondo le modalità previste.

[1] Dal 25 gennaio 2011, in ottemperanza al decreto interdirigenziale (Ministero Sviluppo Economico – Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato) del 5 luglio 2010 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 172 del 26 luglio 2010) le imprese promotrici di concorsi e operazioni a premio sono obbligate a trasmettere la documentazione prevista dal d.P.R. 26 ottobre 2001, n. 430, esclusivamente attraverso il servizio telematico “Prema online”.

In questo articolo, già apparso sul portale della rivista specializzata Detergo, affrontiamo un argomento di interesse quotidiano quando si tratta di cura dei tessuti: la detersione dei capi con la modalità “a secco”, ampiamente utilizzata perché risulta pratica come alternativa al classico lavaggio “ad umido”, ed in particolare per alcuni tipi di fibre, come ad esempio quelle che non sopportano il contatto con l’acqua.

Sicuramente al giorno d’oggi è assodato che il lavaggio a secco è una valida alternativa al lavaggio “classico” ad umido che tutti noi utilizziamo nell’ambito domestico e non. La rimozione dello sporco dagli indumenti ed altri prodotti tessili infatti la possiamo attuare attraverso queste due vie tra loro alternative, ma tradizionali in quanto a storicità d’uso.

Le due modalità si distinguono fondamentalmente per l’utilizzo o meno dell’acqua come mezzo di pulitura, dato che comunque un detergente è possibile utilizzarlo in entrambi i casi. Nello specifico di questo articolo approfondiremo in parte l’aspetto igienico dell’azione del lavaggio a secco rispetto al lavaggio ad umido.

E’ fuor di dubbio la grande capacità del percloroetilene (o tetracloroetene, o anche tetracloroetilene) di allontanare lo sporco dal capo trattato sfruttando una semplice legge chimica per cui “ogni simile scioglie il suo simile” ed è per questo motivo che, nonostante l’attenzione che richiede il suo impiego e le recenti indagini sulla sua pericolosità per l’uomo, ne hanno fatto per decenni e ne fanno, il solvente ideale per questo tipo di pulitura nel tessile. Ma quali sono le conoscenze in merito alla possibile azione battericida data dal percloroetilene?

Per quanto riguarda il lavaggio per via umida è oramai dato certo che, combinando l’azione antibatterica congiunta della temperatura (a partire da 40°C) a quella di un detergente con composti ad azione battericida all’interno, è possibile ottenere un elevato standard igienico sanitario.

Test scientifici sono stati effettuati in passato sin dagli anni Venti del secolo scorso[1], ma i risultati più certi e accreditati risalgono agli anni Sessanta[2], anni in cui lo sviluppo post bellico era in piena espansione e molti istituti di ricerca erano dediti a studi di carattere scientifico applicativo relativamente alle scoperte di allora. Anche il lavaggio a secco ed il percloroetilene sono stati protagonisti di questi lavori e i risultati furono sorprendenti per gli studi dell’epoca. L’azione meccanica di lavaggio, unita alle proprietà chimiche del prodotto utilizzato, dimostrarono una buona azione antibatterica del solvente che risultò efficace e competitivo nei confronti di altri solventi, sempre di matrice organica, e derivati dal petrolio utilizzati nei test di verifica. Dati alla mano dimostrarono un abbattimento della carica batterica presente fino all’ 80%.

Un potenziamento di questa efficacia si dimostrò con la combinazione detergente-solvente che permise di abbattere la carica batterica eliminando un più vasto campione di specie batteriche.

E’ innegabile come il problema dell’igiene dei capi stia tornando sempre più di attualità anche in funzione della delocalizzazione delle produzioni tessili in aree del mondo in cui, per cultura e/o necessità, le condizioni igieniche non sono paragonabili a quelle del continente Europa.

E’ caso recente, ad esempio, come irritazioni cutanee siano state lamentate da consumatori a seguito dell’indosso di capi: a causare il disturbo è stata riscontrata la presenza sull’epidermide di punture ad opera di parassiti (a lato la foto di deposizione di uova di parassiti sulle fibre del capo in analisi per conferma).

Oggi in virtù di un miglioramento della tecnologia di settore e di una sempre maggiore raffinazione del processo di produzione del prodotto, è da chiedersi se non sarebbero opportuni ulteriori studi di settore per verificare se non si possa aspirare ad un aumento di efficacia igienico sanitaria per il lavaggio a secco.

[1] “The bacterial action of dry cleaning” – Lloyd E. Jackson – Mellon Institute of Industrial Research, University of Pittsburgh.

[2] “Microbiology of Drycleaning” – Robert R. Banville and Ethel McNeil – U.S. Department of Agriculture, Washington, D.C.