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Perchè le imprese dovrebbero certificarsi SA8000

I consumatori rivendicano sempre più il diritto di controllare le fasi dei processi produttivi aziendali, per ottenere una sempre maggiore trasparenza e qualità del prodotto finale

Negli ultimi anni, i consumatori sono sempre più attenti ad aspetti che esulano dal semplice prezzo del bene e dalla sua qualità. L’opinione pubblica, oramai, sembra non accettare più che alcuni temi restino di dominio esclusivo della politica (quali il rispetto ambientale, la tutela di alcuni prodotti e tradizioni tipiche, il rispetto dei diritti umani inalienabili) di conseguenza ha cominciato a far pressione sulle imprese affinché queste inizino ad assumersi le proprie responsabilità non solo nei confronti dello sviluppo ambientale sostenibile, ma anche in relazione ai diritti umani sia dei propri dipendenti, sia di coloro che hanno a che fare – anche indirettamente – con tali organizzazioni. I consumatori infatti si interessano a tematiche quali il rispetto dell’ambiente, l’utilizzo di sostanze biodegradabili, lo sfruttamento del lavoro minorile, il rispetto dei dipendenti, il ricorso di punizioni corporali o multe verso i lavoratori. Questa tendenza sempre più marcata ed esplicita si sta facendo sempre più strada nella coscienza dei consumatori al punto che gli imprenditori non possono più non tenerne conto. È opportuno sottolineare che tutte le principali conquiste sociali finora acquisite sono il frutto di lunghe e  d intense battaglie da parte di quell’opinione pubblica maggiormente sensibile a particolari argomenti. Nel corso degli anni, sono sempre stati i consumatori ad essere una leva di cambiamento per le imprese: basti pensare alla certificazione qualità (ISO 9001) nata per garantire il consumatore finale sulla qualità di un prodotto o di un servizio. Oppure alla più recente certificazione ambientale (ISO 14001), sviluppata per monitorare le gestioni ambientali nell’impresa.

L’impresa “etica”

Da qualche anno, i consumatori si stanno chiedendo cosa si cela dietro la marca dei prodotti che comprano. Domande come “i miei vestiti o i cosmetici che compro sono costruiti in un’officina malfamata? Le mie scarpe sono fabbricate utilizzando lo sfruttamento di minori? Il mio ristorante preferito discrimina contro le donne e le minoranze?” sono sempre più frequenti. Ultimamente, si sta facendo sempre più strada nell’opinione pubblica una particolare attenzione etica verso il prodotto da acquistare. Ma, concretamente, cosa significa essere un’impresa eticamente a posto? Un’azienda che fa lavorare bambini con meno di quattordici anni o, addirittura, di nove (secondo l’UNICEF sono 250 milioni i minori che lavorano nel mondo; più di 500 mila in Italia, secondo dati di ISTAT), un datore di lavoro che infligge ai suoi dipendenti punizioni corporali o violenze psicologiche o, quantomeno, li copre di insulti, un imprenditore che costringe i suoi operai a lavorare più di 60 ore settimanali, un altro che non concede neppure un giorno di riposo su sette, non si possono definire certo condotte eticamente corrette. Cosa pensereste di un’azienda responsabile di uno o più di questi comportamenti? Comprereste ancora i suoi prodotti, magari allettati da un prezzo più basso? Oramai, buona parte dei consumatori responsabili ricercano sempre maggiori informazioni di questo tipo sul prodotto acquistato, non s’accontentano più di prodotti qualitativamente buoni e che rispettino l’ambiente, ma vogliono – anzi pretendono – che chi li ha realizzati assicuri loro d’aver rispettato almeno i principi basilari dei diritti umani riconosciuti.

A questo punto, però, si presenta un altro interrogativo: chi garantisce che quanto dice l’azienda risponda a verità? È sufficiente una scritta sul pallone o sul vestito ad assicurare il mancato sfruttamento di lavoro minorile? Sembra proprio di no: alcune ricerche hanno messo in luce che le aziende, “mettendo in atto politiche di impegno sociale soltanto per fini economici, cioè strumentalizzando comportamenti di apparente disponibilità e impegno, restano ancorate alla vecchia contrapposizione di interessi tra impresa e consumatore” e quindi “non sono ancora riuscite a realizzare un salto radicale nella comunicazione con i propri stakeholder, ed in particolare con i consumatori”[1]. L’autocertificazione, evidentemente, non basta. È necessario, quindi, un ente esterno ed indipendente all’impresa che assicuri, monitori e verifichi il raggiungimento di standard etici prefissati. Questo problema della tutela dei lavoratori, minorenni o adulti che siano, non è certo un’esclusiva del Terzo mondo. Basti pensare a tutti i laboratori più o meno clandestini scoperti nell’ultimo decennio in Italia (e non solo nel meridione) in cui giovanissimi (soprattutto ragazzine) erano costretti a lavorare con orari massacranti e retribuzioni da fame.

Se l’obiettivo principale dell’imprenditore è spendere il meno possibile, una strategia usata per raggiungere tale obiettivo è risparmiare sugli operai, magari assumendo soggetti “deboli” (giovani, donne, bambini e bambine). Di solito, al “primo livello di subappalto è difficile riscontrare irregolarità vistose ed ‘eccessi’ nello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, anche perché è più semplice il monitoraggio. Al secondo livello (in cui si effettuano le lavorazioni di alcune parti del prodotto finito), invece, essendo più difficile effettuare un controllo accurato, è più probabile che si verifichino delle irregolarità.

I requisiti per ottenere la certificazione

 Il tentativo di fornire una certificazione ‘etica’ alle aziende che rispettano gli standard sociali riconosciuti si è concretizzato col marchio SA 8000, che riprende lo stesso criterio della certificazione a norma ISO 9000. Dopo indagini accurate, le imprese che rispondono ai requisiti etici prestabiliti otterrebbero la certificazione, acquisendo così il diritto d’apporre sulla propria merce un marchio riconoscibile dal consumatore. Quest’ultimo avrà così la garanzia che un organismo esterno ed indipendente all’azienda avrà controllato – e continuerà a monitorare periodicamente – il comportamento dell’impresa. Proprio come la certificazione ISO 9001, quella etica estende i suoi effetti non solo ai produttori, ma agisce anche a monte, sui fornitori. Prima di essere produttori, infatti, le imprese sono acquirenti di beni realizzati da altri, per cui un’azienda certificata a livello etico dovrà controllare anche i propri acquisti, imponendo così ai fornitori lo stesso rispetto delle regole etiche a lei richieste. Ma quali sono questi ‘requisiti etici’ da rispettare? Innanzitutto va specificato che per ottenere la certificazione ‘etica’ le imprese devono rispondere ad una serie di requisiti minimi individuati dall’Agenzia di Accreditamento creata dal Council on Economic Priorities (CEPAA). Questi ‘requisiti etici’ sono basati principalmente sui modelli dei diritti umani internazionali già esistenti, quali la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione dei Diritti del Bambino e le varie Convenzioni dell’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) riguardo la regolamentazione del lavoro (minorile e non). La certificazione SA 8000 è, come già accennato, costruita sui meriti provati delle tecniche di verifica ISO, in cui si specificano azioni correttive e preventive, s’incoraggiano continui miglioramenti e ci si concentra sui sistemi di gestione e di documentazione aziendali che forniscono a questi sistemi efficacia. Una particolarità rispetto a tutti gli altri standard previsti dai sistemi di certificazione, è il ruolo previsto per le Organizzazioni Non Governative ed i Sindacati del Paese in cui l’impresa ha le sue fabbriche: è insieme con loro che vengono espletate le procedure di accreditamento che devono tenere conto delle particolarità locali. A queste organizzazioni, inoltre, è riconosciuto il diritto di denunciare il mancato rispetto delle regole previste dal protocollo. Se le accuse sono fondate, la certificazione può essere revocata.[2]

Gli standard di riferimento

La certificazione etica SA8000 fornisce degli standard trasparenti, misurabili e verificabili in nove aree essenziali:

lavoro minorile: ovviamente è proibito il lavoro dei minori al di sotto dei quindici anni e qualora l’azienda se ne fosse avvalsa in passato deve impegnarsi a riparare garantendo ai bambini la possibilità di poter partecipare a programmi di recupero. Inoltre, le imprese certificate devono disporre un fondo per l’educazione dei minori che potrebbero perdere il lavoro a causa dell’osservazione di questi standard;

lavoro forzato: anch’esso è proibito. Ai lavoratori non può essere richiesto di cedere i propri documenti o di pagare un “acconto” come condizione per lavorare;

salute e sicurezza: le imprese devono rispettare gli standard minimi per un ambiente di lavoro sicuro e salubre, includendo in ciò almeno l’accesso all’acqua potabile, una stanza in cui riposarsi, un equipaggiamento di sicurezza adeguato e la formazione necessaria per svolgere il lavoro;

libertà di associazione: deve essere garantito il diritto di formare ed unirsi in un sindacato a scelta e di poter richiedere un contratto collettivo, senza che ciò generi ritorsioni o intimidazioni verso i lavoratori;

discriminazione: non si devono verificare discriminazioni razziali, di casta, di nazionalità, religione, genere, disabilità, orientamento sessuale, d’appartenenza sindacale o politico;

pratiche disciplinari: sono proibite, ovviamente, le punizioni corporali, la coercizione fisica come quella mentale, le multe e l’ingiuria nei confronti dei lavoratori;

orario di lavoro: si possono fare al massimo 48 ore settimanali, con (minimo) un giorno di riposo alla settimana. Gli straordinari, se previsti, non possono superare le 12 ore settimanali e vanno retribuiti con una tariffa speciale;

salario: deve rispettare tutti gli standard minimi legali locali e fornire una rendita sufficiente per coprire almeno i bisogni primari, se non qualcosa in più;

sistema organizzativo: le imprese devono nominare un rappresentante responsabile della politica aziendale, pianificare ed eseguire i controlli richiesti, selezionare i fornitori rispetto alla loro conformità agli standard etici, realizzare le azioni correttive necessarie per la certificazione etica, rendersi disponibili alle verifiche mostrando la documentazione ed i registri necessari.

Dal punto di vista di un’impresa, quanto conviene richiedere la certificazione etica? È veramente un vantaggio avere anche questo certificato oppure rimane solo un ulteriore onere? E, soprattutto, quali sono poi i benefici che otterrebbe da questa certificazione? A parte l’adesione morale a questi principi etici (che gran parte degli imprenditori probabilmente condividerà), al momento della scelta – se aderire o meno a questa certificazione – inevitabilmente emergeranno dubbi e perplessità. Il rischio reale che si presenta nel vaglio delle possibilità (aderire o non aderire?) è di progettare il proprio futuro imprenditoriale – e quindi i relativi investimenti – con una concezione del profitto a breve termine, legato al vantaggio immediato. A causa della pressante concorrenza e del ruolo che l’immagine aziendale gioca per i consumatori, è necessario, oramai, avere una concezione strategica del profitto – e quindi degli investimenti necessari per realizzarlo – per poter rimanere nel mercato. In queste nuove coordinate d’analisi l’ottica a lungo termine diventa vincente e, quindi, concetti quali credibilità, immagine aziendale, visibilità pubblica, impegno ambientale, responsabilità sociale ed etica, assumono connotati nuovi e primari, sia nell’ottica dei consumatori che degli investitori. È opportuno considerare che queste osservazioni hanno valore sia per le multinazionali, sia per le piccole-medie imprese le quali dovranno confrontarsi sempre più spesso con le prime. In questa situazione concorrenziale sarà sempre più importante – se non strategico – l’immagine sociale, che l’azienda riuscirà ad offrire all’opinione pubblica. Se questa verrà gestita ad un livello pari all’improvvisazione, probabilmente i risultati faranno riferimento prevalentemente al caso. Diversamente, se l’impresa gestirà attivamente la propria immagine consapevole non solo dei possibili rischi, ma, soprattutto, delle eventuali occasioni legate al mercato, si otterrà un ritorno d’immagine più corrispondente ai risultati desiderati. A questo punto è essenziale domandarsi: è possibile stimare in termini economici un crollo d’immagine? Ed un possibile rialzo?

[1] M. Crivellaro, G. Vecchiato, F. Scalco – Sostenibilità e rischio greenwashing, 2012

[2] Come chiarito nel SA8000:2014 Standard, al punto 22. Stakeholder engagement, sa-intl.org

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