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Scarti tessili pre e post consumo: problematiche e prospettive

Filati composti al 100% in nylon riciclato derivante da scarti di produzione di componenti plastici industriali, reti da pesca, tessuti e tappetti giunti a fine vita; tomaie di scarpe da tennis realizzate con camere d’aria dismesse; fiocchi di poliestere riciclato post-consumo ottenuto al 100% da bottiglie in PET recuperate; borse realizzate dagli scarti agricoli della lavorazione delle ananas.

Questa non è fantascienza ma la realtà che racconta l’Osservatorio Internazionale per l’innovazione sostenibile dei materiali e dei prodotti.

Questa è la verità di un mercato sempre più rivolto alla sostenibilità ambientale. Ma in cosa si sostanzia questa sostenibilità ambientale? Come si confronta con la realtà fattuale delle imprese del nostro tessuto imprenditoriale? Quali possibilità ha l’imprenditore di allinearsi a nuovo trend? Quali sono le normative che entrano in gioco?

In un rapporto di qualche anno fa[1] curato da Fondimpresa si legge “Il sistema moda produce ogni anno tonnellate di scarti che finiscono in discarica che potrebbero essere nuovamente inseriti nel ciclo produttivo e questo avviene nonostante i molti studi che cercano di mettere a punto sistemi di ottimizzazione delle possibilità di riuso. L’ultimo rapporto ISPRA sui rifiuti speciali, stima che il 37,4% dei rifiuti non pericolosi del manifatturiero provenga da tessile, abbigliamento e industria conciaria.

Sostenibilità quindi vuol dire quindi in primo luogo:

  1. Prevenire la produzione del rifiuto (es. ottimizzare taglio di tessuti/pellami in fase di confezione per limitare il cascame);
  2. Allungare il più possibile la vita del bene (es. utilizzo di materie prime quanto più possibile durevoli, inserimento del capo usato in un circuito di riuso come quello tipico della beneficenza);
  3. Riciclare, il rifiuto una volta che è diventato tale (es. riciclo delle fibre tessili naturali post consumo)
  4. Produrre partendo da rifiuti riciclati piuttosto che da materie prime vergini (es. realizzazione di prodotti utilizzando rifiuti del settore tessile o di altri settori).

Non solo… Sostenibilità significa anche ottimizzare i processi produttivi limitando quanto più possibile sprechi (es. di energia elettrica e di acqua) e ridurre l’impatto ambientale (es. sostanze tossiche utilizzate nei lavaggi industriali).[2]

In questo articolo vogliamo occuparci della prima accezione di sostenibilità che riguarda il ciclo di vita del prodotto non le implicazioni del suo processo produttivo.

Per fare questo occorre precisare che il settore moda produce un duplice ordine di scarti:

  1. Quello postconsumo (ovvero derivante dalla fine vita del prodotto).
  2. Quello preconsumo (ovvero derivante dal processo produttivo)

Con riferimento alla prima categoria l’industria della moda è ontologicamente nemica di ottiche sostenibili. Lo stesso concetto di abito o accessorio “alla moda” impone a queste categorie di prodotto una veloce obsolescenza. Per questa ragione possiamo dire che è proprio il “sistema moda” moderno, per come è congegnato, ad essere totalmente non-sostenibile.

Non potendosi, al momento, ripensare questo sistema, in prima battuta ci si dovrà limitare a cercare di correggerne le storture più macroscopiche e dagli impatti ambientali più devastanti. Questo è ciò che fanno ad esempio alcuni importanti brand, che da qualche anno a questa parte hanno creato un vero e proprio circuito di raccolta degli scarti post-consumo, incentivando il consumatore ad uno smaltimento “coscienzioso” mediante politiche di sconto.

Secondo i dati dell’Agenzia Nazionale di Protezione Ambientale (EPA), negli Stati Uniti ogni persona si disfa, in media, di 32 Kg di capi di abbigliamento all’anno e solo il 15% rientra nel ciclo produttivo attraverso la filiera del riciclaggio.

Le scarse prospettive di riciclabilità dei prodotti sono chiaramente dovute ad una progettazione non eco-sostenibile, che non tiene conto cioè del fine vita. Un primo passo sarà quindi quello di iniziare ad ideare prodotti con la consapevolezza, sin da principio, di che tipo di rifiuto diventeranno e che prospettive di riciclo si apriranno in fase di fine vitaVincolare l’idea creativa alla destinazione ultima del prodotto ben lungi dall’essere un limite potrebbe, a ben vedere, rivelarsi un vero e proprio slogan a livello di marketing. Certamente per fare un passo di questo tipo l’azienda dovrà rivoluzionare la propria prospettiva e formare i propri dipendenti a sviluppare prodotti inseriti in un’ottica di economica circolare.

Con riferimento alla seconda categoria di scarti, quelli preconsumo, invece, il margine di manovra delle imprese del settore è certamente maggiore. A questo proposito ricordiamo che non sempre ciò che “apparentemente” sembra uno scarto di produzione può ritenersi tale. Il testo unico ambientale infatti distingue tra:

  • Rifiuto ovvero qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi (art. 183 D.Lgs. 152/2006);
  • Sottoprodotto ovvero qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
  1. a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
  2. b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
  3. c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
  4. d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana (art. 184-bis D.Lgs. 152/2006).

In altri termini, uno scarto di produzione, se utilizzato con certezza nello stesso o in un nuovo processo di produzione, senza necessità di trattamenti diversi da quelli normalmente operati nel settore di riferimento per quella materia e se l’ulteriore utilizzo è legale (cioè conforme a tutti i requisiti e specifiche di legge) non sarà considerato un rifiuto ma un sottoprodotto. In qualità di sottoprodotto sarà sottratto da tutti gli adempimenti e i costi connessi alla gestione dei rifiuti.

Volendo fare un esempio concreto, l’utilizzo di cascami tessili per realizzare prodotti in stile patchwork configurerà una sottrazione di quello che, a rigor di logica, dovrebbe essere un rifiuto, dal relativo ambito di appartenenza. Ciò ovviamente in una duplice direzione: sia dal lato dell’utilizzo dello scarto tessile nel medesimo settore o in altro settore, sia dal lato dell’utilizzo di scarti di altri settori nel settore tessile.

Si pensi, in relazione a questa seconda ipotesi, al caso delle camere d’aria dismesse che vengono recuperate, accuratamente pulite, tagliate ed appiattite al fine di dar loro una nuova vita come tomaia di un paio di scarpe da tennis. Queste operazioni non costituendo trattamento diverso dalla normale pratica industriale, ad avviso di chi scrive, non ostacolano la qualificazione dello scarto come sottoprodotto (ovviamente in presenza delle ulteriori condizioni imposte dalla legge).

Appare chiaro che la disciplina del sottoprodotto non potrà essere utilizzata come un facile passaporto per far espatriare dall’ambito di applicazione della normativa in materia di rifiuti, materiali che invece devono considerarsi tali. A questo proposito ricordiamo che la tematica è da sempre oggetto di animoso dibattito volto a prevenire condotte elusive se non addirittura del tutto illecite. Cosicché il soggetto mosso da intenzioni eco-sostenibili e non eco-criminali, che voglia utilizzare nel proprio ciclo produttivo dei sottoprodotti, senza incorrere in contestazioni quali la gestione di rifiuti illecita, dovrà preordinarsi tutta una serie di prove volte a dimostrare in modo preciso e circostanziato le condizioni indicate dall’art. 184-bis D.Lgs. 152/2006.

Qualora invece non sia possibile configurare gli scarti di produzione come sottoprodotto, si apre lo scenario del riciclo, ovvero della trasformazione del rifiuto in un nuovo prodotto: questa infatti è l’ultima possibilità per sottrarre lo scarto allo smaltimento in discarica.

Abbiamo parlato di questo tema con la Trevisan S.p.A., leader nel settore della raccolta selezione e avvio alla gestione di rifiuti, che ci ha spiegato come le possibilità di riciclo di un rifiuto tessile sono tanto maggiori quanto quello scarto ha determinate caratteristiche quali l’assenza di contaminazioni, da intendersi come mancanza di segni del contatto con determinate sostanze ma anche come assenza di accessori (es. bottoni, cerniere, applique ecc.). Ancora, la facilità del riciclo è data dal tipo di fibra utilizzata essendo le fibre naturali molto più idonee alla rifilatura o all’impiego nell’industria meccanica (questo con particolare riferimento al cotone). L’utilizzo e assemblaggio di svariati materiali naturali e/o sintetici, invece, rende più ostico il riciclo ed in alcuni casi addirittura impossibile. I tessuti colorati e stampati ovviamente, si prestano al riciclo peggio dei colorati.

Questi dati non potranno essere trascurati dall’impresa che intende realizzare prodotti più ecosostenibili. L’imprenditore dovrà quindi sviluppare, in una fase iniziale anche solo empiricamente, la capacità di tenere in considerazione tutto il ciclo di vita, come dicono gli addetti ai lavori, “dalla culla alla tomba”.


[1] Fine vita dei prodotti nel sistema moda.

[2] A questo proposito segnaliamo questo interessante contributo in merito all’inziativa Conscious Exclusive 2016 di H&M che approfondisce gli aspetti inerenti il LCA.

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