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Sei sicuro che il tuo prodotto sia davvero “Made in Italy”?

Quando un prodotto può dirsi “Made in Italy”? La risposta non è affatto immediata. Il Made in Italy negli anni è stato oggetto di un ricco e acceso dibattito nel contesto socio-politico non solo italiano ma anche comunitario ed internazionale. Si sono infatti avvicendati nel tempo numerosi provvedimenti normativi, da un lato volti a tutelare il consumatore che desidera conoscere l’effettiva provenienza della merce che acquista, dall’altro lato richiesti dai produttori per tutelare i propri manufatti da brutte-copie della concorrenza straniera.

Cerchiamo con questo articolo di mettere un po’ d’ordine dando alcune indicazioni per tentare di capire se effettivamente un determinato prodotto possa essere definito “Made in Italy” oppure no.

In linea generale, è universalmente accettato il principio in base al quale sono sempre considerate originarie di un Paese le merci ivi interamente ottenute, le quali possono quindi essere ragionevolmente definite autoctone[1].

Diversamente, quando la merce, di cui si deve stabilire l’origine, è ottenuta con l’utilizzo di materiali originari di Paesi diversi, la questione si complica e sono necessarie valutazioni più approfondite.

Innanzitutto, in tali casi, la legislazione di settore prevede – pressoché ovunque nei diversi mercati mondiali – regole particolari a seconda che si tratti di attribuire l’origine preferenziale o non preferenziale. Qui la questione inizia a complicarsi pertanto, per fare chiarezza ricordiamo che per origine:

  • Non preferenziale si intende quella che consente al consumatore di avere informazioni sull’effettivo luogo di produzione delle merci (questa è quella che interessa ai fini dell’attribuzione di un certo “Made in”). L’origine non preferenziale definisce quindi la “nazionalità” di un prodotto.
  • Preferenziale si intende quella che dà diritto a benefici tariffari (ingresso a dazio zero o a dazio ridotto) negli scambi tra paesi che hanno stipulato accordi di commercio preferenziale. Perché la merce possa essere considerata di origine preferenziale devono essere soddisfatte alcune condizioni specifiche indicate nei protocolli di origine degli accordi di commercio.

Per rispondere alla domanda, quando un prodotto può essere considerato “Made in Italy”, dobbiamo quindi fare riferimento alla sua origine c.d. non preferenziale. La norma di riferimento a tale fine è l’art. 24 del Reg. 2913/92 secondo cui “Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

La regola per stabilire se un determinato prodotto sia di origine non preferenziale Italiana è dunque quella della c.d. “trasformazione sostanziale” o “lavorazione che conferisce l’origine”.

Ai fini dell’individuazione dei requisiti sopra indicati il legislatore comunitario[2] fornisce un elenco tassativo di lavorazioni o trasformazioni in grado di conferire alla merce una determinata origine.

Ad esempio: nel caso di filati e monofilamenti (diversi dai filati di carta), perché si possano ritenere prodotti Made in Italy, dovrà avvenire in Italia il processo di fabbricazione – inteso come qualsiasi tipo di lavorazione o trasformazione, incluso l’«assiemaggio» – che parte dalle fibre naturali, non cardate né pettinate né altrimenti preparate per la filatura[3].

In alcuni casi il legislatore, oltre ad indicare quale tipo di lavorazione o trasformazione debba essere effettuata in un determinato territorio perché il prodotto in esso trovi origine, impone un requisito ulteriore connesso al valore del materiale “non originario” (sostanzialmente al valore della materia prima su cui si deve effettuare la lavorazione/trasformazione). In altri termini si richiede che le fasi di lavorazione o trasformazione abbiano un valore superiore – in percentuale determinata dal Reg. Cee n. 2454/93 – rispetto al costo della materia prima.

Facciamo un altro esempio per chiarire questa ipotesi. Nel caso di stampa di filati, accompagnata da operazioni di rifinitura in cui è compresa la testurizzazione in quanto tale, avvenuta in Italia, tali filati potranno ritenersi Made in Italy, solo qualora il valore della materia prima non superi il 48 % del prezzo franco fabbrica del prodotto.

Ci è di più. Il legislatore comunitario, al fine di evitare che alcuni produttori, per beneficiare di un determinato “Made in…” effettuassero lavorazioni fittizie o marginali, con una norma di chiusura ha precisato:

si considerano sempre insufficienti a conferire il carattere originario le seguenti lavorazioni o trasformazioni:

a) le manipolazioni destinate ad assicurare la conservazione dei prodotti tal quali durante il trasporto e il magazzinaggio (ventilazione, spanditura, essiccazione, rimozione di parti avariate e operazioni affini);

b) le semplici operazioni di spolveratura, vagliatura, cernita, classificazione, assortimento (ivi compresa la composizione di serie di prodotti), lavatura, riduzione in pezzi;

c) i) i cambiamenti d’imballaggio; le divisioni e riunioni di partite;

    ii) la semplice insaccatura, nonché il semplice collocamento in astucci, scatole o su tavolette, ecc., e ogni altra semplice operazione di condizionamento;

d) l’apposizione sui prodotti e sul loro imballaggio di marchi, etichette o altri segni distintivi di condizionamento;

e) la semplice riunione di parti di prodotti per costituire un prodotto completo;

f) il cumulo di due o più operazioni indicate alle lettere da a) ad e”)[4].

Il quadro normativo sino a qui delineato si basa sul Reg. Cee 2913/92 e relativo Regolamento di attuazione n. 2454/93, i quali a partire dal 1 maggio 2016 risulteranno superati per effetto dell’entrata in vigore del nuovo codice doganale, il Reg. Cee n. 952/2013.

Non solo, il panorama normativo di natura comunitaria, deve confrontarsi anche con la legge nazionale n. 55/2010 (anche nota come Legge Reguzzoni-Versace), la quale ha previsto:

4. L’impiego dell’indicazione «Made in Italy» è permesso esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione, come definite ai commi 5, 6, 7, 8 e 9[5], hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità.

Essendo la Legge in esame una “legge-quadro” necessita l’adozione di decreti attuativi per trovare applicazione. Tuttavia ad oggi tali decreti non sono ancora stati emanati[6]. In attesa della normativa di attuazione, il Presidente del Consiglio, su parere dell’Agenzia delle Dogane, ha chiarito che dovranno continuare a trovare applicazione i parametri stabiliti dal Regolamento europeo come precedentemente illustrati[7].

Per concludere la nostra analisi volta a chiarire quando un prodotto possa essere definito “Made in Italy”, ricordiamo che, l’articolo 16 del d.l. 135/09 convertito con legge n. 166/09, ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità di utilizzare il più stringente marchio “100% Made in Italy”. Se vuoi avere maggiori informazioni in merito clicca qui.


[1] Art. 23, Reg. Cee n. 2913/92.

[2] Reg. Cee n. 2454/93 agli allegati 10 per Materie tessili e loro manufatti.

[3] All. 9 e 10 Reg. Cee n. 2454/93.

[4] Art. 38 Reg. Cee n. 2454/93.

[5] Art. 1, commi 5-9 “Nel settore tessile, per fasi di lavorazione si intendono: la filatura, la tessitura, la nobilitazione e la confezione compiute nel territorio italiano anche utilizzando fibre naturali, artificiali o sintetiche di importazione. Nel settore della pelletteria, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, il taglio, la preparazione, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione. Nel settore calzaturiero, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione. Ai fini della presente legge, per «prodotto conciario» si intende il prodotto come definito all’articolo 1 della legge 16 dicembre 1966, n. 1112, che costituisca parte del prodotto finito o intermedio destinato all’abbigliamento, oppure all’utilizzazione quale accessorio da abbigliamento, oppure all’impiego quale materiale componente di prodotti destinati all’arredo della casa e all’arredamento, intesi nelle loro piu’ vaste accezioni, oppure come prodotto calzaturiero. Le fasi di lavorazione del prodotto conciario si concretizzano in riviera, concia, riconcia, tintura – ingrasso – rifinizione. Nel settore dei divani, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione del poliuretano, l’assemblaggio dei fusti, il taglio della pelle e del tessuto, il cucito della pelle e del tessuto, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione“.

[6] Art. 2, comma 1, l. n. 55/2010.

[7] Presidenza del Consiglio dei Ministri DCPC 0006554 del 30/09/2010; Agenzia delle Dogane Prot. 119919RU del 22/09/2010

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