Type a keyword and hit enter to start searching. Press Esc to cancel.

Categoria: Sostenibilità

È ormai da una quindicina d’anni che si sente parlare di “Responsabilità penale d’impresa” o, più correttamente di “Responsabilità degli Enti per illeciti amministrativi dipendenti dalla commissione di reati”. Ma di che cosa si tratta?

Con questo articolo vogliamo spiegarlo in modo semplice ed efficace, senza usare tecnicismi… cosicché anche i non addetti ai lavori possano finalmente capire che cos’è questa “nuova” forma di responsabilità.

Per fare ciò è necessaria una piccola premessa. Come probabilmente saprai o potrai intuire, nel nostro ordinamento la responsabilità penale è personale, questo, semplificando moltissimo, vuol dire che “in galera” ci possono andare solo ed esclusivamente le persone fisiche.

Fino al 2001, anche nel caso, tutt’altro che raro, in cui un reato venisse commesso all’interno di una organizzazione societaria, l’unico soggetto chiamato a rispondere penalmente di questo reato era colui che l’aveva in concreto commesso (ad esempio l’Amministratore o il Dirigente, eventualmente in concorso con i suoi vari colleghi di malaffare). La Società invece, non rispondeva del reato commesso, molto spesso nel suo interesse o a suo vantaggio. Accadeva così che il colpevole di turno, processato e punito, veniva rimosso dalla compagine sociale e sostituito con un nuovo soggetto… il più delle volte con pari o maggiore dedizione al crimine.

Si pensi all’ipotesi dell’azienda produttiva che, per un risparmio di spesa, decideva, con l’aiuto di qualche premiata ditta dell’eco-mafia, di smaltire illecitamente i propri rifiuti pericolosi, inviandoli alla tristemente nota “terra dei fuochi”. Una volta sgominata l’associazione criminosa e i suoi clienti, veniva punito il colpevole (immaginiamo che si trattasse dell’Amministratore Delegato), ma l’azienda indisturbata poteva proseguire (magari con maggiori accortezze) nel tenere le proprie condotte criminose. Ovviamente previa nomina di un nuovo Amministratore Delegato ben referenziato!

Fu proprio per porre rimedio a problemi di questo tipo (concernenti prevalentemente reati corruttivi e in materia di truffa) che, nel 2001, venne introdotta la c.d. “Responsabilità penale d’impresa”[1], ovvero una nuova forma di responsabilità che consentiva in qualche modo di sanzionare le Società dedite al crimine. Ovviamente la sanzione applicabile non poteva che essere di natura pecuniaria, per l’evidente difficoltà di “mettere dietro alle sbarre” o agli arresti domiciliari una s.p.a. o una s.r.l.

Dal 2001 quindi, qualora all’interno di una Società[2], sia commesso un reato, nell’interesse o a vantaggio della Società stessa, questa potrà essere processata per quel reato e, in presenza di determinate condizioni, condannata. La pena potrà variare da un minimo di € 25.800 ad un massimo di € 1.549.000. Non solo, in alcuni casi, la Società potrà essere condannata anche:

  1. all’interdizione dall’esercizio della propria attività
  2. alla sospensione o revoca delle autorizzazioni funzionali alla commissione dell’illecito
  3. al divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione
  4. all’esclusione da agevolazioni, finanziamenti o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi
  5. al divieto di pubblicizzare i propri beni o servizi.

Tornando quindi al nostro esempio in materia di smaltimento illecito di rifiuti: con l’introduzione della responsabilità penale di Impresa, non solo sul banco degli imputati sarebbe finito l’Amministratore delegato eco-irresponsabile e i suoi colleghi di malaffare, ma anche la Società (in persona del suo legale rappresentante).

Non ci soffermiamo, come promesso, ad analizzare le varie disposizioni tecniche della normativa di settore che chiariscono nel dettaglio tutti i presupposti oggettivi e soggettivi per la sussistenza della Responsabilità penale d’impresa.

Se però la questione ti sta appassionando e vuoi conoscere maggiori dettagli ti invitiamo a leggere questo contributo.

In questa seda ci limitiamo a ricordare che, non tutti i reati previsti dal nostro ordinamento penale possono generare la Responsabilità penale d’impresa.

Cerchiamo di chiarire le cose con un esempio. Immaginiamo tu sia l’amministratore delegato della Società Alfa s.r.l. che deve effettuare un investimento importante per l’acquisto di nuovi macchinari. Immaginiamo anche che, dopo vari tentativi e richieste, nessun istituto di credito abbia accettato di accordarti il finanziamento necessario per i tuoi acquisti. Vista la situazione e, vista l’importanza per la tua azienda di effettuare il nuovo investimento, decidi, assieme al Direttore Generale e al responsabile dell’Ufficio Finanziario di rapinare la Banca Alfa. In questo caso, la tua Società Alfa s.r.l., sebbene la rapina sia stata commessa nel suo interesse e a suo vantaggio, rimarrebbe comunque impunita in quanto il reato di rapina non determina Responsabilità penale di impresa.

Quali sono dunque i reati in grado di determinare l’insorgere della Responsabilità penale di impresa?

Si tratta di vari reati che possiamo riassumere all’interno delle seguenti categorie: Reati contro la Pubblica Amministrazione; Falsità in monete, carte di credito, valori bollati; Reati societari; Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico; Delitti contro la personalità individuale; Abusi di mercato; Pratiche di mutilazione degli organi femminili; Delitti transazionali; Delitti di ricettazione, riciclaggio, autoriciclaggio, impiego di denaro o beni o utilità di provenienza illecita; Delitti informatici; Reati colposi in materia di Sicurezza sul Lavoro (omicidio colposo, lesioni personali gravi e gravissime); Delitti di criminalità organizzata; Delitti contro l’industria e il commercio; Violazione di diritto d’autore; Induzione a non rendere dichiarazioni o mendaci all’Autorità Giudiziaria; Reati ambientali; Reati di sfruttamento sessuale di minori e pornografia minorile.

Di tutti questi reati attenzione speciale meritano i Reati colposi in materia di Sicurezza sul Lavoro e i Reati ambientali. Questi infatti, diversamente da tutti gli altri, possono determinare una Responsabilità penale dell’Impresa, anche se il soggetto che li ha commessi non ha agito con dolo.

Facciamo anche qui un esempio per chiarire questo aspetto fondamentale.

Qualora l’Amministratore Delegato della Società Alfa, mediante artifizi o raggiri ottenga un cospicuo finanziamento pubblico cui la sua azienda non avrebbe diritto, risponderà di truffa e con lui risponderà la stessa Società Alfa, per effetto della normativa in materia di Responsabilità penale d’impresa. In questo caso è evidente che l’Amministratore non solo era consapevole di star truffando il sistema, ma addirittura questo era proprio ciò che voleva, al fine di assicurare un ingiusto profitto alla sua Società.

Diverso è il caso dell’Amministratore Unico (e Datore di Lavoro) della Società Beta che, per dimenticanza, non organizza la formazione del dipendente neoassunto il quale, per inesperienza, si provoca uno schiacciamento delle dita della mano alla partenza di un telaio. In questo caso è altrettanto evidente che l’Amministratore Unico (e Datore di Lavoro), non voleva affatto che il suo dipendente neoassunto si schiacciasse le dita della mano provocandosi una grave lesione. Ciò nonostante la sua dimenticanza nell’organizzazione della formazione prevista per legge, comporterà per lui e per la Società Beta la responsabilità per aver commesso un reato colposo in materia di Sicurezza sul lavoro.

Lo stesso potrebbe dirsi per il caso di sversamento accidentale di rifiuti pericolosi derivanti dai fanghi di lavaggio delle pelli, o per altri reati ambientali colposi.

Da questi esempi puoi capire che la “spada di Damocle” della Responsabilità penale d’impresa è un arma particolarmente affilata con riferimento alle materie dell’Ambiente e della Sicurezza sul lavoro. In tali ambiti, essa potrebbe determinare l’applicazione di sanzioni (anche interdittive, come il fermo produzione), a fronte di un evento non voluto e accidentale.

Se queste sono le “cattive notizie”, le buone notizie sono date dalla possibilità, concessa dal nostro Ordinamento di dotarsi di Modelli di Organizzazione e Gestione in grado di ridurre fortemente il rischio di Responsabilità penale d’impresa. Per avere maggiori informazioni su tali Modelli, anche noti come “Modelli 231”, dal nome del Decreto Legislativo che ha introdotto questa forma di responsabilità, clicca qui.


[1] Introdotta con D.Lg. 231/2001.

[2] Più precisamente la normativa parla di “Ente”, potendo essere destinatari di questa responsabilità tutti gli Enti a soggettività privata (anche privi di personalità giuridica quali Associazioni, Fondazioni, Comitati) e gli Enti a soggettività pubblica che svolgono attività economica.

Sempre più spesso le grandi multinazionali del Fashion, siano esse del settore lusso o meno, richiedono ai propri fornitori e subfornitori di allinearsi a determinati standard di responsabilità sociale.

La ragione di questa richiesta è evidente: una condotta non etica o contraria ai principi della Responsabilità sociale può costare caro in termini di danno all’immagine che l’azienda potrebbe subire.

Un rischio del genere deve necessariamente essere ridotto al minimo da tali imprese. Ecco che allora, diventano sempre più comuni i contratti da queste imposti ai propri fornitori che, prima ancora di imporre clausole giuridiche, sanciscono doveri di probità e buona condotta.

Ma tu, in qualità di fornitore o contoterzista, che produci o effettui una parte delle lavorazioni, per i grandi nomi della moda Italiana ed internazionale, come deve comportarti in concreto? Come puoi garantire al tuo cliente che rispetterai il suo Codice di buona condotta?

Il problema in questi casi è dato dal fatto che, molto spesso, non hai alcun potere contrattuale per chiedere l’eliminazione di clausole scomode. In altri termini, non puoi far eliminare quelle clausole che fanno ricadere su di te la responsabilità per il comportamento non conforme dei tuoi dipendenti, collaboratori, subfornitori, organi sociali ecc.

L’unica soluzione percorribile dunque, è quella di trovare un metodo in grado di assicurare la massima probità della condotta, non soltanto tua, ma di tutti i tuoi dipendenti e collaboratori. Solo in questo modo sarai in grado di mettere a riparo la tua azienda dal rischio che il tuo maggior cliente, non intrattenga più rapporti commerciali con te per violazione delle regole di condotta dallo stesso imposte o peggio, che ti richieda una qualche forma di risarcimento del danno all’immagine arrecato dalla condotta di un tuo dipendente infedele.

Questo tipo di risultato si può ottenere, senza un eccessivo dispendio di risorse, mediante l’adozione di un Codice etico. Il Codice etico è il documento che racchiude i principi generali e le norme di comportamento che danno attuazione alle politiche sociali d’impresa.

Non si tratta di una mera dichiarazione d’intenti, ma di una espressione dei principi di deontologia aziendale, che la tua impresa decide di riconoscere come propri e sui quali richiama all’osservanza tutti i dipendenti, collaboratori, contoterzisti, e altri soggetti terzi che con la stessa entrano in contatto.

 1. Come strutturare adeguatamente un Codice Etico?

Il Codice etico dovrà suddividersi in due parti:

  1. a) principi etici generali
  2. b) norme di comportamento.

I primi costituiscono dei principi ai quali la tua impresa dovrà richiamarsi nello svolgimento della propria attività (es. legalità, imparzialità, onestà, integrità, tutela dell’ambiente, tutela dei lavoratori etc); mentre le seconde costituiscono delle regole alle quali i destinatari del Codice dovranno attenersi (es. correttezza e trasparenza nei rapporti con gli stakeholders, riservatezza nel trattamento dei dati personali, tutela della proprietà intellettuale e del know how interno e concesso da terzi, corretta gestione ed utilizzo dei sistemi informatici ecc.).

2. Come garantire l’effettivo rispetto del Codice etico?

Come puoi facilmente intuire, un sistema di principi e norme non può essere efficacemente attuato senza la previsione di una sanzione per il caso di sua violazione.

Questa sanzione di regola presuppone l’esistenza di un sistema disciplinare e di un soggetto deputato all’applicazione della sanzione stessa.

Si apre dunque un problema, quale è il soggetto, interno all’azienda, a cui affidare l’arduo compito di sanzionare le condotte contrarie alle norme di condotta?

Secondo qualcuno questo ruolo dovrebbe spettare, in assenza di altri soggetti più adeguati, allo stesso Organo Dirigente (es. amministratore unico, Consiglio di Amministrazione).

Questa soluzione però non convince: come potrebbero essere gestiti gli illeciti commessi dall’Organo Dirigente stesso? In altri termini: chi controllerebbe il controllore?

In questo caso, il rischio sarebbe quello di lasciare impuniti, dal punto di vista aziendale, i responsabili di fatti contrari al Codice etico… vanificando il senso dello stesso.

3. Proposte concrete per un’efficace applicazione del Codice Etico

Per garantire in concreto il rispetto delle norme di condotta previste dal Codice Etico, possiamo suggerire due strade alternative:

  1. La prima, presuppone che l’azienda si doti o si sia già dotata di un Modello di Organizzazione e gestione ai sensi del D.Lgs. 231/2001 ed affidi il compito di vigilare e sanzionare l’eventuale violazione del Codice, all’Organismo di Vigilanza;
  2. La seconda impone invece di istituire un Comitato Etico, ovvero un organismo che si occupi di controllare l’effettivo rispetto del Codice e di segnalare eventuali comportamenti contrari ai principi e alle norme di comportamento ivi contenuti.

In questo secondo caso, la segnalazione dell’illecito dovrà essere comunicata all’Organo Dirigente, per le violazioni da parte dei dipendenti, collaboratori e/o società esterne. Nel caso in cui il comportamento da sanzionare sia stato posto in essere dall’Organo Dirigente, la segnalazione andrà effettuata all’assemblea dei soci, affinché prenda gli opportuni provvedimenti nei confronti degli amministratori “infedeli”.

Per quanto riguarda la composizione del Comitato Etico, potrai sceglierla liberamente, sulla base dell’organizzazione, della grandezza e della capillarità sul territorio della tua impresa. L’importante è che la formula che adotti sia la più idonea ad assicurare l’efficace attuazione di quanto previsto nel Codice. Ti consigliamo a questo proposito, che il Comitato Etico sia almeno in parte costituito da soggetti esterni all’impresa, in modo tale da garantire l’indipendenza del medesimo rispetto alla stessa.

Se desideri visionare:

– alcuni principi generali da inserire all’interno del Codice etico, clicca qui

– alcune norme di comportamento da inserire all’interno del Codice etico, clicca qui

Da un’indagine pubblicata da Nielsen, “Doing Well by Doing Good” [1] è emerso che:

– Il 67% degli intervistati preferirebbero lavorare per un’azienda socialmente responsabile

– Il 52% dei consumatori affermano di aver acquistato un prodotto o un servizio negli ultimi sei mesi da un’azienda socialmente responsabile.

Kering ha costituito un “Sustainability Committee”, ovvero un comitato per la sostenibilità, composto da una cinquantina di membri, che ha implementato policy e linee guida per il raggiungimento degli obiettivi prefissati in tema di sostenibilità (ambientale e etica).

LVMH ha adottato una policy sulla Responsabilità sociale d’impresa, basata su quattro pilastri fondamentali (well -being at work, talent e know-how, preventing discrimination, supporting local communities).

Burberry ha creato, Burberry Beyond, ovvero il programma del gruppo che include le attività intraprese in ambito sociale, culturale e ambientale.

Il comune denominatore di queste iniziative è la Responsabilità Sociale, driver sempre più importante per la creazione del valore dell’impresa.

Che cosa si intende per Responsabilità sociale d’impresa?

Per Corporate social responsability (CSR), si intende l’impresa che adotta, nella propria attività di produzione di beni o di fornitura di servizi, una politica di rispetto di tutte quelle categorie di soggetti che sono coinvolti, in modo diretto o indiretto, nell’impresa.

Queste categorie di soggetti sono i dipendenti, i cd. stakeholders, ovvero fornitori, sub-fornitori, organizzazioni sindacali, consumatore finale, e, in generale, tutti quei soggetti esterni all’impresa che ne influenzano l’attività o sono influenzati dalla medesima.

Si tratta quindi di imprese che scelgono di perseguire il profitto in modo socialmente etico.

Quali sono le azioni da porre in essere per diventare un’impresa socialmente responsabile?

Le azioni che le imprese possono attuare ai fini di una gestione socialmente responsabile sono molteplici, con un diverso grado di impatto nella stessa organizzazione aziendale.

Si può passare dal monitoraggio di alcuni aspetti organizzativi, alla redazione di linee guida o di policy, alla creazione di comitati che si occupano di sostenibilità, alla redazione di una vero e proprio bilancio di sostenibilità.

Ecco alcuni modi in cui può essere declinata la CSR sulla base delle categorie di soggetti che possono beneficiare di questa responsabilità sociale:

  1. Per quanto riguarda i lavoratori, la società deve prevedere una retribuzione congrua, degli orari di lavoro adeguati, delle condizioni di lavoro sicure e dignitose, non deve impiegare lavoratori privi di regolare contratto e deve evitare lo sfruttamento del lavoro minorile. Sempre in tema di lavoratori, un’impresa socialmente responsabile è quella che non discrimina in base al sesso, alla nazionalità, al credo religioso o politico, creando opportunità di crescita e di valorizzazione delle competenze.
  2. Circa la supply chain, il tema della responsabilità sociale si sostanzia in sistemi di approvvigionamento responsabile delle materie prime (ad es. approvvigionamento di pellame proveniente da allevamenti tracciati e gestiti responsabilmente), nella qualificazione dei fornitori e nel loro controllo secondo le politiche aziendali in tema di CSR nonché nella tracciabilità della stessa catena produttiva.
  3. Nei confronti dei consumatori e del territorio, l’impresa socialmente sostenibile si connota per la trasparenza nella comunicazione dell’impatto che la sua attività ha nel sociale e dei propri obiettivi in tema di sostenibilità.
  4. Infine, verso tutti gli stakeholders, l’impresa, per essere considerata socialmente responsabile, deve svolgere la propria attività in piena legalità. Si tratta pertanto di approntare l’attività d’impresa secondo sistemi che evitino la commissione di reati che possano essere percepiti con maggiore disvalore da parte della comunità, quali ad esempio i reati contro la Pubblica Amministrazione (es. corruzione, concussione), quelli posti a tutela della proprietà intellettuale (es. contraffazione) e quelli volti a tutelare la regolarità contributiva (es. reati tributari).

Qual è il punto di partenza per diventare un’impresa socialmente responsabile?

Il punto di partenza della CSR è in ogni caso il rispetto del dettato normativo. Ad esempio, in tema di salute e sicurezza dei lavoratori, sarà necessario che l’impresa adempia a quanto previsto, in Italia, dal c.d. Testo Unico sulla Sicurezza d.lgs. 81/2008.

Sempre di rispetto legislativo si tratta nel caso della creazione di un’organizzazione societaria improntata alla legalità, ad esempio al rispetto delle norme penali in tema di corruzione.

Se il fare impresa secondo legge è un obbligo, il fare impresa in modo socialmente responsabile impone che la legalità non rimanga un mero principio, ma venga attuata nella vita aziendale, mediante la predisposizione di policy e procedure da farsi rispettare all’interno e all’esterno dell’impresa.

Ma vi è di più. Se l’imprenditore esige che l’operato di tutti sia conforme ai dettami normativi, creerà un’organizzazione e una gestione tale da rendere difficile la mancata applicazione delle procedure implementate in azienda. Tutto questo altro non è che l’adozione di un Modello di organizzazione ai sensi del d.lgs. 231/2001 e del relativo codice etico.

CSR e standard volontarie

La CSR nei confronti dei lavoratori, si esplicita nei requisiti richiesti dallo standard SA 8000.

La CSR per la corretta gestione della supply chain si declina attraverso la definizione di criteri per la qualifica dei fornitori, di procedure di controllo dei medesimi rispetto agli obiettivi aziendali in tema di sostenibilità.

Altro punto di partenza per riflettere sulla responsabilità sociale è la ISO 26000. Lo standard definito a livello mondiale nel 2010, è una linea guida, non una norma. Ciò significa che non è certificabile da un ente di parte terza, come lo sono le ISO per la gestione della qualità o dell’ambiente.

Si tratta quindi di uno strumento per la diffusione della CSR che offre degli spunti di riflessione per le aziende che desiderano approcciare la responsabilità sociale d’impresa.

Ogni impresa infatti declinerà la CSR secondo la propria attività e le proprie esigenze.

Attraverso una corretta gestione delle relazioni sociali, i progetti che aumentano il valore degli affari (cd. business value) si fondono con i progetti che creano valore per il sociale (cd. social value), producendo un valore condiviso (cd. shared value) e generando un considerevole ritorno di immagine.

[1] Indagine pubblicata da Nielsen, “Doing Well by Doing Good”, giugno 2014, condotta tra il 17 febbraio e il 7 marzo 2014, intervistando oltre 30.000 persone in 60 Paesi, nelle regioni Asia-Pacifico, Europa, America Latina, Medio Oriente, Africa e Nord America.