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Categoria: Contrattualistica

Che ne è stato di Fiorucci?

Il famoso brand dell’omonimo stilista ha passato negli ultimi due decenni non poche vicissitudini legali che possono costituire un interessante spunto di riflessione per il settore del Fashion.

Elio Fiorucci, uscito dalla Fiorucci S.p.A. nel 1990 aveva ceduto diversi marchi denominativi e figurativi contenenti il patronimico Fiorucci alla Giapponese Edwin Co. Quest’ultima, nel 1999 registrava il marchio denominativo «Elio Fiorucci» per una serie di prodotti (articoli di profumeria, in cuoio, di valigeria e di abbigliamento). L’imprenditore, però, contestava la registrazione, sostenendo che il suo nome godeva in Italia di una tutela particolare: infatti i nomi noti di persona possono essere registrati come marchio soltanto dal titolare o con il consenso di questi. Nel caso di specie, nessun consenso era stato dato.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea accoglieva la tesi dello stilista affermando che il titolare di un patronimico notorio, indipendentemente dal settore nel quale tale notorietà è stata acquisita ed anche se il nome della persona notoria è già stato registrato o utilizzato come marchio, ha il diritto di opporsi all’uso di tale nome come marchio, in caso di mancato consenso alla registrazione. Sulla base di questa sentenza, il marchio «Elio Fiorucci» non poteva essere più usato dalla multinazionale giapponese che nel 1990 ha acquisito tutto il patrimonio creativo della società italiana, compresi tutti i marchi di cui essa era titolare, parecchi fra i quali contenevano l’elemento «Fiorucci».

Dopo questa prima vicenda giudiziaria lo stilista aveva in seguito registrato il marchio “Love Therapy By Elio Fiorucci” ed altri marchi simili contenenti tutti il nome Elio Fiorucci.

La Edwin Co. si era quindi rivolta al Tribunale di Milano lamentando:

– la violazione dei propri diritti esclusivi e

– la concorrenza sleale per imitazione idonea a generare confusione.

Il tribunale aveva però ritenuto che il marchio contestato non fosse da considerare in contraffazione dei marchi anteriori Fiorucci in quanto utilizzava il cognome insieme al nome dello stilista e impiegava la particella “by” indicando l’intervento personale del creativo, il tutto in una posizione defilata rispetto alle parole “Love Therapy”. Pertanto, il patronimico “Fiorucci” era stato utilizzato legittimamente, secondo il tribunale, in quanto avente funzione descrittiva e non di marchio. Questa decisione era successivamente confermata in grado di appello.

A sovvertire il pronunciamento dei primi due gradi di giudizio è però intervenuta la Corte di Cassazione con sentenza n. 10826, del 25 maggio 2016 la Corte di Cassazione.

La Cassazione richiamandosi alla giurisprudenza consolidata ha chiarito che “l’uso commerciale del nome patronimico deve essere conforme ai principi della correttezza professionale e non può quindi avvenire in funzione di marchio, cioè distintiva, ma solo descrittiva (…); ne consegue che sussiste la contraffazione quando il marchio accusato contenga il patronimico protetto, pur se accompagnato da altri elementi”.

Sulla scorta di tali premesse la Suprema Corte conclude che la persona che registra il proprio patronimico come marchio e poi cede il marchio a prezzo congruo può ancora utilizzare il patronimico con riferimento descrittivo alle proprie attività professionali.

Qualora sia “superata” la suddetta esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona, l’inserimento nel nuovo marchio del patronimico violerebbe la correttezza professionale e non sarebbe giustificabile.

Nel caso di “Love Therapy by Fiorucci” l’impiego del cognome Fiorucci aveva ampiamente travalicato la funzione descrittiva, sia nelle attività riconducibili al lavoro creativo del designer sia nell’attività di commercializzazione di prodotti di altre imprese nei settori più disparati.

Cosa insegna il caso Fiorucci?

Senza entrare nel merito dei principi scomodati dalla Giurisprudenza Comunitaria e Nazionale per risolvere le diatribe sopra menzionate, quello che ci preme sottolineare è l’importanza di un’accurata regolamentazione contrattuale dell’utilizzo del patronimico, che abbia acquisito valenza di brand e sia al contempo riconducibile ad un designer (titolare o meno dell’impresa che sfrutta questo brand).

Realizzare creazioni sotto il proprio nome è una scelta comune e molto spesso naturale per gli stilisti, nel mondo della moda. Per proteggere il proprio brand gli stilisti registrano il proprio nome come marchio; questo ha certamente molti vantaggi, ma è altresì importante sapere che tale registrazione incorporante un patronimico costituisce a tutti gli effetti un “asset commerciale”.

In questo modo quindi, tutte le volte in cui tale “asset” viene ceduto (o addirittura perduto come può accadere in caso di fallimento dell’impresa, o in caso di licenziamento/dimissioni dello stilista lavoratore dipendente), vi sono delle conseguenze non trascurabili.

Lo stilista infatti, come chiarito dalla Cassazione, non potrà più utilizzare il patronimico in questione per finalità diversa da quella meramente descrittiva.

Al contempo però la stessa azienda rimasta titolare del brand non potrà utilizzarlo in modo indiscriminato ed effettuare nuove registrazioni che coinvolgano il patronimico.

Quali sono dunque le possibili soluzioni?

Dal punto di vista dell’impresa la soluzione è certamente costituita da clausole contrattuali volte a garantire il più ampio sfruttamento possibile del brand, nei limiti in cui ciò non violi il diritto al nome, inteso in senso privatistico e costituzionalmente garantito, del designer stesso. Ferma in ogni caso la consapevolezza che l’utilizzo da parte dello stesso stilista del proprio nome con valenza commerciale e non semplicemente descrittiva potrà essere contestata ed efficacemente “bloccata” dalla Società titolare del marchio registrato.

Dal punto di vista dello stilista, sarà necessaria lungimiranza nella gestione di questo bene. In vista di cessioni di azienda o di ramo di azienda lo stesso potrebbe valutare la costituzione di società ad hoc a cui cedere il brand incorporante il patronimico, stipulando poi con l’acquirente dell’azienda ceduta contratti di concessione dell’utilizzo dello stesso. In questo modo lo stilista potrà conservare la titolarità del marchio recante il proprio patronimico pur non limitando lo sfruttamento commerciale dello stesso da parte dell’acquirente concessionario.

Questo tipo di accordi non solo potranno avere una durata limitata nel tempo ma potranno essere accompagnati da tutte le condizioni contrattuali di volta in volta necessarie a salvaguardare le possibili attività commerciali future del medesimo stilista.

Terminiamo con questo articolo la nostra rassegna di alcune delle Start-up del Fashion che lo scorso 7 aprile sono state presentate presso il noto incubatore H-Farm, in occasione di una visita organizzata da Antia (Associazione Italiana tecnici professionisti del sistema moda), a cui Consulenza Legale Moda ha partecipato. L’ultima (ma non meno importante) start-up di cui vogliamo raccontarvi si chiama deSwag: si tratta di un Fashion Game in cui i giocatori competono tra loro per aggiudicarsi i capi e gli accessori più in voga tra le principali fashion-icon. I giocatori possono così rimanere aggiornati sui trend del momento e, in caso di vittoria, potranno “sbloccare” il capo vinto e farlo indossare al loro avatar… Ma c’è di più! Al termine del gioco, per chi non fosse soddisfatto della vittoria “virtuale” potrà farla propria nella vita reale, acquistandola on line.

Vi raccontiamo di più di questa idea innovativa e divertente con l’intervista che abbiamo fatto ad una delle fondatrici: Clara Fraccia.

Come nasce deSwag?

deSwag nasce come progetto di tesi di fine triennio allo IED Moda di Milano con l’intento di creare qualcosa di unico e innovativo nell’ambito del marketing e comunicazione del settore moda. L’idea di unire due realtà apparentemente distanti tra loro (moda e videoludica) ci è sembrata fin dall’inizio sfidante. Diverse analisi di mercato avevano confermato quanto la moda si stesse sempre più orientando verso trend come il gaming e la personalizzazione, pur non avendoli ancora esplorati in maniera significativa. Il nostro intento iniziale era quello di dare vita a un fashion game ironico e divertente: uno scacciapensieri composto da una serie di giochi semplici e intuitivi che intrattenessero le persone con un forte interesse per la moda. Il giocatore avrebbe così “giocato alla moda” indossando virtualmente sul proprio avatar tutto quello che poi avrebbe potuto anche acquistare con un semplice click.

Che livello di complessità aveva raggiunto la vostra start-up quando siete arrivati in H-Farm?

Ci siamo presentate al comitato investimenti di H-FARM durante l’H-ACK FASHION, con la nostra tesi di trecento pagine e un mockup dimostrativo, suscitando un forte interesse per la creatività e l’unicità alla base dell’idea. Idea che era già ben consolidata, in quanto frutto di mesi di analisi di mercato e studio del target identificato. Il gioco è stato infatti interamente pensato e realizzato andando incontro alle esigenze del nostro giocatore di riferimento e seguendo i trend del momento, sia nella moda sia nel gaming. deSwag è presente sui principali social network sin dal momento della sua nascita e, proprio grazie all’apprezzamento riscontrato attraverso le nostre pagine, siamo riuscite a catturare l’attenzione di famosi designer tra cui Stefano Gabbana, che ci sostiene tuttora. L’essere state poi selezionate da H-FARM è stata per noi un’ulteriore convalida che l’idea di trasformare un progetto di tesi in un vero e proprio progetto di impresa fosse fondata.

Quale parte del supporto fornito da H-Farm è stato, secondo lei, di maggiore importanza?

H-FARM è stata innanzitutto per noi fondamentale per entrare a far parte del mondo delle startup, a noi prima sconosciuto. Senza i servizi e la struttura che H-FARM ci ha fornito, durante tutto il periodo di incubazione, non saremmo riuscite a focalizzarci esclusivamente sul progetto e a costruire il team, che è stata forse la parte più complessa e delicata dell’intero percorso. Abbiamo avuto inoltre l’opportunità di entrare in contatto con il grande network di H-FARM e di presentare deSwag a importanti aziende che operano nel fashion, con cui ora stiamo portando avanti una potenziale collaborazione. Non in ultimo sono stati fondamentali tutti i mentor e le persone che ci hanno seguito in questo percorso, della durata complessiva di un anno, dal cui confronto abbiamo avuto modo di consolidare il nostro modello di business.

Come avete gestito e formalizzato i ruoli di ciascuno startupper all’interno del progetto?

Il team deSwag è attualmente composto da 6 persone, più 2 manager professionisti come advisor e 2 vip advisor. Io e Francesca ci siamo conosciute e siamo diventate amiche durante i nostri rispettivi corsi di studio allo IED: Fashion Marketing e Fashion Communication. Siamo le due founder e ci siamo suddivise i ruoli a seconda delle nostre competenze ed esperienze: io mi occupo del prodotto e del business e Francesca della comunicazione e della selezione dei look. In team sono inoltre fondamentali: Laura in quanto illustratrice, Mattia come sviluppatore dell’app su iOS, Jenny e Vincenzo i due game designer.

Come avete gestito e formalizzato il ruolo dei business-angel?

La prima realtà che ha creduto in deSwag è stata H-FARM, che ci ha selezionato tra oltre 500 application, permettendoci di partecipare al programma di accelerazione e investimento (H-CAMP Spring 2015). Ora siamo in contatto con diversi business angel, che abbiamo conosciuto durante eventi mirati, che ci aiutino a far partire il nostro business promuovendolo inizialmente sul mercato italiano.

Quali sono state le conoscenze/competenze di cui avete avuto maggiore necessità nel portare avanti il vostro progetto?

Imparare a creare e pianificare giorno dopo giorno le attività necessarie allo sviluppo della propria startup. Abbiamo imparato a fare un po’ di tutto per poter poi capire le risorse necessarie per accrescere il nostro business. Avere poi le manifestazioni di interesse da parte dei brand e dei giocatori è la nostra spinta quotidiana a voler sempre dare il nostro meglio con nuove idee e proposte ad hoc, a seconda del brand che vuole utilizzare deSwag come nuovo canale di promozione e vendita dei propri prodotti. Avviare una startup è un’esperienza unica nel suo genere, che solo chi ne ha avuta una può davvero capire. Significa mettersi ogni giorno alla prova con una nuova sfida e imparare a credere in se stessi e nelle proprie capacità. Il consiglio che ci sentiamo di dare a chi volesse intraprendere il nostro stesso percorso è quello di trovare persone qualificate e altrettanto innamorate del progetto quanto chi l’ha fondato. Ma soprattutto saper ascoltare i pareri altrui senza però perdere di vista la visione che solo chi ha avuto l’idea può e deve avere.

Che futuro vede per DeSwag?

deSwag, grazie a tutto il lavoro di questo anno, si é trasformata da tesi ad applicazione mobile (a oggi presente sull’App Apple Store). Il progetto è ambizioso: diventare una guida di stile per l’utente che, attraverso una serie di quiz sulla moda più o meno intuitivi, potrà così informarsi su tutte le ultime news e i trend in maniera attiva e non più passiva. La giocatrice di deSwag sarà sempre aggiornata sul mondo dei brand che ama e ha sempre sognato. Grazie all’attenta selezione dei look, suddivisi per stili e città, che si potranno scoprire sfidando le amiche, sarà possibile inoltre acquistare realmente il capo dei propri sogni (incentivate anche da meccaniche di sconto che verranno prossimamente inserite). In un solo concetto: unire il lusso (per definizione esclusivo) a un mezzo democratico come il mobile gaming a cui chiunque può accedere. Ci piacerebbe che diventasse un nuovo contenitore editoriale attraverso il quale tutte le appassionate di moda si possano informare, divertire e acquistare tutto quello che più desiderano.

Ringraziamo Clara per l’intervista e vi invitiamo a seguirci per rimanere aggiornati sulle principali novità e aggiornamenti di Consulenza Legale Moda.

Come acquisti la materia prima per realizzare i capi o accessori che immetti sul mercato?

Nel settore della moda, che si tratti di pellame, di tessuti o di accessori, l’approvvigionamento viene di solito effettuato sulla base di campioni. Campioni di stoffa, di pelle, di accessori (applique, bottoni, zip, patch ecc.) che l’acquirente, dopo aver visionato acquista chiedendo una fornitura di beni dello stesso tipo di quelli esaminati, nella quantità a lui necessaria.

Questo tipo di vendita, detta “a campione” o “su tipo di campione”, è comunissima nel settore moda e utilizzata moltissimo in occasione delle fiere di settore. Essa ha delle importanti implicazioni giuridiche che davvero pochi addetti ai lavori conoscono. Ignorare la disciplina della vendita su campione significa accettare dei rischi non indifferenti

Ecco dunque quello che c’è da sapere ogni volta che si conclude un contratto di vendita di questo tipo.

Il campione

Il campione può avere una duplice valenza:

  1. essere considerato come specifico termine di paragone (in questo caso si tratta di vendita su campione, prevista all’art. 1522 codice civile primo comma[1])
  2. essere considerato un parametro indicativo della qualità della merce (in questo caso si tratta di vendita su tipo di campione, prevista all’art. 1522 codice civile secondo comma[2]).

È importante che risulti ben chiara la volontà delle parti circa il valore da attribuire al campione dato che:

  • nel primo caso, la legge consente di risolvere la vendita per qualsiasi difformità, anche di lieve entità;
  • mentre nel secondo, il compratore può risolvere il contratto, soltanto se la merce presenta una difformità qualitativa notevole rispetto a quella del campione tipo.

Cosa succede se le parti non specificano che tipo di vendita intendevano perfezionare?

La risposta a questa domanda ce la forniscono i tribunali nel risolvere questioni su tale punto specifico: la giurisprudenza[3] infatti tende a ritenere che si tratti di vendita su tipo di campione. In assenza quindi di uno specifico riferimento alla vendita su campione il compratore potrà risolvere il contratto, soltanto se la merce presenta una difformità qualitativa notevole rispetto a quella del campione tipo visionato in fase di acquisto.

Le implicazioni di questo orientamento non sono di poco conto! Per fare un esempio: una lieve differenza di colore del tessuto, non consentirebbe di poter risolvere il contratto con la restituzione del bene da una parte, e del prezzo corrisposto, dall’altra. Sarebbe soltanto possibile ottenere una riduzione del prezzo.

Peccato che in questo settore una sfumatura diversa di colore non è un dettaglio, soprattutto per coloro che, producendo per importanti griffe del settore devono rispettare capitolati di produzione che non lasciano margine di errore.

È chiaro quindi come, precisare contrattualmente che la propria volontà è nel senso di concludere una vendita su campione e non già su tipo di campione diventa di fondamentale importanza.

Lasciare questa circostanza non specificata, imporrebbe, in caso di contestazione, la necessità di ricorrere a prove testimoniali alquanto difficili (spesso addirittura non ammesse dal giudice), volte a chiarire che valore avevano attribuito le parti a quel campione, se come effettivo termine di paragone, ovvero come indicazione generica circa le caratteristiche della merce.

A prima vista, si potrebbe pensare che la vendita su campione, sia una tipologia contrattuale che tuteli maggiormente il compratore in caso di difformità della merce.

In realtà, anche per il venditore tale contratto sortisce degli effetti positivi. Ad esempio, la vendita su campione, non impone al venditore di dimostrare che la merce sia conforme al campione.

Il venditore ha l’onere di dimostrare soltanto la consegna della merce, mentre al compratore incombe l’onere di dimostrarne l’eventuale difformità rispetto al campione.[4]

A tal fine potrebbe essere utile prevedere che il campione venga consegnato al compratore ai fini del controllo, o anche ad un terzo, che potrebbe fungere da custode imparziale o di perito (qualora abbia particolari competenze), ovvero del soggetto incaricato dalle parti di compiere una valutazione tecnica (a prescindere dalle sue competenze).

L’aspetto della conservazione del campione assume difatti un rilievo fondamentale dato che, per dimostrare la difformità della merce, è necessario avere il termine di paragone.

Cosa succede se il campione è stato smarrito?

La giurisprudenza e la dottrina si dilettano ad esprimere la loro opinione circa gli effetti dello smarrimento del campione, giungendo alle seguenti conclusioni.

1. Nel caso di smarrimento del campione da parte del compratore, si dovrebbe presumere, fino a prova contraria, la conformità delle cose consegnate.

2. Qualora invece fosse colpa del venditore, si dovrebbe presumere, fino a prova contraria, che la merce fosse difforme.

Da ultimo, se lo smarrimento non fosse attribuibile ad alcuno, la vendita si risolverebbe per impossibilità sopravvenuta, comportando quindi la restituzione della merce da un lato e la restituzione del prezzo dall’altro.

Rimane invero praticabile un’altra via: quella cioè di qualificare altrimenti la vendita, come non appartenente al tipo speciale in considerazione, ma come una vendita semplice, ovvero non a campione, con tutti le problematiche già analizzate in questo nostro articolo.

Quale soluzione quindi per il caso di smarrimento del campione?

Le parti potrebbero prevedere, a livello contrattuale, quali sono gli effetti della perdita, smarrimento, deterioramento etc. del campione: ricordiamoci infatti che il contratto “ha valore di legge tra le parti”.

Pertanto, la volontà delle parti prevarrebbe sulle soluzioni interpretative, a volte anche fantasiose, dei giuristi.


[1] Art. 1522 c.c., primo comma: “Se la vendita è fatta su campione, s’intende che questo deve servire come esclusivo paragone per la qualità della merce, e in tal caso qualsiasi difformità attribuisce al compratore il diritto alla risoluzione del contratto”.

[2] Art. 1522 c.c., secondo comma: “Qualora, però, dalla convenzione o dagli usi risulti che il campione deve servire unicamente a indicare in modo approssimativo la qualità, si può domandare la risoluzione soltanto se la difformità dal campione sia notevole” [1455[2]].

[3] Per identificare un contratto di vendita “su campione”, ai sensi dell’art. 1522 cod. civ., è necessaria una volontà delle parti espressa nel senso di assumere il campione come esclusivo paragone per la qualità della merce, o così ricostruibile oltre ogni ragionevole dubbio; in caso contrario, la vendita deve intendersi, ai sensi del secondo comma, “su tipo di campione”, dovendosi ritenere che le parti, come avviene normalmente, abbiano assunto il campione per indicare in modo approssimativo la qualità della merce venduta.(cfr. Cassazione civile sez. II  24 giugno 2013 n. 15792)

[4] Nella vendita su campione il venditore non ha altro obbligo che quello di provare di aver consegnato la merce contrattata, senza che egli possa essere tenuto a provarne la conformità, laddove l’onere di provare che la merce non aveva le caratteristiche richieste e risultanti dal campione, incombe al compratore, a dimostrazione del fondamento dell’eccezione opposta alla pretesa del venditore; inoltre, la prova della relativa difformità deve essere valutata esclusivamente mediante il raffronto con il campione, sicché ove il campione manchi o non sia esibito con le necessarie garanzie d’identificazione, viene meno la possibilità di accertare l’inadempimento del venditore in ordine alla particolare qualità della merce oggetto della convenzione. (cfr. Cassazione civile sez. VI  12 giugno 2012 n. 9582).

Ti sarà capitato sicuramente, nella tua esperienza di imprenditore, di aver subito dei danni a causa di una fornitura consegnata oltre il termine previsto, oppure a causa di una lavorazione fatta da terzi non a regola d’arte.

Capita spesso che, per preservare i rapporti commerciali, l’imprenditore decida di non quantificare la perdita subita (cd. danno emergente) e il mancato guadagno (cd. lucro cessante) a colui che ha causato il danno.

A volte capita che lo stesso imprenditore non sappia quali siano effettivamente i danni che ha subito perché è talmente abituato a considerare “normalità” i ritardi nelle consegne o gli errori nelle lavorazioni.

Anche nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia consapevole della perdita subita, riesce con difficoltà a quantificare il guadagno che avrebbe potuto avere nell’ipotesi in cui, ad esempio, la lavorazione fosse stata effettuata a regola d’arte, senza la necessità di ulteriori rilavorazioni: in questo caso quindi è chiaro l’ammontare del danno emergente ma non quella del c.d. lucro cessante.

Internet delle cose: gli oggetti prendono vita

 In base all’ultimo rapporto degli Osservatori del Politecnico di Milano, in Italia nel 2015 vi erano 8 milioni di oggetti connessi, per un valore di 1,15 miliardi di euro: il 38% erano sulle auto, l’8% nelle case[1].

Questo è solo un aspetto della rivoluzione in atto: grazie al cd. Internet of Things (IOT), gli oggetti, mediante la rete internet comunicano, rendono accessibili informazioni e, in generale, acquisiscono un’identità elettronica.

Gli sviluppi di questa tecnologia fanno ormai parte della vita quotidiana: il frigorifero che invia un messaggio se la porta rimane aperta, i sensori che identificano e tracciano gli inquilini all’interno di un’abitazione, la scarpa che misura la nostra agilità e movimento.

La nostra quotidianità è – e sempre più sarà – invasa di oggetti intelligenti.

Quali sono invece gli effetti che l’Internet of Thing può avere sulla produzione di beni?

I sensori intelligenti possono intervenire su vari aspetti della tua impresa. Pensa alla gestione della logistica: dotare le merci di un sensore che rileva la loro posizione in tempo reale.

Questa possibilità di quanto semplificherebbe la gestione delle tue merci?

Il tessuto uscito dalla fabbrica che comunica il suo arrivo nel laboratorio di confezioni….

Il container comunica ciò che e contenuto all’interno…

La borsa che comunica di essere originale e non contraffatta…

L’identità in Rete di ciascun bene, ti permette di geo-localizzarlo e di sapere in ogni istante dove si trova.

Quante volte ti sarà capitato di acquistare un bene, ad esempio un dispositivo elettronico, e di dover ritornare nel negozio dove lo hai acquistato, perché non funzionava, munito di regolare scontrino?

Il commesso, una volta verificato che effettivamente il dispositivo non funziona, si è occupato della restituzione del medesimo, dandotene uno nuovo e, si spera, perfettamente funzionante.

Se questa è la situazione-tipo che tutti noi, come consumatori, viviamo, la realtà per gli imprenditori è diversa. Gli scambi commerciali B to B, ovvero business to business, rispondono a delle logiche ed a delle leggi diverse.

Che cosa succede quando compri un bene da un tuo fornitore e questo presenta dei vizi?

Prima di tutto è necessario capire che cosa si intende per vizio.

Benvenuto in Consulenza Legale Moda!

Se sei alla ricerca di consigli e informazioni utili su come gestire i tanti aspetti legali che interessano le aziende del settore Fashion, sei nel posto giusto!

Come può un’azienda lavorare al giorno d’oggi se è sempre più “imbrigliata” tra i moltissimi adempimenti normativi e le tante restrizioni poste dall’Italia e dall’Unione Europea?” Questa è la domanda che ci pongono sempre più spesso gli imprenditori.

Per tale ragione abbiamo deciso di offrire una consulenza legale specialistica per il settore moda. Vogliamo consentire agli imprenditori del Fashion di pensare soltanto a realizzare il loro prodotto al meglio, occupandoci noi di qualsiasi questione tecnica e giuridica.

In un settore sempre più a vocazione internazionale, estremamente competitivo e acciaccato dagli effetti della crisi, ha successo solo chi riesce a lavorare in modo eccellente.

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La certificazione OEA o, meglio, A.E.O. – Authorized Economic Operator, consente di avvalersi di vantaggi ed agevolazioni di natura diretta ed indiretta relativamente alle operazioni doganali poste in essere.

Si tratta, ad esempio, di facilitazioni per i controlli di sicurezza, riduzione della quantità di dati da fornire per la dichiarazione sommaria, minori controlli fisici e documentali, maggiore velocità nelle spedizioni e diminuzione dei problemi legati alla sicurezza.

La normativa di riferimento è contenuta nei Regolamenti (CE) n° 648/2005 e n° 1875/2006 che modificano, rispettivamente, il Codice Doganale Comunitario (Reg (CE) n° 2913/1992) e le Disposizioni di Applicazione del Codice (Reg. (CE) n° 2454/1993), in merito al rilascio agli operatori economici che ne faranno richiesta di un certificato AEO/semplificazioni doganali, o AEO/Sicurezza, o AEO/semplificazioni doganali e Sicurezza, tutti con valenza comunitaria.

Il programma di certificazione comunitaria si applica agli operatori economici ed ai loro partner commerciali che intervengono nella catena di approvvigionamento internazionale, ossia ai fabbricanti, agli esportatori, agli speditori/imprese di spedizione, ai depositari, agli agenti doganali, ai vettori, agli importatori che, nel corso delle loro attività commerciali, prendono parte ad attività disciplinate dalla regolamentazione doganale e si qualificano positivamente rispetto agli altri operatori, in quanto ritenuti affidabili e sicuri nella catena di approvvigionamento.

L’affidabilità comunitaria e lo status di AEO/doganale sono riconosciuti, a seguito di apposito accertamento dell’Autorità doganale nazionale, a chi comprova il rispetto degli obblighi doganali, il rispetto dei criteri previsti per il sistema contabile, la solvibilità finanziaria; per il riconoscimento dello status di AEO/sicurezza si deve dimostrare, oltre al possesso dei predetti requisiti, anche quello relativo alla rispondenza ad adeguate norme di sicurezza.

Per ottenere la certificazione A.E.O., pertanto, il richiedente deve dimostrare di disporre di misure idonee a garantire la sicurezza della catena internazionale di approvvigionamento anche per quanto riguarda l’integrità fisica e i controlli degli accessi, i processi logistici e le manipolazioni di specifici tipi di merci, il personale e l’individuazione dei partner commerciali.

L’operatore economico non è obbligato a divenire Operatore Economico Autorizzato: si tratta di una scelta individuale, che dipende dalle condizioni operative di ciascun soggetto.

Nello stesso senso, l’Operatore Economico Autorizzato non è tenuto ad esigere dai suoi partner commerciali che anche essi ottengano lo status di AEO. Infatti, ogni Operatore Economico Autorizzato è responsabile del proprio segmento nell’ambito della catena di approvvigionamento delle merci anche se, per garantire la sicurezza, si tiene conto delle misure applicate da tutti i partner commerciali dell’operatore interessato.

Succede, pertanto, che il soggetto richiedente la certificazione AEO inviti, a sua volta, i partners commerciali alla sottoscrizione di una dichiarazione che attesti il rispetto della normativa sulla sicurezza della catena logistica. Questo invito, il più delle volte, è una vera e propria richiesta al partner commerciale di diventare a sua volta Operatore Economico Autorizzato, al fine di semplificare e velocizzare le operazioni doganali anche in vista della completa applicazione del Codice doganale dell’Unione Europea che avverrà il 1° maggio 2016, e che favorisce tale tipologia di certificazione (Reg. CE n. 952/2013, artt. 38 – 41).