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Categoria: Processi industriali

Sono molti i termini utilizzati dalle aziende per indicare e qualificare il loro impegno in progetti legati alla sostenibilità, anche coniugandola con tradizione e Made in Italy, tramite la ricerca in innovazione.

Dopo il caso del manichino eco-sostenibile, vediamo un altro caso di eccellenza italiana ‘green’, nel settore dell’abbigliamento.

Per Eurojersey, azienda specializzata in tessuti tecnici, quella che è stata l’intuizione per il miglioramento del processo produttivo è stata la scelta di non delocalizzare. Una scelta forte, non priva di lati “scomodi”, ma lungimirante, volta alla realizzazione del tessuto sul proprio territorio: tale decisione ha permesso all’azienda di prendersi cura direttamente, sia del prodotto che realizza, sia della salute del territorio stesso.

Proprio da questa scelta e filosofia produttiva sono derivati importanti vantaggi di costo che hanno portato ad un’evoluzione dei prodotti aziendali, per mezzo di una continua ricerca interna, anche in ottica di un crescente abbattimento dei costi ambientali.

In particolare, la ricerca si è tradotta nel risparmio diretto di risorse impiegate nel ciclo produttivo, nell’innovazione nella fase di stampa dei tessuti (con il metodo brevettato Eco-Print), e nel packaging dei tessuti: tutti step intrapresi ed orientati al miglioramento qualitativo delle lavorazioni, da cui è derivato un vantaggio in termini di sostenibilità.

Per rendere documentati i risultati, Eurojersey ha proceduto a certificare il processo produttivo, con la certificazione EPD (Environmental Product Declaration) che permette di quantificare l’emissione di Co2 per mq di tessuto prodotto.

Una rete forte e una filiera corta: la giacca a basso impatto

Le leve strategiche del caso Eurojersey sono state il Made in Italy, il ricorso alla filiera corta e l’utilizzo del contratto di rete tra imprese. Credendo in questo, è nata una partnership con RadiciGroup, importante realtà italiana nella produzione di nylon, ed Herno S.p.A., azienda specializzata nell’urban outerwear di qualità.

Dalla sinergia fra queste tre eccellenze italiane prende avvio uno studio per la produzione di una giacca dall’impatto ambientale certificato, primo e unico studio scientifico in Europa di sostenibilità su un capo moda, che si traduce in una giacca 100% Made ‘green’ in Italy.

Il punto di partenza è stata la metodologia PEF (Product Environmental Footprint), introdotta nell’UE attraverso la Raccomandazione 2013/179/CE, che tiene in considerazione 16 parametri – tra cui il consumo di energia primaria, gli effetti cancerogeni sull’uomo, l’utilizzo del suolo, quello dell’acqua, e molti altri – per determinare l’impronta ambientale dei prodotti e stabilire la conformità con lo schema nazionale volontario per l’etichettatura “Made Green in Italy”[1].

L’obiettivo dello studio, che ha portato alla realizzazione del capo, è stato quello di valutare l’impatto ambientale di una giacca da uomo lungo tutte le fasi del suo processo produttivo, dal filo al tessuto, fino al confezionamento del capo pronto, interamente realizzato in Italia.

Il monitoraggio dell’impronta ambientale ha avuto come oggetto nello specifico:

  • Il consumo di energia primaria
  • I cambiamenti climatici
  • La riduzione dello strato di ozono
  • L’acidificazione
  • L’eutrofizzazione acquatica, marina e terrestre
  • Gli effetti cancerogeni sull’uomo
  • Altra tossicità non cancerogena sull’uomo
  • La tossicità sull’ambiente (ecotossicità)
  • L’emissione di polveri sottili
  • Le radiazioni iodizzanti
  • L’utilizzo del suolo
  • L’impoverimento delle risorse minerali, fossili e rinnovabili
  • L’impoverimento delle risorse idriche.

La giacca ‘green’ è stata presentata nel corso dell’ultima edizione di Pitti Immagine Uomo all’interno della collezione primavera-estate 2017.

Il capo, realizzato con filati del Gruppo Radici e tessuti Sensitive® Fabrics by Eurojersey, ha consentito una riduzione dell’utilizzo delle risorse idriche, con parametri inferiori allo 0,4%: un traguardo importantissimo se confrontato con l’indicatore riferito ai consumi medi annui di un cittadino europeo.

Il progetto è proseguito con una valutazione “parallela” dell’impatto della produzione dello stesso capo, realizzato però con una modalità alternativa rispetto al suo confezionamento in filiera corta. L’esperimento ha evidenziato dei valori di emissioni di Co2 pari al 92% in più rispetto alla produzione in Italia!

Complessivamente, il costo per l’ambiente della giacca prodotta all’estero è stato di 5,22 €, contro gli 1,97 € del costo per la produzione dello stesso capo in Italia. Il modello “a filiera lunga” sarà anche meno oneroso in termini di costi diretti per la produzione di capi di abbigliamento, ma ha un costo per l’eco-sistema del 165% in più.

[1] In tema di costi ambientali, si richiama anche la legge italiana del 28 dicembre 2015 n. 221, che disciplina le disposizioni in materia ambientale per la promozione di misure di green economy e il contingentamento dell’uso eccessivo di risorse naturali, con particolare riferimento all’art. 21.

In questo articolo, già apparso sul portale della rivista specializzata Detergo, affrontiamo un argomento di interesse quotidiano quando si tratta di cura dei tessuti: la detersione dei capi con la modalità “a secco”, ampiamente utilizzata perché risulta pratica come alternativa al classico lavaggio “ad umido”, ed in particolare per alcuni tipi di fibre, come ad esempio quelle che non sopportano il contatto con l’acqua.

Sicuramente al giorno d’oggi è assodato che il lavaggio a secco è una valida alternativa al lavaggio “classico” ad umido che tutti noi utilizziamo nell’ambito domestico e non. La rimozione dello sporco dagli indumenti ed altri prodotti tessili infatti la possiamo attuare attraverso queste due vie tra loro alternative, ma tradizionali in quanto a storicità d’uso.

Le due modalità si distinguono fondamentalmente per l’utilizzo o meno dell’acqua come mezzo di pulitura, dato che comunque un detergente è possibile utilizzarlo in entrambi i casi. Nello specifico di questo articolo approfondiremo in parte l’aspetto igienico dell’azione del lavaggio a secco rispetto al lavaggio ad umido.

E’ fuor di dubbio la grande capacità del percloroetilene (o tetracloroetene, o anche tetracloroetilene) di allontanare lo sporco dal capo trattato sfruttando una semplice legge chimica per cui “ogni simile scioglie il suo simile” ed è per questo motivo che, nonostante l’attenzione che richiede il suo impiego e le recenti indagini sulla sua pericolosità per l’uomo, ne hanno fatto per decenni e ne fanno, il solvente ideale per questo tipo di pulitura nel tessile. Ma quali sono le conoscenze in merito alla possibile azione battericida data dal percloroetilene?

Per quanto riguarda il lavaggio per via umida è oramai dato certo che, combinando l’azione antibatterica congiunta della temperatura (a partire da 40°C) a quella di un detergente con composti ad azione battericida all’interno, è possibile ottenere un elevato standard igienico sanitario.

Test scientifici sono stati effettuati in passato sin dagli anni Venti del secolo scorso[1], ma i risultati più certi e accreditati risalgono agli anni Sessanta[2], anni in cui lo sviluppo post bellico era in piena espansione e molti istituti di ricerca erano dediti a studi di carattere scientifico applicativo relativamente alle scoperte di allora. Anche il lavaggio a secco ed il percloroetilene sono stati protagonisti di questi lavori e i risultati furono sorprendenti per gli studi dell’epoca. L’azione meccanica di lavaggio, unita alle proprietà chimiche del prodotto utilizzato, dimostrarono una buona azione antibatterica del solvente che risultò efficace e competitivo nei confronti di altri solventi, sempre di matrice organica, e derivati dal petrolio utilizzati nei test di verifica. Dati alla mano dimostrarono un abbattimento della carica batterica presente fino all’ 80%.

Un potenziamento di questa efficacia si dimostrò con la combinazione detergente-solvente che permise di abbattere la carica batterica eliminando un più vasto campione di specie batteriche.

E’ innegabile come il problema dell’igiene dei capi stia tornando sempre più di attualità anche in funzione della delocalizzazione delle produzioni tessili in aree del mondo in cui, per cultura e/o necessità, le condizioni igieniche non sono paragonabili a quelle del continente Europa.

E’ caso recente, ad esempio, come irritazioni cutanee siano state lamentate da consumatori a seguito dell’indosso di capi: a causare il disturbo è stata riscontrata la presenza sull’epidermide di punture ad opera di parassiti (a lato la foto di deposizione di uova di parassiti sulle fibre del capo in analisi per conferma).

Oggi in virtù di un miglioramento della tecnologia di settore e di una sempre maggiore raffinazione del processo di produzione del prodotto, è da chiedersi se non sarebbero opportuni ulteriori studi di settore per verificare se non si possa aspirare ad un aumento di efficacia igienico sanitaria per il lavaggio a secco.

[1] “The bacterial action of dry cleaning” – Lloyd E. Jackson – Mellon Institute of Industrial Research, University of Pittsburgh.

[2] “Microbiology of Drycleaning” – Robert R. Banville and Ethel McNeil – U.S. Department of Agriculture, Washington, D.C.

In questo articolo a cura di RITEX , parliamo di una fibra naturale: la lana. I tessuti in lana sono i più utilizzati durante l’inverno perchè hanno la caratteristica di proteggere dal freddo. Di seguito analizzeremo questa e altre caratteristiche della più antica fra le fibre naturali, e le sue principali criticità, che ne interessano i processi di lavorazione.

La lana: cos’è

La lana è la fibra animale che forma il mantello protettivo della pecora ed è costituita principalmente dalla proteina cheratina, insolubile in acqua. Una fibra di lana è caratterizzata sostanzialmente da 3 componenti:

  • La cuticola che forma le caratteristiche scaglie visibili al microscopio;
  • Il cortex costituito da cellule allungate, parallele all’asse della fibra;
  • Il midollo (assente nelle fibre fini) costituito da un reticolo di pareti cellulari cave, piene d’aria.

Dal punto di vista chimico, come abbiamo detto, la lana è costituita da cheratina. Essa è una catena polipeptidica (cioè costituita da molti amminoacidi, come ad esempio la cisteina) con una struttura tridimensionale ad elica. Le singole eliche si associano tramite interazioni deboli in strutture sempre più complesse fino a formare la fibra come la conosciamo.

Tuttavia la lana greggia appena tosata contiene molte altre sostanze come ad esempio cere, sabbia, sporcizie e materie vegetali. Per questo motivo essa ha bisogno di essere pulita e trattata: lavaggio, follatura (una feltratura controllata che conferisce al tessuto una certa resistenza e compattezza), tintura, fissazione ed essiccamento sono le fasi della lavorazione più danneggianti.

Perché la lana?

La struttura fisica e chimica della lana, assieme alla sua lavorazione, conferiscono a questa fibra svariate proprietà che ne hanno diffuso l’utilizzo nel settore tessile. Ecco elencate le principali:

Elasticità e resistenza allo strappo

struttura-lana Le catene polipeptidiche grazie alla loro struttura ad elica agiscono come delle molle, cosicché le fibre possono essere allungate fino al 50% in più della loro lunghezza originale quando sono bagnate, e fino al 30% in più da asciutte. La flessibilità della fibra di lana ne aumenta la durabilità. Una fibra di lana può essere piegata su se stessa fino a 20.000 volte senza rompersi, in confronto alle 3.000 volte per il cotone e alle 2.000 volte per la seta.

Igroscopicità della fibra

struttura-lana L’igroscopicità della lana, cioè la sua capacità di assorbire l’umidità, la rende un regolatore di temperatura, in quanto è in grado di proteggere il corpo sia in condizioni di freddo che di caldo. Essa è in grado di assorbire umidità fino al 33% del proprio peso senza dare la sensazione di bagnato.

Facilità della tintura

struttura-lanaLa lana assorbe molti colori in modo uniforme e diretto. Essa reagisce infatti sia con coloranti acidi che basici, grazie alla sua struttura chimica. Il colore penetra nel midollo dove avviene la reazione chimica che lega in modo permanente il colorante, a meno di condizioni di fading estreme e prolungate.

Resistenza alla fiamma

struttura-lana La lana quando è bruciata dà un caratteristico odore, simile a quello di peli o piume bruciate. Quando è rimossa dalla fiamma, essa smette di bruciare (è autoestinguente). Pertanto, grazie anche all’umidità che è in grado di assorbire, la lana è relativamente resistente al fuoco.

Feltratura e variazione dimensionale

La feltratura è un processo di compattazione e aggrovigliamento delle fibre che si verifica quando la lana è agitata in acqua; essa è usata per produrre feltri industriali, stoffe non tessute da lana sciolta, e nei processi di finissaggio chiamati “follatura” per dare una finitura morbida e uniforme a certi tipi di tessuti di lana.

Alla base della feltratura stanno le proprietà di frizione della fibra. La frizione è dovuta alla presenza di scaglie sulla superficie della fibra, le quali agiscono come un dente di arresto. In questo modo vengono a formarsi degli aggrovigliamenti che sono di fatto irreversibili.

struttura-lana

http://www.wool.ca/uploads/files/PDF/wool-fact-sheets-charcteristics.pdf

Come anzi detto, la feltratura avviene in acqua, ed è facilitata dalla presenza di lubrificanti come il sapone, o dall’aumento della viscosità della soluzione. Inoltre, varia col pH e le condizioni di temperatura.

A seguito dell’azione meccanica sviluppata durante il lavaggio, le fibre si agganciano a quelle vicine con il conseguente restringimento del tessuto che rendono di fatto impossibile, essendo questo processo irreversibile, il ripristino delle originali  dimensioni del tessuto post trattamento. Per questo motivo, quando i tessuti sono stati finiti e trasformati in abiti, la feltratura deve essere prevenuta. Una volta questo risultato poteva essere ottenuto solo tenendo basso il livello delle forze agenti sul tessuto in modo che le fibre non potessero “agganciarsi”, o mediante il lavaggio a secco (ossia in quasi totale assenza di acqua).

Oggi sono disponibili numerosi trattamenti irrestringibili che prevengono o riducono la feltratura:

  • Rimozione delle scaglie dalla fibra: tecnica poco usata in quanto molto danneggiante;
  • Deposito di polimeri sul tessuto: con questa tecnica le fibre si incollano insieme ogni volta che vengono in contatto, impedendone l’aggancio;
  • Rivestimento delle fibre con resine dopo attacco degradante: in questo modo la presenza del polimero ne riduce la frizione ed al contempo le fibre non si incastrano;
  • Trattamento chimico della cuticola: il più comune agente usato per degradare la cheratina della cuticola, e quindi conferire irrestringibilità, è il cloro. Esso può essere usato in soluzione acquosa (acida, neutra o alcalina) o come gas. Se viene usato in struttura-lanaacqua, bisogna fare attenzione ad impedire che la degradazione proceda anche negli strati più interni della fibra, esponendo la lana solo per un tempo breve, oppure aggiungendo degli agenti che reprimano il rigonfiamento della fibra in modo che la penetrazione del cloro sia rallentata.