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LIMITAZIONE DELLA CONCORRENZA TRA SOCIETÀ

Se sei un imprenditore e gestisci la tua società cercando di ottenere grandi risultati nel tuo settore di mercato, certo non vedrai di buon occhio i tuoi possibili competitors. Ebbene, per quanto possa apparirti strano, il sistema della libera concorrenza risulta essere tendenzialmente quello che offre maggiori possibilità di crescita e di sviluppo all’economia, consentendo – almeno teoricamente – a tutti gli imprenditori di essere presenti sul mercato a condizioni sempre “migliori”.

È innegabile che si tratti di un principio per certi versi crudele, ma garantisce pur sempre a tutte le aziende una possibilità di emergere.

È per questo che sia il Legislatore italiano che quello europeo proteggono la libertà di concorrenza, attraverso la disciplina antitrust, e vedono con sfavore le sue restrizioni. Il patto di non concorrenza è una di queste.

A livello europeo sono infatti vietati tutti quegli accordi – dai veri e propri contratti, ai c.d. gentlemen’s agreements [1] – che abbiano come effetto quello di falsare la libera concorrenza (art. 101 TFUE).[2]

La normativa europea lascia spazio a quella nazionale[3] solamente in caso di intese restrittive che non abbiano effetti negativi sul commercio degli Stati membri, nonché in caso di accordi che non superino i livelli di fatturato richiesti dalla regolamentazione europea. [4]

Le due discipline non solo si compenetrano, ma contano anche ben poche differenze sostanziali.

In ambo i casi infatti le intese vietate sono quelle che tendono a compromettere il gioco della concorrenza, soprattutto attraverso attività consistenti nel:

  • fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;
  • impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;
  • ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
  • applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
  • subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi.

Nonostante la rigidità della disciplina, alcune tipologie di patti di non concorrenza sono comunque ammesse dalla legge. Con la Comunicazione “de minimis” (2014/С 291/01), la Commissione Europea ha chiarito che le intese relative a quote di mercato inferiori al 10 % (o al 15% se conclusi tra aziende non concorrenti) non risultano tendenzialmente pregiudizievoli per la concorrenza e quindi non sono proibite. Diversamente, quelle appartenenti ad una rete di accordi vengono vietate per quote di mercato superiori al 5%.

Il Legislatore italiano non ha invece definito una cd. zona di sicurezza, ovvero una percentuale al di sotto della quale – difficilmente – le intese risultano rilevanti per la libera concorrenza. Questo non significa però che tutti i patti siano di per sé vietati.

Sono infatti ammessi gli accordi che non sono volti a falsare, compromettere, manipolare il sistema della libera concorrenza (art. 2 l. 287/1990); ovvero, quelli che rispettano le condizioni stabilite dall’art. 4 co 1, l. 287/1990[5].

È in questo ridotto spazio giuridico che trova applicazione l’art. 2596 c.c.[6] Tale norma chiarisce quali siano i requisiti essenziali per la validità di un patto di non concorrenza. Di base esso è ammissibile solo se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e solamente se dotato di una durata limitata nel tempo, predeterminata – in mancanza di esplicita pattuizione delle parti – dal Legislatore, in un massimo di cinque anni. Non è necessaria la forma scritta per la sua validità, sebbene sia invece richiesta ad probationem.

Lo scopo della norma è primariamente quello di salvaguardare la libertà individuale degli imprenditori, introducendo limiti alla facoltà di prevedere vincoli perpetui o eccessivamente duraturi alla libertà di iniziativa economica; secondariamente, quello di tutelare l’integrità del mercato e l’interesse dei consumatori.

Va a questo punto fatta un’importante osservazione. L’ambito di operatività dell’art. 2596 c.c. non ricomprende tutti i patti di non concorrenza. In particolare, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale[7], i patti accessori – ovvero quelli che costituiscano degli strumenti necessari e indispensabili per la realizzazione di una più complessa operazione negoziale – non sono limitati temporalmente ad una durata massima di cinque anni. Di fatto essi risultano parte fondamentale di una più articolata forma di collaborazione commerciale e, non esaurendo la loro funzione nella mera ed esclusiva restrizione della concorrenza, non subiscono le limitazioni dell’articolo in questione.

Ad ogni modo, è bene chiarire che l’art. 2596 c.c. non contrasta affatto con la disciplina antitrust nazionale ed europea, trovando applicazione solo per gli accordi ammessi da predetta normativa.

In conclusione, nulla quindi impedisce all’imprenditore  di tentare di raggiungere un accordo con i propri competitors, purché vengano rispettati i requisiti di validità sopra esposti.

[1] Si tratta di accordi informali tra le parti, che pur non dando luogo ad alcun vincolo giuridico, vengono liberamente rispettati dai contraenti.

[2]L’art. 101 TFUE vieta tutti “gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, fingere o falsare il gioco della concorrenza”.

[3] Si fa riferimento in questo caso alla l. 287/1990 (con successive modifiche) e alle relative norme del codice civile (artt. 2596 c.c. e s.s.).

[4] Si veda quando stabilito da: Reg. 1/2003, Reg. 139/2004 e relative leggi attuative.

[5] Art. 4, comma 1, l. 287/1990: “L’Autorità può autorizzare, con proprio provvedimento, per un periodo limitato, intese o categorie di intese vietate ai sensi dell’articolo 2, che diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori e che siano individuati anche tenendo conto della necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenzialità sul piano internazionale e connessi in particolare con l’aumento della produzione, o con il miglioramento qualitativo della produzione stessa o della distribuzione ovvero con il progresso tecnico o tecnologico. L’autorizzazione non può comunque consentire restrizioni non strettamente necessarie al raggiungimento delle finalità di cui al presente comma né può consentire che risulti eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato.

[6]Art. 2596 c.c.: Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio.

[7] Ex multis, Cass. civ., sez. I, 6 agosto 1997, n. 7266, in Giust. civ., 1998, p. 811 con nota di ALBERTINI, Sui patti accessori di non concorrenza.

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