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PUO’ IL DATORE DI LAVORO IMPORRE IL VACCINO AI PROPRI DIPENDENTI E IN CASO DI RIFIUTO LICENZIARLI LEGITTIMAMENTE?

La questione, oltre ad essere più attuale che mai, risulta anche molto dibattuta. Per tali ragioni, vogliamo con questo nostro contributo non solo analizzare tutte le tesi avanzate sul tema, ma anche fornirvi il nostro parere, indicandovi alcune indicazioni pratiche.

Sul punto, infatti, vi segnaliamo la presenza di due diverse tesi:

  • la prima, secondo cui il datore di lavoro può imporre il vaccino ai propri lavoratori e in caso di rifiuto licenziarli per giusta causa;
  • la seconda, per cui il datore di lavoro non può imporre il vaccino ai propri dipendenti e conseguentemente il licenziamento è illegittimo.

Posto che la tematica è tutt’altro che semplice, vi proponiamo di seguirci in un percorso di tre appuntamenti così strutturato:

1. oggi parleremo della prima tesi, ossia quella favorevole all’imposizione del vaccino e della conseguente legittimità del licenziamento;

2. giovedì tratteremo invece la seconda tesi, ossia quella contraria all’imposizione del vaccino e al licenziamento da parte del datore di lavoro;

3. Infine, vi forniremo le nostre considerazioni pratiche, mediate un video, pubblicato nei nostri canali social (Facebook, Linkedin, Youtube).

Pronti? Partiamo!

Quadro normativo di riferimento

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Prima di addentrarci su quali sono gli elementi a favore dell’una o dell’altra tesi, è necessario individuare il quadro normativo di riferimento. Nello specifico, le norme che vengono in rilevo sono:

Art. 32 Costituzione, comma 2: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”;

Art. 2087 c.c.: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;

Art. 279 Testo Unico in materia di sicurezza (D.Lgs. 81/08), comma 2: “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

Analizziamo, quindi, il primo filone di pensiero.

La prima tesi: sì al vaccino e sì al licenziamento

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Nello specifico, coloro che ritengono che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione e conseguentemente licenziare il lavoratore in caso di rifiuto, fondano la propria tesi sui seguenti argomenti:

  1. Il contratto di lavoro. Pur in assenza di una legge che rende obbligatoria la vaccinazione anti Covid-19, il datore di lavoro potrebbe comunque imporlo per effetto del contratto di lavoro. Infatti, sebbene l’art. 32 Cost. preveda una riserva di legge, secondo il Prof. Ichino Pietro[1], l’autonomia negoziale privata può comunque disporre dei diritti assoluti della persona. In tal senso il contratto di lavoro costituirebbe un esempio evidente della disponibilità di diritti personalissimi: con esso, infatti, il lavoratore accetta la limitazione alla propria libertà di movimento, la possibilità di indagini dell’imprenditore sulle proprie attitudini e i propri precedenti professionali, la possibilità di essere sottoposto a visita medica domiciliare dal servizio ispettivo competente, e così via. Pertanto, allo stesso modo, il lavoratore dovrebbe accettare la possibilità che, pur in assenza di una norma legislativa da cui derivi l’obbligo di una determinata vaccinazione, gli si chieda di vaccinarsi. Sotto tale aspetto ciò che accadrebbe in relazione al contratto di lavoro non sarebbe molto diverso da ciò che potrebbe accadere per esempio nel contratto di trasporto, nel quale il vettore – obbligato a garantire la massima sicurezza di tutti i viaggiatori – condizioni l’accesso all’aereo o alla carrozza ferroviaria all’esibizione di un certificato di vaccinazione.
  • L’art. 2087. Le indicazioni della scienza medica ritengono che in un luogo in cui tutti sono vaccinati si realizzano condizioni di sicurezza apprezzabilmente maggiori rispetto alla fabbrica o ufficio nel quale una parte dei dipendenti non è vaccinata. Pertanto, l’imprenditore ben potrebbe, in ottemperanza all’articolo 2087 c.c., a seguito di attenta valutazione del rischio specifico nella propria azienda, richiedere a tutti i propri dipendenti la vaccinazione, dove questa sia per essi concretamente possibile. La richiesta di effettuare la vaccinazione potrebbe essere esclusa soltanto laddove si ponesse in contrasto con norme di ordine pubblico, o fosse comunque funzionale a interessi non meritevoli di tutela nell’ordinamento. Secondo i sostenitori di tali tesi l’art. 2087 c.c. costituirebbe una “norma aperta”, dunque, l’obbligo di sicurezza si arricchirebbe di contenuti concreti, via via che la scienza e la tecnica mettono a disposizione nuove misure efficaci.
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  • L’art. 279 TU. Possibile opposizione di impedimenti di natura medico-sanitaria. Viene, inoltre, sottolineato dal Prof. Ichino Pietro, che l’ammissibilità della richiesta da parte del datore di lavoro della vaccinazione non comporta che la persona interessata non possa ragionevolmente opporre un impedimento di natura medico-sanitaria. Potrebbe essere addotta, per esempio, una condizione personale di immunodeficienza (per i tipi di vaccino tradizionali), o altra patologia che sconsigli la vaccinazione, oppure lo stato di gravidanza (in relazione al quale permane una controindicazione prudenziale da parte delle autorità competenti). In questo caso il datore di lavoro dovrebbe adottare, in accordo con il medico competente e con gli altri organi preposti alla sicurezza sul lavoro, misure appropriate per consentire comunque lo svolgimento della prestazione nella condizione della massima possibile sicurezza: per esempio collocando la persona interessata in una postazione isolata e non a contatto con utenti o fornitori, e ciò anche eventualmente riducendo il contenuto professionale delle mansioni. Oppure, dove la natura della prestazione lo consenta, autorizzando la persona interessata a svolgerla dal luogo di abitazione fino alla fine della pandemia. Dove nessuna di queste soluzioni sia ragionevolmente praticabile, può rendersi necessaria la sospensione della prestazione a norma dell’art. 2110 c.c., oppure se possibile, con attivazione dell’integrazione salariale, fino alla fine della pandemia.
  • Sebbene l’art. 279 TU sia riferito al rischio di infezione derivante da un “agente biologicpresente nella lavorazione”, è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio di infezione derivante da un virus altamente contagioso, del quale può essere portatrice una qualsiasi delle diverse persone contemporaneamente presenti nello spazio aziendale chiuso nel quale l’attività lavorativa è destinata a svolgersi. A questa applicazione estensiva dell’art. 279 del Testo Unico si obietta che le norme protettive in materia di sicurezza e igiene del lavoro “sono pensate per prevenire i rischi derivanti dal luogo di lavoro” e non i rischi provenienti dall’esterno. Ma, secondo la tesi qui analizzata, per superare questa obiezione è sufficiente considerare che l’imprenditore, nell’esercizio del suo potere organizzativo, è tenuto a valutare e prevenire anche rischi provenienti da agenti esterni all’azienda, come per esempio gli agenti atmosferici cui i dipendenti possono essere esposti nello svolgimento della prestazione. Inoltre, il rischio dell’infezione da Covid-19, a differenza degli altri rischi di contrarre malattie infettive, è stato qualificato dalla legge come rischio di infortunio sul lavoro, proprio in considerazione dell’elevatissima contagiosità e diffusione del virus. Dunque, la vaccinazione dovrebbe essere imposta.

Conclusioni della prima tesi: retinenza = licenziamento nei casi più gravi

Mano, Uomo, Figura, Flick, Flick Fuori

Alla luce di tutte le argomentazioni sopra esposte, chi ritiene che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione sostiene che la renitenza ingiustificata del dipendente è in astratto suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza, che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare.

Tuttavia, lo stesso Prof. Ichino Pietro, principale sostenitore della tesi qui analizzata, ritiene che sia sconsigliabile applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, in quanto potrebbe essere contestata la sussistenza dell’elemento psicologico, così come sconsiglia l’applicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poiché ad oggi la questione, anche a livello politico, è molto dibattuta e, in ogni caso, sino a fine marzo 2021 non è possibile il licenziamento. 

Egli, in un’ottica moderata, suggerisce che se la natura della prestazione non consente lo svolgimento da remoto, e non è disponibile una posizione di lavoro – anche di contenuto professionale inferiore – che consenta l’isolamento rispetto agli altri dipendenti, fornitori e utenti, al lavoratore potrà prospettarsi la sospensione dal lavoro fino a che la pandemia non sia cessata: sospensione che in questo caso, a differenza del caso di rifiuto giustificato da impedimento di natura medica, non comporta il diritto al trattamento economico.

Qual è il vostro pensiero in proposito? Scrivetelo nei commenti qui sotto o nei nostri social.

In attesa di leggere la vostra opinione, vi invitiamo all’appuntamento di Giovedì prossimo, con la presentazione della tesi contraria all’imposizione della vaccinazione da parte del datore di lavoro.


[1] Professore di Diritto del Lavoro presso l’Università Statale di Milano, giurista e sindacalista dedica da decenni il suo impegno di studioso e di uomo politico alle problematiche legate al mondo del lavoro e ai diritti dei lavoratori.

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