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Parliamo di plastica e del suo elevato impatto ambientale. I materiali in plastica più comunemente impiegati sono composti da sostanze derivate dal petrolio, che risultano difficili da smaltire e in alcuni casi anche pericolose per l’ecosistema. La questione è di scottante importanza anche per l’industria della moda, che ne fa un continuo e largo utilizzo.

I manichini impiegati nell’industria del fashion e in nel retail connesso, per esempio, sono fra i prodotti che presentano le maggiori percentuali in quantità di plastica utilizzata nella loro composizione.

Tra le innovazioni nel mondo della moda che hanno dimostrato sensibilità riguardo al tema, c’è quella di un’azienda italiana specializzata in fabbricazione di manichini, busti e figurini per la vetrinistica, l’emiliana Bonaveri.

A seguito di anni di studi e ricerche che hanno rivelato la criticità dei materiali con cui vengono realizzati questi prodotti, l’azienda si è dedicata all’ideazione di un prototipo di manichino di nuova concezione. La novità sta in un sistema di innovazione tecnologica dei materiali, un biopolimero di derivazione naturale al 72% proveniente dalla canna da zucchero, e una vernice composta al 100% da sostanze organiche rinnovabili.

Il punto di partenza è stata la valutazione dell’impatto ambientale

Nell’ambito dell’ideazione del prototipo del manichino, quattro anni orsono – nel 2012, l’azienda aveva avviato un’indagine che è poi scaturita in un progetto di ricerca con il Politecnico di Milano, di analisi del ciclo di vita del manichino, con lo scopo di valutare la sostenibilità del progetto di realizzazione del figurino, in altre parole di misurare l’impatto sull’ambiente della sua filiera di produzione. E’ stata presa in considerazione ciascuna fase di realizzazione del manichino, dalla progettazione alla spedizione finale, inclusa quella del suo smaltimento.

Il Politecnico di Milano, con il Gruppo di Ricerca DIS (Design and system Innovation for Sustainability) del Dipartimento DESIGN LeNS (Learning Network of Sustainability) ha portato avanti il progetto di ricerca valutativa del nuovo manichino, effettuando misurazioni dell’impronta ambientale dei processi produttivi dell’azienda, e arrivando a definire delle linee guida improntate a una sua progressiva riduzione sull’ecosistema (coerentemente con la normativa ISO 14062 – “Gestione ambientale – Integrazione degli aspetti ambientali nella progettazione e nello sviluppo del prodotto”).

In particolare il gruppo di ricerca, coordinato dal Prof. Carlo Vezzoli, si è servito della metodologia della Life Cycle Assessment (LCA | norme ISO 14040, 14044, 14045, 14047, 14048, 14049) in grado di individuare distintamente i vari impatti in relazione alle fasi del ciclo di vita di un prodotto.

La maggiore criticità rappresentata dalla scelta della materia prima

L’elemento che si è rivelato decisivo nella valutazione di impatto ambientale del nuovo manichino condotta dal Politecnico è quello dei materiali impiegati, sotto il profilo della loro composizione e comportamento alla lavorazione, e considerando lo smaltimento degli stessi a fine ciclo di vita del prodotto.

Si è così lavorato con istituti di ricerca specializzati nei biopolimeri, arrivando a mettere a punto una bioplastica caratterizzata da un’elevata percentuale di materia naturale di origine organica (il 72%) che la rende un materiale altamente biodegradabile.

B Plast ®

Quattro anni di ricerche sono risultate nella selezione e registrazione di un biopolimero in PLA[1] quale materiale più adatto ad essere impiegato in un processo produttivo come quello dei manichini.

Quanto alla composizione, si tratta di una bioplastica composta per il 72% di un derivato della canna da zucchero che ha ottenuto la certificazione OK BIOBASED 3 stelle dall’ente di certificazione belga Vinçotte. Al termine della propria vita utile il manichino dismesso biodegrada[2] rilasciando anidride carbonica, CO2 (la stessa che la canna da zucchero ha assorbito nella sua fase vegetativa) e acqua.

B Paint ®

Per la verniciatura dei manichini è stata messa a punto una vernice composta al 100% da materie prime di origine organica, nella cui formulazione non è stato incluso alcun tipo di sostanza proveniente da petrolio. Ciò rappresenta un’innovazione assoluta perché rende possibile usare vernici naturali con risultati in termini di performance di qualità ed estetica paragonabili a quelli con impiego di prodotti a base petrolchimica.

La vernice impiegata sul nuovo manichino è prodotta dalla sintesi di scarti di resine di piante, olii vegetali, tensioattivi di origine vegetale che non contengono fosforo e da solventi di origine 100% vegetale da estratti da bucce di agrumi ottenuti con sistemi fisici, con sostanze essiccanti basate su una nuova tecnologia in acqua (e prive di sali di Cobalto e nafta).

Dall’analisi di Life Cycle Assessment del Politecnico è emerso che nel complesso, i materiali impiegati e processo produttivo del manichino di nuova concezione hanno un’impronta sull’ambiente ridotta rispetto ai manichini tradizionali realizzati in vetroresina e polistirene, considerando il loro intero ciclo di vita. In particolare i materiali biodegradabili individuati e scelti per essere impiegati nella produzione del manichino, hanno mostrato evidenza di notevole riduzione di emissioni di CO2 paragonati ai processi con impiego di plastiche di origine petrolchimica, una volta smaltiti, inoltre, possono essere reimmessi nel ciclo di vita successivo, impiegabili nuovamente per un’altra produzione.

L’innovazione tecnologica presentata potrebbe portare un cambiamento nel settore dei manichini, una parte del fashion system, partendo dal presupposto che la sostenibilità non si limita soltanto al prodotto finito e alla sua lavorazione ma è un concetto molto più ampio che riguarda la filiera e il coinvolgimento di ogni aspetto e di ogni categoria di portatori di interessi coinvolti. Altrettanto importanti sono i meccanismi di distribuzione, per la sensibilizzazione dei consumatori oltre che degli altri attori del sistema, in termini di consapevolezza e responsabilità.


[1] Il PLA (Polylactic Acid) è l’acido poli-lattico, un particolare tipo di polimero di derivazione organica vegetale, da piante come il mais, il grano o la barbabietola, in quanto maggiormente ricche di zucchero naturale (destrosio).

Il destrosio gioca un ruolo determinante nella produzione di questo materiale. Esso viene convertito in acido lattico attraverso un processo di fermentazione e, successivamente, in polimeri versatili, che possono essere utilizzati per produrre resine simili alla plastica o alle fibre.

Il PLA è un materiale estremamente sostenibile perché prodotto da risorse naturali e rinnovabili. Inoltre, una volta giunti a fine del loro ciclo di vita, i prodotti realizzati in questo materiale, biodegradano completamente, e risultano totalmente compostabili.

[2] I materiali biodegradabili si decompongono naturalmente in parti estremamente piccole, grazie a una attività biologica e a mutamenti nella struttura chimica del materiale. Invece, i materiali che esposti a determinate condizioni si decompongono totalmente, non lasciando nessun residuo visibile o tossico, sono definiti compostabili. Un ramoscello di quercia, ad esempio, non è compostabile perché si decompone troppo lentamente. In altre parole, il compostaggio è un processo di completa biodegradabilità.

Occorrono circa 6-8 settimane per decomporre un oggetto in PLA all’interno di strutture industriali di compostaggio. In condizioni ottimali, i prodotti in PLA si decompongono in 8-12 settimane.

In questo articolo a cura di RITEX , parliamo di una fibra naturale: la lana. I tessuti in lana sono i più utilizzati durante l’inverno perchè hanno la caratteristica di proteggere dal freddo. Di seguito analizzeremo questa e altre caratteristiche della più antica fra le fibre naturali, e le sue principali criticità, che ne interessano i processi di lavorazione.

La lana: cos’è

La lana è la fibra animale che forma il mantello protettivo della pecora ed è costituita principalmente dalla proteina cheratina, insolubile in acqua. Una fibra di lana è caratterizzata sostanzialmente da 3 componenti:

  • La cuticola che forma le caratteristiche scaglie visibili al microscopio;
  • Il cortex costituito da cellule allungate, parallele all’asse della fibra;
  • Il midollo (assente nelle fibre fini) costituito da un reticolo di pareti cellulari cave, piene d’aria.

Dal punto di vista chimico, come abbiamo detto, la lana è costituita da cheratina. Essa è una catena polipeptidica (cioè costituita da molti amminoacidi, come ad esempio la cisteina) con una struttura tridimensionale ad elica. Le singole eliche si associano tramite interazioni deboli in strutture sempre più complesse fino a formare la fibra come la conosciamo.

Tuttavia la lana greggia appena tosata contiene molte altre sostanze come ad esempio cere, sabbia, sporcizie e materie vegetali. Per questo motivo essa ha bisogno di essere pulita e trattata: lavaggio, follatura (una feltratura controllata che conferisce al tessuto una certa resistenza e compattezza), tintura, fissazione ed essiccamento sono le fasi della lavorazione più danneggianti.

Perché la lana?

La struttura fisica e chimica della lana, assieme alla sua lavorazione, conferiscono a questa fibra svariate proprietà che ne hanno diffuso l’utilizzo nel settore tessile. Ecco elencate le principali:

Elasticità e resistenza allo strappo

struttura-lana Le catene polipeptidiche grazie alla loro struttura ad elica agiscono come delle molle, cosicché le fibre possono essere allungate fino al 50% in più della loro lunghezza originale quando sono bagnate, e fino al 30% in più da asciutte. La flessibilità della fibra di lana ne aumenta la durabilità. Una fibra di lana può essere piegata su se stessa fino a 20.000 volte senza rompersi, in confronto alle 3.000 volte per il cotone e alle 2.000 volte per la seta.

Igroscopicità della fibra

struttura-lana L’igroscopicità della lana, cioè la sua capacità di assorbire l’umidità, la rende un regolatore di temperatura, in quanto è in grado di proteggere il corpo sia in condizioni di freddo che di caldo. Essa è in grado di assorbire umidità fino al 33% del proprio peso senza dare la sensazione di bagnato.

Facilità della tintura

struttura-lanaLa lana assorbe molti colori in modo uniforme e diretto. Essa reagisce infatti sia con coloranti acidi che basici, grazie alla sua struttura chimica. Il colore penetra nel midollo dove avviene la reazione chimica che lega in modo permanente il colorante, a meno di condizioni di fading estreme e prolungate.

Resistenza alla fiamma

struttura-lana La lana quando è bruciata dà un caratteristico odore, simile a quello di peli o piume bruciate. Quando è rimossa dalla fiamma, essa smette di bruciare (è autoestinguente). Pertanto, grazie anche all’umidità che è in grado di assorbire, la lana è relativamente resistente al fuoco.

Feltratura e variazione dimensionale

La feltratura è un processo di compattazione e aggrovigliamento delle fibre che si verifica quando la lana è agitata in acqua; essa è usata per produrre feltri industriali, stoffe non tessute da lana sciolta, e nei processi di finissaggio chiamati “follatura” per dare una finitura morbida e uniforme a certi tipi di tessuti di lana.

Alla base della feltratura stanno le proprietà di frizione della fibra. La frizione è dovuta alla presenza di scaglie sulla superficie della fibra, le quali agiscono come un dente di arresto. In questo modo vengono a formarsi degli aggrovigliamenti che sono di fatto irreversibili.

struttura-lana

http://www.wool.ca/uploads/files/PDF/wool-fact-sheets-charcteristics.pdf

Come anzi detto, la feltratura avviene in acqua, ed è facilitata dalla presenza di lubrificanti come il sapone, o dall’aumento della viscosità della soluzione. Inoltre, varia col pH e le condizioni di temperatura.

A seguito dell’azione meccanica sviluppata durante il lavaggio, le fibre si agganciano a quelle vicine con il conseguente restringimento del tessuto che rendono di fatto impossibile, essendo questo processo irreversibile, il ripristino delle originali  dimensioni del tessuto post trattamento. Per questo motivo, quando i tessuti sono stati finiti e trasformati in abiti, la feltratura deve essere prevenuta. Una volta questo risultato poteva essere ottenuto solo tenendo basso il livello delle forze agenti sul tessuto in modo che le fibre non potessero “agganciarsi”, o mediante il lavaggio a secco (ossia in quasi totale assenza di acqua).

Oggi sono disponibili numerosi trattamenti irrestringibili che prevengono o riducono la feltratura:

  • Rimozione delle scaglie dalla fibra: tecnica poco usata in quanto molto danneggiante;
  • Deposito di polimeri sul tessuto: con questa tecnica le fibre si incollano insieme ogni volta che vengono in contatto, impedendone l’aggancio;
  • Rivestimento delle fibre con resine dopo attacco degradante: in questo modo la presenza del polimero ne riduce la frizione ed al contempo le fibre non si incastrano;
  • Trattamento chimico della cuticola: il più comune agente usato per degradare la cheratina della cuticola, e quindi conferire irrestringibilità, è il cloro. Esso può essere usato in soluzione acquosa (acida, neutra o alcalina) o come gas. Se viene usato in struttura-lanaacqua, bisogna fare attenzione ad impedire che la degradazione proceda anche negli strati più interni della fibra, esponendo la lana solo per un tempo breve, oppure aggiungendo degli agenti che reprimano il rigonfiamento della fibra in modo che la penetrazione del cloro sia rallentata.

Il Made in Italy è un marchio che molti paesi ci invidiano da sempre. È un tessuto produttivo di altissima qualità nei settori più differenti che dimostra la buona qualità dei nostri prodotti. Questo provoca il fenomeno della contraffazione del Made in Italy, che in quest’ultimo periodo si sta diffondendo sempre di più. Ciò genera gravissimi danni alla nostra economia e inoltre mette a rischio la salute e la sicurezza dei consumatori. Ogni anno sottrae al PIL italiano milioni di euro. Tra i settori più colpiti da questo fenomeno ci sono certamente abbigliamento e accessori. Per fermare tutto ciò, è stato inventato un nuovo metodo all’avanguardia per verificare l’autenticità, del marchio made in Italy, attraverso un semplice gesto con lo smartphone.

Ha ottenuto il via libera della Camera la proposta di legge sulla tracciabilità del Made in Italy con l’obbiettivo di combattere la contraffazione.

Sperabilmente entro la fine di quest’anno si potrebbe arrivare all’approvazione definitiva in Senato. La proposta ha l’obbiettivo di mettere a disposizione delle imprese dei contributi, in modo tale da creare nuovi sistemi di etichettatura e certificazione basati sul QR-code.

Il codice permette a tutti i consumatori, in qualsiasi momento, di verificare l’autenticità del prodotto con il proprio smartphone. In maniera più dettagliata il disegno di legge, composto da un solo articolo, introduce un certificato digitale del prodotto e garantisce così la sua identità e autenticità delle origini “Made in Italy”, per tutelare sia produttori che i consumatori di tutto il mondo che scelgono di investire in un prodotto italiano al 100%. La traccia digitale permetterà a ciascun consumatore di conoscere l’effettiva origine dei beni che acquista, fornendo informazioni relative alla qualità, alla provenienza, al processo di lavorazione delle merci, dei prodotti intermedi e finiti.

Rimaniamo dunque in attesa di conoscere l’esito del procedimento. Per conoscere tutti i dettagli dello stato di avanzamento dei lavori vi invitiamo a cliccare qui.

Con questo articolo a cura di RITEX , già pubblicato sulla rivista specializzata Detergo  vogliamo fornire alcune indicazioni sui requisiti di sicurezza previsti per gli abiti dei più piccoli dalla normativa cogente.

La protezione della salute dei consumatori è uno dei principi ispiratori di ormai qualunque sistema legislativo minimamente evoluto.  Quando il consumatore è un bambino il livello di attenzione da parte del legislatore si innalza particolarmente, portando all’emanazione di leggi e regolamenti molto restrittivi.

Questa attenzione, presente da molto tempo per il settore dei giocattoli, si è indirizzata negli ultimi anni anche verso il settore del tessile-abbigliamento. A conferma di ciò è sufficiente dare uno sguardo al numero di articoli di abbigliamento ritirati annualmente dal mercato perché ritenuti pericolosi per la salute del bambino.

Come ottenere le informazioni, in tempo rapido, circa la presenza sul territorio europeo di capi di abbigliamento pericolosi per il bambino?  Ogni libero cittadino, ed è molto interessante farlo, può verificare settimanalmente, attraverso il  portale RAPEX, l’elenco di tutti i prodotti, non solo tessili, ritirati dal mercato per problemi di sicurezza generale, in tutto il territorio della comunità Europea.

Che cos’è Rapex?

Rapex è un sistema di allerta rapido utilizzato dagli stati membri per scambiarsi informazioni circa la pericolosità di prodotti che circolano sul territorio comunitario. Settimanalmente viene pubblicato un report con i dettagli di tutti gli articoli considerati critici per la sicurezza. L’elenco di tutti i report è facilmente reperibile, ricercando “RAPEX – Weekly Notification reports”. Interessante è anche approfondire le statistiche annuali, che riassumono, settore per settore, tutte le notifiche pubblicate sul Rapex. A seguire un’immagine tratta dal documento relativo all’anno 2014 “Keeping European Consumers Safe – Rapid Alert System for  dangerous non-food products – 2014 COMPLETE STATISTICS” in cui si nota che, dopo il settore dei giocattoli (Toys) con 650 notifiche, quello maggiormente segnalato è quello dell’abbigliamento (Clothing, Textiles and Fashion) con 530 articoli notificati.

Ma quali rischi sono associati ad un capo di abbigliamento per bambino?

In generale, e quindi anche nel caso del bambino, tre sono le tipiche categorie di rischio:

  1. MECCANICO
  2. CHIMICO
  3. CALORE E FIAMMA.
 3 Possibilità prevedibile che durante le condizioni normali di utilizzo si raggiunga, tramite fruizione dell’articolo o di parti di esso, un livello di potenziale pericolo per l’integrità fisica dell’utilizzatore. I rischi più significativi in ambito meccanico comprendono:  intrappolamento, punture, lacerazioni, soffocamento.
 4 Possibilità prevedibile che durante le condizioni normali di utilizzo e di manutenzione, tramite esposizione dovuta al contatto con la cute o la mucosa, a inalazione o ingestione, si raggiunga un pericolo per l’utilizzatore finale di una certa sostanza chimica contenuta nel prodotto tessile o nelle sue appendici.
 5 Possibilità prevedibile che durante le condizioni normali di utilizzo e di manutenzione, si determini un potenziale pericolo per l’integrità fisica dell’utilizzatore, a causa di stress termici e in relazione allo sviluppo e propagazione di fiamme.

Le definizioni e la rappresentazione grafica delle tre categorie sono ricavate dal documento “requisiti di sicurezza dei prodotti tessili” a cura della Camera di Commercio di Milano in collaborazione con Centro Tessile Cotoniero S.p.A.  e Sistema Moda Italia.

 

Quali sono nel dettaglio i rischi concreti?

Per approfondire nel concreto i rischi associati all’abbigliamento bambino è interessante leggere uno degli ultimi rapporti Rapex del 2015, il numero 51 del 25 dicembre.

A seguire viene riportata l’immagine relativa all’articolo rif. 37. Si tratta di un paio di pantaloncini per neonato, notificati al Sistema dal paese Ungheria a causa del fatto che nella zona del girovita sono presenti lacci che terminano con dei nodi. Viene dichiarato che il prodotto non è conforme alla norma EN 14682 e ne viene imposto l’immediato ritiro dal mercato. Il rischio meccanico è quello che i lacci possano rimanere intrappolati durante le attività del bambino e causarne quindi delle lesioni.

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Interessante è anche la notifica n.25, relativa ad una giacca bambina che presenta dei lacci nell’area del collo che terminano con dei pom-pom. Anche in questo caso viene dichiarata la non conformità alla norma EN 14682 e quindi ne viene imposto il ritiro dal mercato a causa del rischio meccanico di strangolamento

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Che cosa impongono la norma EN 14682 e in generale gli standard di sicurezza per l’abbigliamento bambino?

I requisiti imposti dagli standard di sicurezza per l’abbigliamento per bambini sono molti e sono suddivisi in base all’età dell’utilizzatore (0-7 anni –bambini piccoli – oppure 7-14 anni – bambini più grandi)) e in base alla zona del corpo a cui sono destinati (A,B,C o D).

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Ne riportiamo solamente alcuni (l’elenco a seguire è incompleto rispetto alla norma di riferimento; le immagini sono tratte dalla norma stessa):

REQUISITO GENERALE

13Le estremità libere di lacci passanti, i cordoncini funzionali e fasce o fusciacche non devono presentare guarnizioni tridimensionali o nodi e devono essere a prova di sfilacciamento, per esempio termosaldate o travettate.

Le estremità possono essere ripiegate o piegate in due purchè non creino pericolo di intrappolamento.

Ove consentiti i lacci passanti devono essere fissati al capo, per esempio mediante travettatura, in almeno un punto situato in posizione equidistante dai punti di uscita (vedere figura)

ZONA TESTA, COLLO E PARTE SUPERIORE DEL PETTO NEI CAPI DI ABBIGLIAMENTO PER BAMBINI PICCOLI – ZONA A

14I capi di abbigliamento destinati ai bambini piccoli non devono essere concepiti, confezionati o forniti con lacci passanti, cordoncini funzionali nella zona testa, collo e parte superiore del petto.

I capi di abbigliamento all’americana devono essere preparati senza estremità libere nella zona collo e gola (X=vietato, V= permesso).

  

ZONA PETTO E VITA – ZONA B

15I capi indossati dalla vita in giù e senza spalline, bretelle, o maniche, come pantaloni, pantaloncini, gonne, slip, parte inferiore del bikini, non devono avere estremità libere di lacci passanti più lunghi di 20 cm (A) in ogni estremità quando il capo è in uno stato naturale rilassato (X=vietato, V= permesso).

 

ORLI AL FONDO NEI CAPI DI ABBIGLIAMENTO CHE ARRIVANO SOTTO AL CAVALLO – ZONA C

16I lacci passanti, i cordoncini decorativi e i cordoncini funzionali, fermacorda inclusi, situati nei bordi al fondo dei capi che arrivano al di sotto del cavallo non devono pendere al di sotto del bordo al fondo del capo di abbigliamento (X=vietato, V= permesso).

 

ZONA POSTERIORE– ZONA D

I capi di abbigliamento per bambini non devono prevedere lacci passanti cordoncini decorativi o cordoncini funzionali che fuoriescano dalla parte posteriore del capo o da allacciare dietro (X=vietato, V= permesso).

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REQUISITO PER IL PERICOLO DI SOFFOCAMENTO

Foto di archivio Ritex

Un ulteriore requisito tipicamente associato alla sicurezza dell’abbigliamento per bambino, anche se non specificato dalla norma EN 14682,  è quello relativo al pericolo di soffocamento per ingestione di piccole parti. Se il capo di abbigliamento contiene parti funzionali o decorative che rientrano nella categoria di “piccole parti” (le dimensioni sono definite in uno standard europeo) esse devono essere non afferrabili o saldamente fissate al capo in modo da non poter essere distaccate dal bambino durante l’uso normale e prevedibile del capo stesso.

A seguire un caso concreto esaminato in laboratorio: la maglia è stata classificata come non conforme agli standard di sicurezza; le decorazioni sono infatti risultate essere fonte di pericolo di soffocamento in quanto “piccole parti staccabili”.

Che ne è stato di Fiorucci?

Il famoso brand dell’omonimo stilista ha passato negli ultimi due decenni non poche vicissitudini legali che possono costituire un interessante spunto di riflessione per il settore del Fashion.

Elio Fiorucci, uscito dalla Fiorucci S.p.A. nel 1990 aveva ceduto diversi marchi denominativi e figurativi contenenti il patronimico Fiorucci alla Giapponese Edwin Co. Quest’ultima, nel 1999 registrava il marchio denominativo «Elio Fiorucci» per una serie di prodotti (articoli di profumeria, in cuoio, di valigeria e di abbigliamento). L’imprenditore, però, contestava la registrazione, sostenendo che il suo nome godeva in Italia di una tutela particolare: infatti i nomi noti di persona possono essere registrati come marchio soltanto dal titolare o con il consenso di questi. Nel caso di specie, nessun consenso era stato dato.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea accoglieva la tesi dello stilista affermando che il titolare di un patronimico notorio, indipendentemente dal settore nel quale tale notorietà è stata acquisita ed anche se il nome della persona notoria è già stato registrato o utilizzato come marchio, ha il diritto di opporsi all’uso di tale nome come marchio, in caso di mancato consenso alla registrazione. Sulla base di questa sentenza, il marchio «Elio Fiorucci» non poteva essere più usato dalla multinazionale giapponese che nel 1990 ha acquisito tutto il patrimonio creativo della società italiana, compresi tutti i marchi di cui essa era titolare, parecchi fra i quali contenevano l’elemento «Fiorucci».

Dopo questa prima vicenda giudiziaria lo stilista aveva in seguito registrato il marchio “Love Therapy By Elio Fiorucci” ed altri marchi simili contenenti tutti il nome Elio Fiorucci.

La Edwin Co. si era quindi rivolta al Tribunale di Milano lamentando:

– la violazione dei propri diritti esclusivi e

– la concorrenza sleale per imitazione idonea a generare confusione.

Il tribunale aveva però ritenuto che il marchio contestato non fosse da considerare in contraffazione dei marchi anteriori Fiorucci in quanto utilizzava il cognome insieme al nome dello stilista e impiegava la particella “by” indicando l’intervento personale del creativo, il tutto in una posizione defilata rispetto alle parole “Love Therapy”. Pertanto, il patronimico “Fiorucci” era stato utilizzato legittimamente, secondo il tribunale, in quanto avente funzione descrittiva e non di marchio. Questa decisione era successivamente confermata in grado di appello.

A sovvertire il pronunciamento dei primi due gradi di giudizio è però intervenuta la Corte di Cassazione con sentenza n. 10826, del 25 maggio 2016 la Corte di Cassazione.

La Cassazione richiamandosi alla giurisprudenza consolidata ha chiarito che “l’uso commerciale del nome patronimico deve essere conforme ai principi della correttezza professionale e non può quindi avvenire in funzione di marchio, cioè distintiva, ma solo descrittiva (…); ne consegue che sussiste la contraffazione quando il marchio accusato contenga il patronimico protetto, pur se accompagnato da altri elementi”.

Sulla scorta di tali premesse la Suprema Corte conclude che la persona che registra il proprio patronimico come marchio e poi cede il marchio a prezzo congruo può ancora utilizzare il patronimico con riferimento descrittivo alle proprie attività professionali.

Qualora sia “superata” la suddetta esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona, l’inserimento nel nuovo marchio del patronimico violerebbe la correttezza professionale e non sarebbe giustificabile.

Nel caso di “Love Therapy by Fiorucci” l’impiego del cognome Fiorucci aveva ampiamente travalicato la funzione descrittiva, sia nelle attività riconducibili al lavoro creativo del designer sia nell’attività di commercializzazione di prodotti di altre imprese nei settori più disparati.

Cosa insegna il caso Fiorucci?

Senza entrare nel merito dei principi scomodati dalla Giurisprudenza Comunitaria e Nazionale per risolvere le diatribe sopra menzionate, quello che ci preme sottolineare è l’importanza di un’accurata regolamentazione contrattuale dell’utilizzo del patronimico, che abbia acquisito valenza di brand e sia al contempo riconducibile ad un designer (titolare o meno dell’impresa che sfrutta questo brand).

Realizzare creazioni sotto il proprio nome è una scelta comune e molto spesso naturale per gli stilisti, nel mondo della moda. Per proteggere il proprio brand gli stilisti registrano il proprio nome come marchio; questo ha certamente molti vantaggi, ma è altresì importante sapere che tale registrazione incorporante un patronimico costituisce a tutti gli effetti un “asset commerciale”.

In questo modo quindi, tutte le volte in cui tale “asset” viene ceduto (o addirittura perduto come può accadere in caso di fallimento dell’impresa, o in caso di licenziamento/dimissioni dello stilista lavoratore dipendente), vi sono delle conseguenze non trascurabili.

Lo stilista infatti, come chiarito dalla Cassazione, non potrà più utilizzare il patronimico in questione per finalità diversa da quella meramente descrittiva.

Al contempo però la stessa azienda rimasta titolare del brand non potrà utilizzarlo in modo indiscriminato ed effettuare nuove registrazioni che coinvolgano il patronimico.

Quali sono dunque le possibili soluzioni?

Dal punto di vista dell’impresa la soluzione è certamente costituita da clausole contrattuali volte a garantire il più ampio sfruttamento possibile del brand, nei limiti in cui ciò non violi il diritto al nome, inteso in senso privatistico e costituzionalmente garantito, del designer stesso. Ferma in ogni caso la consapevolezza che l’utilizzo da parte dello stesso stilista del proprio nome con valenza commerciale e non semplicemente descrittiva potrà essere contestata ed efficacemente “bloccata” dalla Società titolare del marchio registrato.

Dal punto di vista dello stilista, sarà necessaria lungimiranza nella gestione di questo bene. In vista di cessioni di azienda o di ramo di azienda lo stesso potrebbe valutare la costituzione di società ad hoc a cui cedere il brand incorporante il patronimico, stipulando poi con l’acquirente dell’azienda ceduta contratti di concessione dell’utilizzo dello stesso. In questo modo lo stilista potrà conservare la titolarità del marchio recante il proprio patronimico pur non limitando lo sfruttamento commerciale dello stesso da parte dell’acquirente concessionario.

Questo tipo di accordi non solo potranno avere una durata limitata nel tempo ma potranno essere accompagnati da tutte le condizioni contrattuali di volta in volta necessarie a salvaguardare le possibili attività commerciali future del medesimo stilista.

Terminiamo con questo articolo la nostra rassegna di alcune delle Start-up del Fashion che lo scorso 7 aprile sono state presentate presso il noto incubatore H-Farm, in occasione di una visita organizzata da Antia (Associazione Italiana tecnici professionisti del sistema moda), a cui Consulenza Legale Moda ha partecipato. L’ultima (ma non meno importante) start-up di cui vogliamo raccontarvi si chiama deSwag: si tratta di un Fashion Game in cui i giocatori competono tra loro per aggiudicarsi i capi e gli accessori più in voga tra le principali fashion-icon. I giocatori possono così rimanere aggiornati sui trend del momento e, in caso di vittoria, potranno “sbloccare” il capo vinto e farlo indossare al loro avatar… Ma c’è di più! Al termine del gioco, per chi non fosse soddisfatto della vittoria “virtuale” potrà farla propria nella vita reale, acquistandola on line.

Vi raccontiamo di più di questa idea innovativa e divertente con l’intervista che abbiamo fatto ad una delle fondatrici: Clara Fraccia.

Come nasce deSwag?

deSwag nasce come progetto di tesi di fine triennio allo IED Moda di Milano con l’intento di creare qualcosa di unico e innovativo nell’ambito del marketing e comunicazione del settore moda. L’idea di unire due realtà apparentemente distanti tra loro (moda e videoludica) ci è sembrata fin dall’inizio sfidante. Diverse analisi di mercato avevano confermato quanto la moda si stesse sempre più orientando verso trend come il gaming e la personalizzazione, pur non avendoli ancora esplorati in maniera significativa. Il nostro intento iniziale era quello di dare vita a un fashion game ironico e divertente: uno scacciapensieri composto da una serie di giochi semplici e intuitivi che intrattenessero le persone con un forte interesse per la moda. Il giocatore avrebbe così “giocato alla moda” indossando virtualmente sul proprio avatar tutto quello che poi avrebbe potuto anche acquistare con un semplice click.

Che livello di complessità aveva raggiunto la vostra start-up quando siete arrivati in H-Farm?

Ci siamo presentate al comitato investimenti di H-FARM durante l’H-ACK FASHION, con la nostra tesi di trecento pagine e un mockup dimostrativo, suscitando un forte interesse per la creatività e l’unicità alla base dell’idea. Idea che era già ben consolidata, in quanto frutto di mesi di analisi di mercato e studio del target identificato. Il gioco è stato infatti interamente pensato e realizzato andando incontro alle esigenze del nostro giocatore di riferimento e seguendo i trend del momento, sia nella moda sia nel gaming. deSwag è presente sui principali social network sin dal momento della sua nascita e, proprio grazie all’apprezzamento riscontrato attraverso le nostre pagine, siamo riuscite a catturare l’attenzione di famosi designer tra cui Stefano Gabbana, che ci sostiene tuttora. L’essere state poi selezionate da H-FARM è stata per noi un’ulteriore convalida che l’idea di trasformare un progetto di tesi in un vero e proprio progetto di impresa fosse fondata.

Quale parte del supporto fornito da H-Farm è stato, secondo lei, di maggiore importanza?

H-FARM è stata innanzitutto per noi fondamentale per entrare a far parte del mondo delle startup, a noi prima sconosciuto. Senza i servizi e la struttura che H-FARM ci ha fornito, durante tutto il periodo di incubazione, non saremmo riuscite a focalizzarci esclusivamente sul progetto e a costruire il team, che è stata forse la parte più complessa e delicata dell’intero percorso. Abbiamo avuto inoltre l’opportunità di entrare in contatto con il grande network di H-FARM e di presentare deSwag a importanti aziende che operano nel fashion, con cui ora stiamo portando avanti una potenziale collaborazione. Non in ultimo sono stati fondamentali tutti i mentor e le persone che ci hanno seguito in questo percorso, della durata complessiva di un anno, dal cui confronto abbiamo avuto modo di consolidare il nostro modello di business.

Come avete gestito e formalizzato i ruoli di ciascuno startupper all’interno del progetto?

Il team deSwag è attualmente composto da 6 persone, più 2 manager professionisti come advisor e 2 vip advisor. Io e Francesca ci siamo conosciute e siamo diventate amiche durante i nostri rispettivi corsi di studio allo IED: Fashion Marketing e Fashion Communication. Siamo le due founder e ci siamo suddivise i ruoli a seconda delle nostre competenze ed esperienze: io mi occupo del prodotto e del business e Francesca della comunicazione e della selezione dei look. In team sono inoltre fondamentali: Laura in quanto illustratrice, Mattia come sviluppatore dell’app su iOS, Jenny e Vincenzo i due game designer.

Come avete gestito e formalizzato il ruolo dei business-angel?

La prima realtà che ha creduto in deSwag è stata H-FARM, che ci ha selezionato tra oltre 500 application, permettendoci di partecipare al programma di accelerazione e investimento (H-CAMP Spring 2015). Ora siamo in contatto con diversi business angel, che abbiamo conosciuto durante eventi mirati, che ci aiutino a far partire il nostro business promuovendolo inizialmente sul mercato italiano.

Quali sono state le conoscenze/competenze di cui avete avuto maggiore necessità nel portare avanti il vostro progetto?

Imparare a creare e pianificare giorno dopo giorno le attività necessarie allo sviluppo della propria startup. Abbiamo imparato a fare un po’ di tutto per poter poi capire le risorse necessarie per accrescere il nostro business. Avere poi le manifestazioni di interesse da parte dei brand e dei giocatori è la nostra spinta quotidiana a voler sempre dare il nostro meglio con nuove idee e proposte ad hoc, a seconda del brand che vuole utilizzare deSwag come nuovo canale di promozione e vendita dei propri prodotti. Avviare una startup è un’esperienza unica nel suo genere, che solo chi ne ha avuta una può davvero capire. Significa mettersi ogni giorno alla prova con una nuova sfida e imparare a credere in se stessi e nelle proprie capacità. Il consiglio che ci sentiamo di dare a chi volesse intraprendere il nostro stesso percorso è quello di trovare persone qualificate e altrettanto innamorate del progetto quanto chi l’ha fondato. Ma soprattutto saper ascoltare i pareri altrui senza però perdere di vista la visione che solo chi ha avuto l’idea può e deve avere.

Che futuro vede per DeSwag?

deSwag, grazie a tutto il lavoro di questo anno, si é trasformata da tesi ad applicazione mobile (a oggi presente sull’App Apple Store). Il progetto è ambizioso: diventare una guida di stile per l’utente che, attraverso una serie di quiz sulla moda più o meno intuitivi, potrà così informarsi su tutte le ultime news e i trend in maniera attiva e non più passiva. La giocatrice di deSwag sarà sempre aggiornata sul mondo dei brand che ama e ha sempre sognato. Grazie all’attenta selezione dei look, suddivisi per stili e città, che si potranno scoprire sfidando le amiche, sarà possibile inoltre acquistare realmente il capo dei propri sogni (incentivate anche da meccaniche di sconto che verranno prossimamente inserite). In un solo concetto: unire il lusso (per definizione esclusivo) a un mezzo democratico come il mobile gaming a cui chiunque può accedere. Ci piacerebbe che diventasse un nuovo contenitore editoriale attraverso il quale tutte le appassionate di moda si possano informare, divertire e acquistare tutto quello che più desiderano.

Ringraziamo Clara per l’intervista e vi invitiamo a seguirci per rimanere aggiornati sulle principali novità e aggiornamenti di Consulenza Legale Moda.

Proseguiamo con questo articolo raccontando alcune delle Start-up del Fashion che lo scorso 7 aprile sono state presentate presso il noto incubatore H-Farm, in occasione di una visita organizzata da Antia (Associazione Italiana tecnici professionisti del sistema moda).

La Start-up di cui vogliamo parlarvi si chiama THECOLORSOUP: il primo shop on-line di tessuti personalizzati on demand. Thecolorsoup è una piattaforma web dalla quale è possibile ordinare tessuti con grafiche personalizzate, scegliendo tra 21 basi di tessuto (per fare qualche esempio: voile di seta, lino, cotone, microfibra, voile di poliestere, felpa ecc.) sia per l’abbigliamento che per l’arredamento. Il portale offre già più di 500 grafiche di alta qualità tra cui scegliere, ma l’utente potrà anche caricare e richiedere la stampa di una propria grafica.
Si tratta di una start-up un po’ atipica in quanto nasce all’interno del Gruppo Miroglio, non ha avuto quindi necessità di trovare investor nel libero mercato. Il Gruppo stesso ha creduto nell’idea ed ha fatto tutto ciò che era necessario per permettere il suo sviluppo ottimale.

Ma chiediamo a Elena Guarene (Project Manager) di dirci qualcosa di più su questo progetto davvero innovativo ed originale.

Come è nata l’idea di “TheColorSoup”?

L’idea è maturata all’interno dell’area Miroglio Innovation Program. Il Gruppo Miroglio ha reso possibile la nostra permanenza in H-FARM perché potessimo sviluppare il progetto in autonomia, contaminandoci con la cultura innovativa e il fermento creativo del più grande acceleratore europeo d’imprese.

Ad ottobre 2015, dopo 4 mesi di lavoro, la piattaforma è stata messa on- line.

Oggi possiamo definirci il negozio di tessuti 2.0, ma abbiamo tanti plus: texture di tendenza, la personalizzazione della base tessuto, la stampa digitale e la velocità nella consegna.

Siamo la soluzione a diverse richieste! THECOLORSOUP è nato per dare spazio a sarte, designer professionisti, handmaker per hobby e stilisti. Acquistando il materiale più idoneo il cliente potrà realizzare ogni tipo di accessorio, dall’abbigliamento all’arredamento, mai banale!

Che livello di complessità aveva raggiunto la vostra start-up quando siete arrivati in H-Farm?

Quando siamo arrivati in H-Farm siamo partiti da zero sia con l’analisi del mercato e del nostro ipotetico target che con la costruzione del sito stesso.

Anche il nome del progetto è nato in H-Farm!

Quale parte del supporto fornito da H-Farm è stato secondo lei di maggiore importanza?

L’affiancamento da parte di mentors e tutors ci ha aiutato a lavorare in team, pianificare in modo ottimale le varie attività per riuscire a raggiungere l’obiettivo in modo veloce, stringere legami e conoscere realtà giovani e innovative.

Come avete gestito e formalizzato i ruoli di ciascuno startupper all’interno del progetto?

Il Gruppo Miroglio ha voluto supportare il progetto investendo sulle idee di giovani dipendenti intraprendenti e desiderosi di crescere.

Il team è formato da tre trentenni:

Io, (Elena – project manager): lavoro nel Gruppo da 8 anni, sono nata come controller corporate (analisi/controlli costi e budget) e negli anni ho maturato esperienza nell’area corporate development. Sono curiosa e mi piace tutto ciò che è “novità”

Daniela – content editor&digital marketing: web designer e fotografa per i siti e-commerce di Miroglio Fashion srl

Lorenzo – web designer&developer: proviene da una web agency di Udine, appassionato di design, tecnologie web ed innovazione, lavora per creare soluzioni che siano al contempo belle da vedere ed intuitive da utilizzare.

Che futuro vede per “TheColorSoup”?

Vorremmo creare dei contest per grafici e illustratori per ampliare il nostro marketplace e avere sempre più tessuti greggi da proporre ai nostri clienti.

L’esigenza di stampare sul tessuto per realizzare un capo d’abbigliamento unico o arredare casa in modo speciale è forte! Oggi, tutti vogliono personalizzare…ecco perché nasce thecolorsoup.com

TheColorSoup utilizza stampa digitale e sublimatica con i migliori colori del mercato, affidandosi al know how del Gruppo Miroglio. Il risparmio dell’acqua è uno degli obiettivi che hanno guidato gli investimenti tecnologici nel settore, facendo ottenere al Gruppo performance di rilievo.

Lo scorso 7 aprile Consulenza Legale Moda ha partecipato alla presentazione di alcune start-up del fashion presso il noto incubatore H-Farm, organizzata da Antia, ovvero l’associazione che unisce i tecnici professionisti del sistema moda.

I business presentati, alcuni ormai ad un ottimo livello di sviluppo, sono davvero interessanti. Abbiamo deciso di intervistare i fondatori di alcune di queste start-up per i nostri lettori web e, partendo dalle loro condivisioni, di fare successivamente nel nostro blog un approfondimento sugli aspetti giuridici più rilevanti nella creazione di una Società innovativa.

La prima start-up che vi presentiamo è GLIX, un social network per consentire a chiunque di diventare il personal shopper di qualcun altro. GLIX permette di fare shopping nelle migliori città di tendenza mondiali abbattendo i limiti di tempo, spazio e di costo. Diventa possibile viaggiare e fare shopping, senza muoversi: Londra, Parigi, Milano, New York… Il tutto grazie ad altre persone, che compreranno al posto vostro ciò che desiderate (il network dei Personal Shopper GLIX).

Ma chiediamo a Sara Spadafora (Founder & CEO di GLIX) di dirci qualcosa di più su questa divertente start-up.

Come è nata l’idea di GLIX?

Inizia tutto un anno fa da un semplice favore tra amiche. Entro in un negozio a Milano e trovo un bellissimo paio di scarpe che condivido con una mia amica di Bologna. Subito mi commissiona l’acquisto. Il giorno dopo lei ha condiviso la stessa foto con altre amiche in diverse città (Parigi, Barcellona), che mi hanno chiesto lo stesso “favore”. Ho quindi pensato di rendere questa mia esperienza personale un’opportunità di lavoro e guadagno per tutti. Tutti potranno avere il proprio Personal Shopper ovunque!

Che livello di complessità aveva raggiunto la vostra start-up quando siete arrivati in H-Farm?

GLIX stava già prendendo forma dopo pochi mesi: lavoravamo giorno e notte “per dare gambe e braccia” a questa idea. H-Farm si è accorto di noi, quando ancora l’idea era embrionale ma ben definita. Siamo stati sempre molto decisi su quello che GLIX per noi rappresenta e su quello che diventerà: sarà il primo “street view del fashion”, dove ciò che vedi sarà acquistabile per la prima volta tramite altre persone (i Personal Shopper GLIX).

Ci mancava un prodotto fisico e funzionante, avevamo una serie di schermate che ne descrivevano il flusso, ma soprattutto dovevamo validare il nostro business model.

Arrivare in H-Farm è stato il primo passo per andare oltre l’idea. La nostra start-up è stata selezionata tra oltre 400: questa è stata la prima grande spinta per andare avanti.

Quale parte del supporto fornito da H-Farm è stato secondo lei di maggiore importanza?

Il network che H-Farm offre è davvero molto vasto: non solo le persone che sono a contatto ogni giorno con la struttura, le altre start-up e aziende presenti, ma anche gli investitori che ruotano attorno a loro e molti tra professionisti e specialisti del settore.

Se hai lo spirito giusto puoi entrare in contatto con diverse personalità che ogni giorno migliorano il progetto con te, attraverso pareri, critiche e consigli.

Credo che la migliore cosa che si possa ottenere per iniziare la propria startup sia avere la possibilità di parlarne con il mondo esterno e capire se sei l’unico a vederne il potenziale.

Come avete gestito e formalizzato i ruoli di ciascuno start-upper all’interno del progetto?

Il team di GLIX è composto oggi da 6 persone: 3 founder e 3 collaboratori.

Io, Luca e Fabio (founders) avevamo già lavorato insieme in un’agenzia a Milano e avevamo creato progetti per brand internazionali, nel retail e nella comunicazione.

Non è stato difficile dividersi i ruoli e le attività, proprio grazie alle nostre diverse esperienze professionali. Luca è specializzato in Marketing, Fabio in Design & Technology, mentre io ho il ruolo di CEO e mi occupo di Product & Business.

A Gianluca e Kristian è affidato lo sviluppo dell’applicazione ad oggi iOS (presente già su Apple Store) e successivamente anche disponibile per Android (Settembre 2016), mentre Akshay, specializzato in Marketing & Fashion Communication, si occupa a livello internazionale di ampliare il nostro network e partnership.

Come avete gestito e formalizzato il ruolo dei business-angel?

H-Farm rappresenta il nostro business-angel. Ha creduto in noi due volte: la prima selezionandoci per il Camp estivo di accelerazione (H-Camp 2015), la seconda quando, dopo i risultati ottenuti, ha re-investito in noi dopo appena cinque mesi.

La soddisfazione di aver convinto per ben due volte H-Farm per noi è una grande vittoria. Ora dobbiamo convincerne molti di più.

Quali sono state le conoscenze/competenze di cui avete avuto maggiore necessità nel portare avanti il vostro progetto?

Quando decidi di iniziare un percorso come questo, la cosa migliore sarebbe avere qualcuno nel team che abbia già avuto un’esperienza del genere. Avviare una start-up è qualcosa di diverso da tutto il resto e ora sapremmo fare tutto con molta più semplicità. Naturalmente quello di cui abbiamo avuto più necessità riguardava la parte di sviluppo: è difficile trovare persone competenti e innamorate del progetto allo stesso tempo.

Che futuro vede per GLIX?

GLIX aspira a diventare l’App di riferimento per chi ama viaggiare e fare shopping, ma sarà molto di più. “Every outfit a world trip”: immaginate di fare il giro del mondo e di scoprire oggetti unici da Tokyo a New York, viaggiando senza muovervi, e avendo accesso a occasioni imperdibili ed invisibili fino ad ora. In attesa del teletrasporto, siamo sicuramente la migliore soluzione!

Ringraziamo Sara per l’intervista che ci ha concesso e vi invitiamo a visitare GLIX su www.glix.info !

Come acquisti la materia prima per realizzare i capi o accessori che immetti sul mercato?

Nel settore della moda, che si tratti di pellame, di tessuti o di accessori, l’approvvigionamento viene di solito effettuato sulla base di campioni. Campioni di stoffa, di pelle, di accessori (applique, bottoni, zip, patch ecc.) che l’acquirente, dopo aver visionato acquista chiedendo una fornitura di beni dello stesso tipo di quelli esaminati, nella quantità a lui necessaria.

Questo tipo di vendita, detta “a campione” o “su tipo di campione”, è comunissima nel settore moda e utilizzata moltissimo in occasione delle fiere di settore. Essa ha delle importanti implicazioni giuridiche che davvero pochi addetti ai lavori conoscono. Ignorare la disciplina della vendita su campione significa accettare dei rischi non indifferenti

Ecco dunque quello che c’è da sapere ogni volta che si conclude un contratto di vendita di questo tipo.

Il campione

Il campione può avere una duplice valenza:

  1. essere considerato come specifico termine di paragone (in questo caso si tratta di vendita su campione, prevista all’art. 1522 codice civile primo comma[1])
  2. essere considerato un parametro indicativo della qualità della merce (in questo caso si tratta di vendita su tipo di campione, prevista all’art. 1522 codice civile secondo comma[2]).

È importante che risulti ben chiara la volontà delle parti circa il valore da attribuire al campione dato che:

  • nel primo caso, la legge consente di risolvere la vendita per qualsiasi difformità, anche di lieve entità;
  • mentre nel secondo, il compratore può risolvere il contratto, soltanto se la merce presenta una difformità qualitativa notevole rispetto a quella del campione tipo.

Cosa succede se le parti non specificano che tipo di vendita intendevano perfezionare?

La risposta a questa domanda ce la forniscono i tribunali nel risolvere questioni su tale punto specifico: la giurisprudenza[3] infatti tende a ritenere che si tratti di vendita su tipo di campione. In assenza quindi di uno specifico riferimento alla vendita su campione il compratore potrà risolvere il contratto, soltanto se la merce presenta una difformità qualitativa notevole rispetto a quella del campione tipo visionato in fase di acquisto.

Le implicazioni di questo orientamento non sono di poco conto! Per fare un esempio: una lieve differenza di colore del tessuto, non consentirebbe di poter risolvere il contratto con la restituzione del bene da una parte, e del prezzo corrisposto, dall’altra. Sarebbe soltanto possibile ottenere una riduzione del prezzo.

Peccato che in questo settore una sfumatura diversa di colore non è un dettaglio, soprattutto per coloro che, producendo per importanti griffe del settore devono rispettare capitolati di produzione che non lasciano margine di errore.

È chiaro quindi come, precisare contrattualmente che la propria volontà è nel senso di concludere una vendita su campione e non già su tipo di campione diventa di fondamentale importanza.

Lasciare questa circostanza non specificata, imporrebbe, in caso di contestazione, la necessità di ricorrere a prove testimoniali alquanto difficili (spesso addirittura non ammesse dal giudice), volte a chiarire che valore avevano attribuito le parti a quel campione, se come effettivo termine di paragone, ovvero come indicazione generica circa le caratteristiche della merce.

A prima vista, si potrebbe pensare che la vendita su campione, sia una tipologia contrattuale che tuteli maggiormente il compratore in caso di difformità della merce.

In realtà, anche per il venditore tale contratto sortisce degli effetti positivi. Ad esempio, la vendita su campione, non impone al venditore di dimostrare che la merce sia conforme al campione.

Il venditore ha l’onere di dimostrare soltanto la consegna della merce, mentre al compratore incombe l’onere di dimostrarne l’eventuale difformità rispetto al campione.[4]

A tal fine potrebbe essere utile prevedere che il campione venga consegnato al compratore ai fini del controllo, o anche ad un terzo, che potrebbe fungere da custode imparziale o di perito (qualora abbia particolari competenze), ovvero del soggetto incaricato dalle parti di compiere una valutazione tecnica (a prescindere dalle sue competenze).

L’aspetto della conservazione del campione assume difatti un rilievo fondamentale dato che, per dimostrare la difformità della merce, è necessario avere il termine di paragone.

Cosa succede se il campione è stato smarrito?

La giurisprudenza e la dottrina si dilettano ad esprimere la loro opinione circa gli effetti dello smarrimento del campione, giungendo alle seguenti conclusioni.

1. Nel caso di smarrimento del campione da parte del compratore, si dovrebbe presumere, fino a prova contraria, la conformità delle cose consegnate.

2. Qualora invece fosse colpa del venditore, si dovrebbe presumere, fino a prova contraria, che la merce fosse difforme.

Da ultimo, se lo smarrimento non fosse attribuibile ad alcuno, la vendita si risolverebbe per impossibilità sopravvenuta, comportando quindi la restituzione della merce da un lato e la restituzione del prezzo dall’altro.

Rimane invero praticabile un’altra via: quella cioè di qualificare altrimenti la vendita, come non appartenente al tipo speciale in considerazione, ma come una vendita semplice, ovvero non a campione, con tutti le problematiche già analizzate in questo nostro articolo.

Quale soluzione quindi per il caso di smarrimento del campione?

Le parti potrebbero prevedere, a livello contrattuale, quali sono gli effetti della perdita, smarrimento, deterioramento etc. del campione: ricordiamoci infatti che il contratto “ha valore di legge tra le parti”.

Pertanto, la volontà delle parti prevarrebbe sulle soluzioni interpretative, a volte anche fantasiose, dei giuristi.


[1] Art. 1522 c.c., primo comma: “Se la vendita è fatta su campione, s’intende che questo deve servire come esclusivo paragone per la qualità della merce, e in tal caso qualsiasi difformità attribuisce al compratore il diritto alla risoluzione del contratto”.

[2] Art. 1522 c.c., secondo comma: “Qualora, però, dalla convenzione o dagli usi risulti che il campione deve servire unicamente a indicare in modo approssimativo la qualità, si può domandare la risoluzione soltanto se la difformità dal campione sia notevole” [1455[2]].

[3] Per identificare un contratto di vendita “su campione”, ai sensi dell’art. 1522 cod. civ., è necessaria una volontà delle parti espressa nel senso di assumere il campione come esclusivo paragone per la qualità della merce, o così ricostruibile oltre ogni ragionevole dubbio; in caso contrario, la vendita deve intendersi, ai sensi del secondo comma, “su tipo di campione”, dovendosi ritenere che le parti, come avviene normalmente, abbiano assunto il campione per indicare in modo approssimativo la qualità della merce venduta.(cfr. Cassazione civile sez. II  24 giugno 2013 n. 15792)

[4] Nella vendita su campione il venditore non ha altro obbligo che quello di provare di aver consegnato la merce contrattata, senza che egli possa essere tenuto a provarne la conformità, laddove l’onere di provare che la merce non aveva le caratteristiche richieste e risultanti dal campione, incombe al compratore, a dimostrazione del fondamento dell’eccezione opposta alla pretesa del venditore; inoltre, la prova della relativa difformità deve essere valutata esclusivamente mediante il raffronto con il campione, sicché ove il campione manchi o non sia esibito con le necessarie garanzie d’identificazione, viene meno la possibilità di accertare l’inadempimento del venditore in ordine alla particolare qualità della merce oggetto della convenzione. (cfr. Cassazione civile sez. VI  12 giugno 2012 n. 9582).

Filati composti al 100% in nylon riciclato derivante da scarti di produzione di componenti plastici industriali, reti da pesca, tessuti e tappetti giunti a fine vita; tomaie di scarpe da tennis realizzate con camere d’aria dismesse; fiocchi di poliestere riciclato post-consumo ottenuto al 100% da bottiglie in PET recuperate; borse realizzate dagli scarti agricoli della lavorazione delle ananas.

Questa non è fantascienza ma la realtà che racconta l’Osservatorio Internazionale per l’innovazione sostenibile dei materiali e dei prodotti.

Questa è la verità di un mercato sempre più rivolto alla sostenibilità ambientale. Ma in cosa si sostanzia questa sostenibilità ambientale? Come si confronta con la realtà fattuale delle imprese del nostro tessuto imprenditoriale? Quali possibilità ha l’imprenditore di allinearsi a nuovo trend? Quali sono le normative che entrano in gioco?