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Ti sarà capitato sicuramente, nella tua esperienza di imprenditore, di aver subito dei danni a causa di una fornitura consegnata oltre il termine previsto, oppure a causa di una lavorazione fatta da terzi non a regola d’arte.

Capita spesso che, per preservare i rapporti commerciali, l’imprenditore decida di non quantificare la perdita subita (cd. danno emergente) e il mancato guadagno (cd. lucro cessante) a colui che ha causato il danno.

A volte capita che lo stesso imprenditore non sappia quali siano effettivamente i danni che ha subito perché è talmente abituato a considerare “normalità” i ritardi nelle consegne o gli errori nelle lavorazioni.

Anche nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia consapevole della perdita subita, riesce con difficoltà a quantificare il guadagno che avrebbe potuto avere nell’ipotesi in cui, ad esempio, la lavorazione fosse stata effettuata a regola d’arte, senza la necessità di ulteriori rilavorazioni: in questo caso quindi è chiaro l’ammontare del danno emergente ma non quella del c.d. lucro cessante.

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A partire dalla metà degli anni ’90, con la crescita delle economie del c.d. far east, e con l’inarrestabile espansione della globalizzazione dei mercati, è stato avvertito il pericolo per l’industria manifatturiera nazionale, derivante da una pluralità di pratiche connesse all’uso di marchi nazionali registrati o della stampigliatura «made in Italy», consistente nel:

1) l’apposizione di tali segni distintivi su prodotti realizzati interamente all’estero da imprese totalmente estere;

2) l’apposizione di tali segni distintivi su prodotti realizzati interamente all’estero da filiali di imprese italiane ovvero terziste di imprese italiane (c.d. delocalizzazione o outsourcing);

3) l’apposizione di tali segni distintivi su prodotti realizzati parzialmente all’estero e parzialmente in Italia.

In questo contesto si aprì un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale in ordine alla possibilità di sanzionare le suddette condotte tramite l’art. 517 c.p.[1] in materia di Vendita di prodotti con segni industriali mendaci.

In un primo momento la soluzione a cui pervennero dottrina e giurisprudenza fu quella di ritenere che l’art. 517 c.p., tutelasse solo la provenienza/origine del prodotto, intesa come la sua riconducibilità ad una determinata impresa produttrice e quindi ad una identità industriale definita, restando irrilevante l’aspetto concernente la sua provenienza geografica.

Tale soluzione lasciava un vuoto di tutela penalizzando fortemente quei produttori che avevano effettuato la coraggiosa scelta di non delocalizzare la propria produzione[2].

La necessità di colmare tale vuoto normativo e, allo stesso tempo, l’esigenza di dare concreta attuazione agli impegni internazionali presi con l’Accordo internazionale di Madrid[3] sulla repressione delle false o ingannevoli indicazioni di provenienza, portò a vari interventi da parte del legislatore[4] volti:

  1. Da un lato a tutelare la buona fede del consumatore ad acquistare un prodotto materialmente lavorato in Italia;
  2. Dall’altro lato a tutelare la capacità concorrenziale delle imprese nazionali che non ricorrono alla delocalizzazione dei processi produttivi.

Il quadro sanzionatorio che è emerso, anche a seguito di questi interventi, può essere così riassunto:

Internet delle cose: gli oggetti prendono vita

 In base all’ultimo rapporto degli Osservatori del Politecnico di Milano, in Italia nel 2015 vi erano 8 milioni di oggetti connessi, per un valore di 1,15 miliardi di euro: il 38% erano sulle auto, l’8% nelle case[1].

Questo è solo un aspetto della rivoluzione in atto: grazie al cd. Internet of Things (IOT), gli oggetti, mediante la rete internet comunicano, rendono accessibili informazioni e, in generale, acquisiscono un’identità elettronica.

Gli sviluppi di questa tecnologia fanno ormai parte della vita quotidiana: il frigorifero che invia un messaggio se la porta rimane aperta, i sensori che identificano e tracciano gli inquilini all’interno di un’abitazione, la scarpa che misura la nostra agilità e movimento.

La nostra quotidianità è – e sempre più sarà – invasa di oggetti intelligenti.

Quali sono invece gli effetti che l’Internet of Thing può avere sulla produzione di beni?

I sensori intelligenti possono intervenire su vari aspetti della tua impresa. Pensa alla gestione della logistica: dotare le merci di un sensore che rileva la loro posizione in tempo reale.

Questa possibilità di quanto semplificherebbe la gestione delle tue merci?

Il tessuto uscito dalla fabbrica che comunica il suo arrivo nel laboratorio di confezioni….

Il container comunica ciò che e contenuto all’interno…

La borsa che comunica di essere originale e non contraffatta…

L’identità in Rete di ciascun bene, ti permette di geo-localizzarlo e di sapere in ogni istante dove si trova.

Ci è stato chiesto di affrontare la questione inerente la possibilità per il produttore di una linea di abbigliamento, di utilizzare a scopo ornamentale della propria collezione, un’immagine trovata su internet.

Vista la vastità di contenuti che offre la rete, sempre più spesso, spunti e idee creative si ricercano proprio all’interno del web. Nel caso in esame il produttore intende realizzare una linea di magliette raffiguranti un soggetto disegnato che ha trovato nella sconfinata banca immagini di google images.

Senza addentrarci nei profili più tecnici della tutela della proprietà industriale,  vogliamo qui solo evidenziare alcuni capisaldi della disciplina nazionale (ma di origine comunitaria) in materia di disegni e modelli.

  1. Il nostro sistema prevede tra le forme di privativa industriale i disegni e modelli (articoli 31-44 c.p.i.);
  2. Con i disegni e modelli è tutelata la resa puramente estetica (e non funzionale) di un prodotto;
  3. I disegni e modelli, regolarmente registrati godono di una protezione fornita dalla medesima registrazione, avente durata quinquennale a far data dalla presentazione della domanda e fino ad un massimo (prorogabile su richiesta del titolare) di 25 anni
  4. In caso di valida registrazione il titolare del disegno o modello acquista, ex articolo 41 c.p.i., il diritto esclusivo di utilizzarlo e di vietarne l’uso a terzi in assenza di una sua autorizzazione

A fronte di un’immagine rinvenuta on-line ci si dovrà quindi porre i seguenti quesiti:

  1. l’immagine è registrata e quindi beneficia di una tutela giuridica non di mero fatto (per la tutela di fatto, cioè quella prevista per l’immagine non registrata, si rimanda a quanto previsto dal reg. CE 6/2002 artt. 11 e 19)?
  2. se l’immagine è registrata, gode di tutela internazionale o tale tutela ha valenza meramente locale?

Un’immagine infatti, potrebbe non essere tutelata a livello internazionale. La tutela internazionale consente  di ottenere la protezione in tutti i Paesi che aderiscono al sistema dell’Aja (governato dall’atto dell’Aja del 1960 e dall’atto di Ginevra del 1999) attraverso un unico deposito effettuato in un’unica lingua presso l’OMPI / WIPO  (l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale con sede a Ginevra). Essa quindi non discende automaticamente dalla semplice registrazione del disegno o modello.

Per fare un esempio un’immagine giuridicamente tutelata in Venezuela ma non tutelata internazionalmente, potrebbe essere utilizzata senza violazione di diritti di esclusiva altrui in Italia.

Questa circostanza potrebbe assumere rilevanza per tutti i casi in cui l’immagine trovata on-line non sia riconducibile ad una titolarità italiana e, contestualmente, non risulti tutelata da deposito internazionale.

Per concludere, l’accertamento in ordine l’utilizzabilità dell’immagine rinvenuta in internet presuppone un’analisi adeguata e realistica di eventuali diritti di esclusiva di terzi al fine di minimizzare il rischio delle conseguenze negative per la violazione degli stessi.

Quante volte ti sarà capitato di acquistare un bene, ad esempio un dispositivo elettronico, e di dover ritornare nel negozio dove lo hai acquistato, perché non funzionava, munito di regolare scontrino?

Il commesso, una volta verificato che effettivamente il dispositivo non funziona, si è occupato della restituzione del medesimo, dandotene uno nuovo e, si spera, perfettamente funzionante.

Se questa è la situazione-tipo che tutti noi, come consumatori, viviamo, la realtà per gli imprenditori è diversa. Gli scambi commerciali B to B, ovvero business to business, rispondono a delle logiche ed a delle leggi diverse.

Che cosa succede quando compri un bene da un tuo fornitore e questo presenta dei vizi?

Prima di tutto è necessario capire che cosa si intende per vizio.

Dal 3 Febbraio 2021 sarà vietata l’immissione sul mercato dei Nonilfenoli etossilati (NPE), in articoli tessili che possono ragionevolmente essere lavati in acqua nel corso del loro normale ciclo di vita in concentrazioni pari o superiori allo 0,01 % in peso di tale articolo tessile o di ogni parte dello stesso. Lo ha previsto il Regolamento (UE) 2016/26 della Commissione del 13 gennaio 2016, che modifica l’allegato XVII del Regolamento (CE) n. 1907/2006 (REACH).

L’intervento trova origine dal Regno di Svezia che, il 2 agosto 2013, presentava all’Agenzia europea per le sostanze chimiche apposito fascicolo, secondo la normativa di legge[1], al fine di avviare la procedura di restrizione dei NPE, sostanze chimiche tossiche usate per la tintura dei tessuti a cui donano brillantezza. La relazione argomentava indicando che l’esposizione ai nonilfenoli e ai nonilfenoli etossilati costituisce un rischio per l’ambiente, in particolare per le specie acquatiche che vivono nelle acque di superficie. Al fine di limitare tale rischio, il fascicolo proponeva quindi di vietare l’immissione sul mercato di articoli tessili che possono essere lavati in acqua, qualora contengano NP e NPE in concentrazioni pari o superiori a 100 mg/kg (0,01 % in peso).

Sempre più spesso gli imprenditori del settore tessile si preoccupano di tutelare il proprio know-how, ovvero quell’insieme di conoscenze e abilità, competenze ed esperienze, necessarie per svolgere al meglio determinate attività all’interno di un comparto industriale.

Tutelare il know-how della tua azienda è indispensabile per metterlo a riparo da furti che possono compromettere la competitività che, grazie ad esso, hai acquisito sul mercato. Questo soprattutto qualora tu affidi parte della tua produzione a subfornitori (anche noti come contoterzisti). In questi casi infatti, il tuo subfornitore deve conoscere esattamente le procedure di realizzazione dei semilavorati che produce per te. Diventa quindi imprescindibile avere la certezza che non “venda” le tue metodologie ad un concorrente, vanificando i tuoi sforzi di innovazione ed erodendo i vantaggi economici connessi alla unicità del tuo prodotto.

C’era una volta una grande azienda[1], famosa in tutto il mondo per il suo marchio, che nella sfilata Haute Couture, primavera – estate 2016, presentava una scenografia bucolica, realizzata con materiale riciclato e che, a detta della stessa griffe, sarebbe stato riutilizzato…

C’era una volta un altro noto marchio di lusso[2] che realizzò una linea ecologica (Petit-H), destinata a ridare vita ai ritagli di alta moda, recuperare pezzi di design, riutilizzare materiali altrimenti destinati allo smaltimento…

C’era una volta un colosso della moda per le “grandi masse”[3] che decise di abbandonare la filosofia del “take, make, waste” (prendere, fare, sprecare) e lanciò un contest intitolato The Global Change Award: promettendo un premio di un milione di euro a chi avesse presentato il miglior progetto per riciclare gli scarti delle collezioni passate…

Non sono favole; è il nuovo imperativo del Fashion: la sostenibilità. Sempre più aziende del settore hanno scelto di ridurre l’impatto che la loro attività ha in ambito ambientale, sociale ed economico.

Che cosa si intende per sostenibilità?

Il termine sostenibilità è stato definito per la prima volta, con riferimento all’ambiente, come quella prerogativa essenziale per garantire la stabilità di un ecosistema, ovvero la capacità di mantenere nel tempo i processi e la biodiversità all’interno del medesimo.

Il riciclo dei materiali impiegati è solo uno degli aspetti toccati dalla sostenibilità. A causa della cd. fast fashion, e quindi dell’aumento della produzione globale di fibre (cotone e poliestere) l’uso delle risorse naturali, diventa un tema di fondamentale importanza. In particolare, nei cicli produttivi le aziende sostenibili studiano sistemi per la riduzione dell’utilizzo dell’acqua e per la riduzione delle emissioni di CO².

L’aspetto dell’approvvigionamento energetico si declina nello sfruttamento di fonti di energia alternative e nell’inserimento di macchinari a consumi ridotti.

Se questi cambiamenti possono riguardare tutte le società, a prescindere dal settore di appartenenza, nella moda, alcuni marchi importanti e alcune aziende di produzione hanno sottoscritto il “Detox Solution Commitment”, promosso da Greenpeace, protocollo in base al quale ci si impegna a liberare la moda da sostanze tossiche entro il 2020.

Perché le grandi multinazionali della moda (e non solo) hanno deciso di abbracciare la filosofia green?

L’attenzione all’ambiente è diventata un vero e proprio must per il settore della moda, data la sensibilità sempre maggiore che i consumatori rivolgono a questa tematica. Il 55% dei consumatori ha dichiarato di essere disposto a pagare di più per prodotti e servizi offerti da aziende impegnate nella sostenibilità ambientale e sociale[4]. Attuare politiche di sostenibilità ambientale significa quindi creare valore tangibile per l’azienda. Ecco svelato il “segreto” per cui il mondo della moda ha preso questa direzione green.

Che impatti può avere questa nuova filosofia nella tua azienda?

La filosofia green, che stanno abbracciando sempre più aziende, non è una “moda nella moda”. Se da un lato, infatti, questa esigenza di sostenibilità nasce da un fattore economico (attirare i clienti e poter vendere i propri prodotti a prezzi maggiori), dall’altro è anche un obbligo che arriva da più fronti (si pensi agli ambiziosi obiettivi posti dal Protocollo di Kyoto, declinati nei vari continenti, nonché alle recenti linee programmatiche della COP21 di Parigi).

Ignorare le nuove “tendenze verdi” oggi, significa mettere in seria difficoltà la tua azienda domani. In un futuro non troppo lontano infatti, i grandi brand imporranno in modo sempre più tassativo ai propri fornitori, di dimostrare garanzie di sostenibilità del ciclo produttivo e del prodotto. Il consumatore, allarmato dalle informazioni che i media forniscono sullo stato di salute compromesso del pianeta, sceglierà a parità di condizioni, il prodotto più “ecoresponsabile”. A livello pubblicitario i tuoi competitor verdi, potranno sfruttare la potente arma del prodotto “amico per l’ambiente”. In Italia addirittura, i produttori più virtuosi, potranno fregiarsi del nuovo marchio “Made Green in Italy”, ufficialmente introdotto con la L. 221/2015.

Quali vantaggi può comportare diventare un’azienda sostenibile?

Il primo indiscusso vantaggio del diventare un’azienda sostenibile è quello di conservare la propria posizione nel mercato, se non addirittura migliorarla incrementando la propria clientela ed i propri profitti. Per poter sopravvivere, anzi, vivere dignitosamente in questo settore altamente competitivo, è indispensabile adeguarsi agli standard imposti dai migliori.

Non pensare però alla sostenibilità come l’ennesimo odioso obbligo a cui adempiere per “rimanere in gioco”. L’adeguarsi ad un buon livello di produzione sostenibile significa in molti casi ridurre i propri costi ed aumentare i guadagni.

Essere attenti alla sostenibilità ambientale, infatti, impone una buona conoscenza dei processi produttivi, finalizzata alla loro ottimizzazione: ad esempio, il risparmio energetico passa attraverso una conoscenza precisa del proprio fabbisogno di energia, ottenuto mediante un monitoraggio della produzione. Il contenimento dell’utilizzo delle sostanze tossiche, presuppone la conoscenza delle modalità operative di eventuali contoterzisti ed un’adeguata contrattualizzazione dei loro impegni. Ottimizzare i costi significa anche sapere quando, ciò che genera dal proprio processo produttivo, è un rifiuto e quando invece si tratta di un sottoprodotto che può trovare nuovo impiego diventando una risorsa e non un costo.

Come è evidente quindi, la riduzione dell’impatto ambientale può giovare al tuo portafoglio prima ancora che all’ambiente.

Per citare un esempio emblematico a proposito, si può fare riferimento alle aziende che, nell’Unione Europea, hanno adottato il marchio ecologico Ecolabel. Vari studi (tra gli altri Iraldo, Cancila, 2010 e IEFE, Università Bocconi 2006) hanno evidenziato come il 57% delle aziende che ha ottenuto l’Ecolabel Europeo ha registrato incrementi nelle quote di mercato e/o in termini di acquisizione di nuovi clienti a seguito dell’adozione del marchio. Questi studi hanno, inoltre, misurato l’aumento percentuale nel fatturato indotto dall’Ecolabel e, sebbene molte aziende certificate non abbiano saputo isolare e quantificare il contributo specifico del marchio sull’andamento delle vendite, il dato riscontrato dallo studio è decisamente confortante: in media l’Ecolabel genera un aumento del fatturato del 3-5%, con punte massime che raggiungono il 30-35%.

Come realizzare un’impresa sostenibile?

Gli strumenti che aiutano gli imprenditori a creare un sistema sostenibile dal punto di vista ambientale sono vari: dalla certificazione ambientale EDP, a quella climatica, all’ISO 14001, all’Ecolabel, all’OEKO-TEX. Vi sono poi sofisticati strumenti di gestione economica come gli eco-bilanci e la contabilità ambientale. Infine la stessa gestione contrattuale dei rapporti con fornitori e subfornitori potrà costituire il primo passo verso una gestione aziendale più sostenibile.

Per implementare questi strumenti è necessario valutare la situazione esistente, pianificare degli standard ottimali da perseguire, individuare gli eventi che potrebbero impedire, o rendere difficile, il raggiungimento degli obiettivi e realizzare un piano di mitigazione dei rischi individuati.  Il sistema così come progettato e pianificato andrà implementato in azienda e monitorato instaurando un circolo virtuoso di miglioramento e ottimizzazione continuo.


[1] Chanel

[2] Hermes

[3] H&M

[4] Indagine pubblicata da Nielsen, “Doing Well by Doing Good”, giugno 2014, condotta tra il 17 febbraio e il 7 marzo 2014, intervistando oltre 30.000 persone in 60 Paesi, nelle regioni Asia-Pacifico, Europa, America Latina, Medio Oriente, Africa e Nord America.

Quando un prodotto può dirsi “Made in Italy”? La risposta non è affatto immediata. Il Made in Italy negli anni è stato oggetto di un ricco e acceso dibattito nel contesto socio-politico non solo italiano ma anche comunitario ed internazionale. Si sono infatti avvicendati nel tempo numerosi provvedimenti normativi, da un lato volti a tutelare il consumatore che desidera conoscere l’effettiva provenienza della merce che acquista, dall’altro lato richiesti dai produttori per tutelare i propri manufatti da brutte-copie della concorrenza straniera.

Cerchiamo con questo articolo di mettere un po’ d’ordine dando alcune indicazioni per tentare di capire se effettivamente un determinato prodotto possa essere definito “Made in Italy” oppure no.

In linea generale, è universalmente accettato il principio in base al quale sono sempre considerate originarie di un Paese le merci ivi interamente ottenute, le quali possono quindi essere ragionevolmente definite autoctone[1].

Diversamente, quando la merce, di cui si deve stabilire l’origine, è ottenuta con l’utilizzo di materiali originari di Paesi diversi, la questione si complica e sono necessarie valutazioni più approfondite.

Innanzitutto, in tali casi, la legislazione di settore prevede – pressoché ovunque nei diversi mercati mondiali – regole particolari a seconda che si tratti di attribuire l’origine preferenziale o non preferenziale. Qui la questione inizia a complicarsi pertanto, per fare chiarezza ricordiamo che per origine:

  • Non preferenziale si intende quella che consente al consumatore di avere informazioni sull’effettivo luogo di produzione delle merci (questa è quella che interessa ai fini dell’attribuzione di un certo “Made in”). L’origine non preferenziale definisce quindi la “nazionalità” di un prodotto.
  • Preferenziale si intende quella che dà diritto a benefici tariffari (ingresso a dazio zero o a dazio ridotto) negli scambi tra paesi che hanno stipulato accordi di commercio preferenziale. Perché la merce possa essere considerata di origine preferenziale devono essere soddisfatte alcune condizioni specifiche indicate nei protocolli di origine degli accordi di commercio.

Per rispondere alla domanda, quando un prodotto può essere considerato “Made in Italy”, dobbiamo quindi fare riferimento alla sua origine c.d. non preferenziale. La norma di riferimento a tale fine è l’art. 24 del Reg. 2913/92 secondo cui “Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

La regola per stabilire se un determinato prodotto sia di origine non preferenziale Italiana è dunque quella della c.d. “trasformazione sostanziale” o “lavorazione che conferisce l’origine”.

Ai fini dell’individuazione dei requisiti sopra indicati il legislatore comunitario[2] fornisce un elenco tassativo di lavorazioni o trasformazioni in grado di conferire alla merce una determinata origine.

Ad esempio: nel caso di filati e monofilamenti (diversi dai filati di carta), perché si possano ritenere prodotti Made in Italy, dovrà avvenire in Italia il processo di fabbricazione – inteso come qualsiasi tipo di lavorazione o trasformazione, incluso l’«assiemaggio» – che parte dalle fibre naturali, non cardate né pettinate né altrimenti preparate per la filatura[3].

In alcuni casi il legislatore, oltre ad indicare quale tipo di lavorazione o trasformazione debba essere effettuata in un determinato territorio perché il prodotto in esso trovi origine, impone un requisito ulteriore connesso al valore del materiale “non originario” (sostanzialmente al valore della materia prima su cui si deve effettuare la lavorazione/trasformazione). In altri termini si richiede che le fasi di lavorazione o trasformazione abbiano un valore superiore – in percentuale determinata dal Reg. Cee n. 2454/93 – rispetto al costo della materia prima.

Facciamo un altro esempio per chiarire questa ipotesi. Nel caso di stampa di filati, accompagnata da operazioni di rifinitura in cui è compresa la testurizzazione in quanto tale, avvenuta in Italia, tali filati potranno ritenersi Made in Italy, solo qualora il valore della materia prima non superi il 48 % del prezzo franco fabbrica del prodotto.

Ci è di più. Il legislatore comunitario, al fine di evitare che alcuni produttori, per beneficiare di un determinato “Made in…” effettuassero lavorazioni fittizie o marginali, con una norma di chiusura ha precisato:

si considerano sempre insufficienti a conferire il carattere originario le seguenti lavorazioni o trasformazioni:

a) le manipolazioni destinate ad assicurare la conservazione dei prodotti tal quali durante il trasporto e il magazzinaggio (ventilazione, spanditura, essiccazione, rimozione di parti avariate e operazioni affini);

b) le semplici operazioni di spolveratura, vagliatura, cernita, classificazione, assortimento (ivi compresa la composizione di serie di prodotti), lavatura, riduzione in pezzi;

c) i) i cambiamenti d’imballaggio; le divisioni e riunioni di partite;

    ii) la semplice insaccatura, nonché il semplice collocamento in astucci, scatole o su tavolette, ecc., e ogni altra semplice operazione di condizionamento;

d) l’apposizione sui prodotti e sul loro imballaggio di marchi, etichette o altri segni distintivi di condizionamento;

e) la semplice riunione di parti di prodotti per costituire un prodotto completo;

f) il cumulo di due o più operazioni indicate alle lettere da a) ad e”)[4].

Il quadro normativo sino a qui delineato si basa sul Reg. Cee 2913/92 e relativo Regolamento di attuazione n. 2454/93, i quali a partire dal 1 maggio 2016 risulteranno superati per effetto dell’entrata in vigore del nuovo codice doganale, il Reg. Cee n. 952/2013.

Non solo, il panorama normativo di natura comunitaria, deve confrontarsi anche con la legge nazionale n. 55/2010 (anche nota come Legge Reguzzoni-Versace), la quale ha previsto:

4. L’impiego dell’indicazione «Made in Italy» è permesso esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione, come definite ai commi 5, 6, 7, 8 e 9[5], hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità.

Essendo la Legge in esame una “legge-quadro” necessita l’adozione di decreti attuativi per trovare applicazione. Tuttavia ad oggi tali decreti non sono ancora stati emanati[6]. In attesa della normativa di attuazione, il Presidente del Consiglio, su parere dell’Agenzia delle Dogane, ha chiarito che dovranno continuare a trovare applicazione i parametri stabiliti dal Regolamento europeo come precedentemente illustrati[7].

Per concludere la nostra analisi volta a chiarire quando un prodotto possa essere definito “Made in Italy”, ricordiamo che, l’articolo 16 del d.l. 135/09 convertito con legge n. 166/09, ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità di utilizzare il più stringente marchio “100% Made in Italy”. Se vuoi avere maggiori informazioni in merito clicca qui.


[1] Art. 23, Reg. Cee n. 2913/92.

[2] Reg. Cee n. 2454/93 agli allegati 10 per Materie tessili e loro manufatti.

[3] All. 9 e 10 Reg. Cee n. 2454/93.

[4] Art. 38 Reg. Cee n. 2454/93.

[5] Art. 1, commi 5-9 “Nel settore tessile, per fasi di lavorazione si intendono: la filatura, la tessitura, la nobilitazione e la confezione compiute nel territorio italiano anche utilizzando fibre naturali, artificiali o sintetiche di importazione. Nel settore della pelletteria, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, il taglio, la preparazione, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione. Nel settore calzaturiero, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione. Ai fini della presente legge, per «prodotto conciario» si intende il prodotto come definito all’articolo 1 della legge 16 dicembre 1966, n. 1112, che costituisca parte del prodotto finito o intermedio destinato all’abbigliamento, oppure all’utilizzazione quale accessorio da abbigliamento, oppure all’impiego quale materiale componente di prodotti destinati all’arredo della casa e all’arredamento, intesi nelle loro piu’ vaste accezioni, oppure come prodotto calzaturiero. Le fasi di lavorazione del prodotto conciario si concretizzano in riviera, concia, riconcia, tintura – ingrasso – rifinizione. Nel settore dei divani, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione del poliuretano, l’assemblaggio dei fusti, il taglio della pelle e del tessuto, il cucito della pelle e del tessuto, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione“.

[6] Art. 2, comma 1, l. n. 55/2010.

[7] Presidenza del Consiglio dei Ministri DCPC 0006554 del 30/09/2010; Agenzia delle Dogane Prot. 119919RU del 22/09/2010

È ormai da una quindicina d’anni che si sente parlare di “Responsabilità penale d’impresa” o, più correttamente di “Responsabilità degli Enti per illeciti amministrativi dipendenti dalla commissione di reati”. Ma di che cosa si tratta?

Con questo articolo vogliamo spiegarlo in modo semplice ed efficace, senza usare tecnicismi… cosicché anche i non addetti ai lavori possano finalmente capire che cos’è questa “nuova” forma di responsabilità.

Per fare ciò è necessaria una piccola premessa. Come probabilmente saprai o potrai intuire, nel nostro ordinamento la responsabilità penale è personale, questo, semplificando moltissimo, vuol dire che “in galera” ci possono andare solo ed esclusivamente le persone fisiche.

Fino al 2001, anche nel caso, tutt’altro che raro, in cui un reato venisse commesso all’interno di una organizzazione societaria, l’unico soggetto chiamato a rispondere penalmente di questo reato era colui che l’aveva in concreto commesso (ad esempio l’Amministratore o il Dirigente, eventualmente in concorso con i suoi vari colleghi di malaffare). La Società invece, non rispondeva del reato commesso, molto spesso nel suo interesse o a suo vantaggio. Accadeva così che il colpevole di turno, processato e punito, veniva rimosso dalla compagine sociale e sostituito con un nuovo soggetto… il più delle volte con pari o maggiore dedizione al crimine.

Si pensi all’ipotesi dell’azienda produttiva che, per un risparmio di spesa, decideva, con l’aiuto di qualche premiata ditta dell’eco-mafia, di smaltire illecitamente i propri rifiuti pericolosi, inviandoli alla tristemente nota “terra dei fuochi”. Una volta sgominata l’associazione criminosa e i suoi clienti, veniva punito il colpevole (immaginiamo che si trattasse dell’Amministratore Delegato), ma l’azienda indisturbata poteva proseguire (magari con maggiori accortezze) nel tenere le proprie condotte criminose. Ovviamente previa nomina di un nuovo Amministratore Delegato ben referenziato!

Fu proprio per porre rimedio a problemi di questo tipo (concernenti prevalentemente reati corruttivi e in materia di truffa) che, nel 2001, venne introdotta la c.d. “Responsabilità penale d’impresa”[1], ovvero una nuova forma di responsabilità che consentiva in qualche modo di sanzionare le Società dedite al crimine. Ovviamente la sanzione applicabile non poteva che essere di natura pecuniaria, per l’evidente difficoltà di “mettere dietro alle sbarre” o agli arresti domiciliari una s.p.a. o una s.r.l.

Dal 2001 quindi, qualora all’interno di una Società[2], sia commesso un reato, nell’interesse o a vantaggio della Società stessa, questa potrà essere processata per quel reato e, in presenza di determinate condizioni, condannata. La pena potrà variare da un minimo di € 25.800 ad un massimo di € 1.549.000. Non solo, in alcuni casi, la Società potrà essere condannata anche:

  1. all’interdizione dall’esercizio della propria attività
  2. alla sospensione o revoca delle autorizzazioni funzionali alla commissione dell’illecito
  3. al divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione
  4. all’esclusione da agevolazioni, finanziamenti o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi
  5. al divieto di pubblicizzare i propri beni o servizi.

Tornando quindi al nostro esempio in materia di smaltimento illecito di rifiuti: con l’introduzione della responsabilità penale di Impresa, non solo sul banco degli imputati sarebbe finito l’Amministratore delegato eco-irresponsabile e i suoi colleghi di malaffare, ma anche la Società (in persona del suo legale rappresentante).

Non ci soffermiamo, come promesso, ad analizzare le varie disposizioni tecniche della normativa di settore che chiariscono nel dettaglio tutti i presupposti oggettivi e soggettivi per la sussistenza della Responsabilità penale d’impresa.

Se però la questione ti sta appassionando e vuoi conoscere maggiori dettagli ti invitiamo a leggere questo contributo.

In questa seda ci limitiamo a ricordare che, non tutti i reati previsti dal nostro ordinamento penale possono generare la Responsabilità penale d’impresa.

Cerchiamo di chiarire le cose con un esempio. Immaginiamo tu sia l’amministratore delegato della Società Alfa s.r.l. che deve effettuare un investimento importante per l’acquisto di nuovi macchinari. Immaginiamo anche che, dopo vari tentativi e richieste, nessun istituto di credito abbia accettato di accordarti il finanziamento necessario per i tuoi acquisti. Vista la situazione e, vista l’importanza per la tua azienda di effettuare il nuovo investimento, decidi, assieme al Direttore Generale e al responsabile dell’Ufficio Finanziario di rapinare la Banca Alfa. In questo caso, la tua Società Alfa s.r.l., sebbene la rapina sia stata commessa nel suo interesse e a suo vantaggio, rimarrebbe comunque impunita in quanto il reato di rapina non determina Responsabilità penale di impresa.

Quali sono dunque i reati in grado di determinare l’insorgere della Responsabilità penale di impresa?

Si tratta di vari reati che possiamo riassumere all’interno delle seguenti categorie: Reati contro la Pubblica Amministrazione; Falsità in monete, carte di credito, valori bollati; Reati societari; Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico; Delitti contro la personalità individuale; Abusi di mercato; Pratiche di mutilazione degli organi femminili; Delitti transazionali; Delitti di ricettazione, riciclaggio, autoriciclaggio, impiego di denaro o beni o utilità di provenienza illecita; Delitti informatici; Reati colposi in materia di Sicurezza sul Lavoro (omicidio colposo, lesioni personali gravi e gravissime); Delitti di criminalità organizzata; Delitti contro l’industria e il commercio; Violazione di diritto d’autore; Induzione a non rendere dichiarazioni o mendaci all’Autorità Giudiziaria; Reati ambientali; Reati di sfruttamento sessuale di minori e pornografia minorile.

Di tutti questi reati attenzione speciale meritano i Reati colposi in materia di Sicurezza sul Lavoro e i Reati ambientali. Questi infatti, diversamente da tutti gli altri, possono determinare una Responsabilità penale dell’Impresa, anche se il soggetto che li ha commessi non ha agito con dolo.

Facciamo anche qui un esempio per chiarire questo aspetto fondamentale.

Qualora l’Amministratore Delegato della Società Alfa, mediante artifizi o raggiri ottenga un cospicuo finanziamento pubblico cui la sua azienda non avrebbe diritto, risponderà di truffa e con lui risponderà la stessa Società Alfa, per effetto della normativa in materia di Responsabilità penale d’impresa. In questo caso è evidente che l’Amministratore non solo era consapevole di star truffando il sistema, ma addirittura questo era proprio ciò che voleva, al fine di assicurare un ingiusto profitto alla sua Società.

Diverso è il caso dell’Amministratore Unico (e Datore di Lavoro) della Società Beta che, per dimenticanza, non organizza la formazione del dipendente neoassunto il quale, per inesperienza, si provoca uno schiacciamento delle dita della mano alla partenza di un telaio. In questo caso è altrettanto evidente che l’Amministratore Unico (e Datore di Lavoro), non voleva affatto che il suo dipendente neoassunto si schiacciasse le dita della mano provocandosi una grave lesione. Ciò nonostante la sua dimenticanza nell’organizzazione della formazione prevista per legge, comporterà per lui e per la Società Beta la responsabilità per aver commesso un reato colposo in materia di Sicurezza sul lavoro.

Lo stesso potrebbe dirsi per il caso di sversamento accidentale di rifiuti pericolosi derivanti dai fanghi di lavaggio delle pelli, o per altri reati ambientali colposi.

Da questi esempi puoi capire che la “spada di Damocle” della Responsabilità penale d’impresa è un arma particolarmente affilata con riferimento alle materie dell’Ambiente e della Sicurezza sul lavoro. In tali ambiti, essa potrebbe determinare l’applicazione di sanzioni (anche interdittive, come il fermo produzione), a fronte di un evento non voluto e accidentale.

Se queste sono le “cattive notizie”, le buone notizie sono date dalla possibilità, concessa dal nostro Ordinamento di dotarsi di Modelli di Organizzazione e Gestione in grado di ridurre fortemente il rischio di Responsabilità penale d’impresa. Per avere maggiori informazioni su tali Modelli, anche noti come “Modelli 231”, dal nome del Decreto Legislativo che ha introdotto questa forma di responsabilità, clicca qui.


[1] Introdotta con D.Lg. 231/2001.

[2] Più precisamente la normativa parla di “Ente”, potendo essere destinatari di questa responsabilità tutti gli Enti a soggettività privata (anche privi di personalità giuridica quali Associazioni, Fondazioni, Comitati) e gli Enti a soggettività pubblica che svolgono attività economica.