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Cos’è 100% Made in Italy? Facciamo un po’ d’ordine

Hai intrapreso una start-up innovativa nel settore moda con produzione in Italia? Produci da anni nel Bel Paese e vuoi che questo sia scritto a chiare lettere sul tuo prodotto? Sei un Italiano vero, uno dei pochi impavidi che non ha delocalizzato la propria produzione nei paesi dell’est o in un oriente ancora più estremo, e vuoi gridare al mondo il tuo eroismo?

Qualunque sia la tua posizione, se hai bisogno di capire una volta per tutte se puoi fregiarti del blasone 100% Made in Italy, evitando le sanzioni penali e amministrative previste dal nostro ordinamento, questo articolo fa a caso tuo.

Prima di procedere facciamo una piccola precisazione. Ad oggi chi vuole dichiarare l’italianità del proprio prodotto ha due alternative:

  1. Ricorrere al marchio Made in Italy, alle condizioni indicate nel Codice Doganale
  2. Ricorrere al più elitario marchio 100% Made in Italy. Riservato ai veri puristi della produzione italiana.

In questo contributo ci concentriamo sul 100% Made in Italy, se però tu sei alla ricerca di informazione sul semplice Made in Italy ti invitiamo a leggere qui.

Per poter utilizzare il marchio 100% Made in Italy (“Tutto italiano”, “100% Italia” e altre diciture analoghe) il tuo prodotto deve:

  1. essere classificabile come Made in Italy ai sensi della normativa vigente. La normativa vigente[1] (artt. 23 e 24 del Reg. 2913/92) – spiegata con maggiore dettaglio qui- prevede che le merci interamente ottenute in un unico Paese o territorio sono considerate originarie di tale Paese o territorio. Le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori sono considerate originarie del Paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione sostanziale. L’indicazione del marchio d’origine non è dunque concessa se l’attività di trasformazione non è svolta in Italia o se – anche svolta nel nostro Paese – è però marginale;
  2. essere disegnato, progettato, realizzato e confezionato esclusivamente sul territorio italiano[2].

Al fine di rendere evidente il giusto valore del prodotto realizzato in Italia, è stata elaborata e resa operativa la Certificazione 100% Made in Italy, da parte del ITPI (Istituto della Tutela dei Produttori Italiani), organismo nazionale iscritto al CNEL, già dal 2004, con la funzione di tutelare, valorizzare e promuovere il Made in Italy.

La certificazione volontaria rilasciata dall’ITPI alle condizioni chiarite nel sito dell’Organismo, di seguito riportate:

L’iter di Certificazione si avvia con la sottoscrizione volontaria da parte dell’Azienda del Regolamento del Sistema IT01 e della Richiesta di Certificazione.
I prodotti che il Produttore intende commercializzare, usando i marchi ed i segni distintivi “Made in Italy Certificate”, debbono avere i seguenti requisiti:

  1. Ideati e Fabbricati interamente in Italia
  • Realizzati con disegni e progettazione esclusivi dell’Azienda
  • Costruiti interamente in Italia
  • Realizzati con semilavorati Italiani
  • Con tracciabilità delle lavorazioni
  1. Costruiti con Materiali Naturali di Qualità
  • Materiali naturali individuali o composti
  • Materiali di qualità e prima scelta per l’uso previsto
  • Con tracciabilità della provenienza delle materie prime
  1. Costruiti su Lavorazioni Tradizionali Tipiche
  • Particolari lavorazioni aziendali
  • Utilizzo di tecniche tradizionali tipiche
  1. Realizzati nel Rispetto del Lavoro Igiene e Sicurezza
  • Realizzati nel pieno rispetto del lavoro
  • A norma igiene sanità e sicurezza su luoghi e prodotti

L’Istituto accerta la sussistenza dei requisiti ed accorda la Certificazione che ha validità 1 anno. Nel mese successivo all’ottenimento della Certificazione, un funzionario dell’Istituto verificherà la sussistenza dei requisiti sopra indicati e procederà al completamento dell’istruttoria con l’acquisizione della documentazione necessaria e la compilazione delle schede del Disciplinare. Entro la fine del mese successivo il funzionario confermerà all’Azienda l’ottenimento della Certificazione. L’Azienda sarà quindi iscritta nel Registro Nazionale Produttori Italiani”.

Come è possibile ricavare dagli stessi requisiti espressamente richiesti dall’ITPI, ovviamente, il fatto che le materie prime utilizzate per realizzare il prodotto finito siano acquistate all’estero, non pregiudica il conseguimento della certificazione a condizione che si tratti comunque di “Materiali naturali di Qualità” e sussistano tutti gli ulteriori presupposti sopra indicati.

L’Istituto ha provveduto ad istituire un sistema di tracciabilità per i prodotti certificati ” 100% Made in Italy”. L’azienda certificata dovrà utilizzare i segni distintivi rilasciati dall’Istituto, dotati di marchio olografico anti-contraffazione e di numerazione progressiva[3].

Nel caso di utilizzo al di fuori dei presupposti indicati, si incorre nel reato di contraffazione (art. 517 c.p.) punito con la reclusione fino a due anni e la multa fino a ventimila euro[4], aumentate di un terzo[5] in caso di utilizzo della dicitura di completa provenienza come “100%” o “Tutto italiano[6]”.

Per “uso” della suddetta indicazione si intende l’utilizzazione a fini di comunicazione commerciale o l’apposizione della dicitura sul prodotto, sulla confezione di vendita o sulla merce dalla presentazione in dogana fino alla vendita al dettaglio[7].


[1] Come è noto a far data dal 1 Maggio 2016, entrerà in vigore il nuovo Reg. 952/2013 come integrato dal Regolamento Delegato della Commissione 28 luglio 2015. Da tale data il riferimento dovrà ritenersi fatto all’art. 60 e ss., come previsto dalla tabella di corrispondenza del nuovo Codice Doganale.

[2] Art. 16, D.L. 135/2009 “Si intende realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano”.

[3] http://madeinitaly.org/certificazione-made-in-italy.php

[4] Modificato con il decreto competitività (d.l. 35/2005 conv. L. 80/05) che ha innalzato la pena pecuniaria del reato di contraffazione “da due milioni” a “ventimila euro”.

[5] Art. 16, comma 4, d.l. 135/2009.

[6] Anche chiamato full “made in Italy” dalla Circolare Ag. Dogane Rif.33281 R.I. del 12/11/2009.

[7] Art. 16, comma 3, d.l. 135/09.

Qualora tu non sia in grado di attribuire con certezza l’origine del tuo prodotto, puoi chiedere la c.d. informazione in materia d’origine vincolante (anche detta I.V.O.). Si tratta, appunto, di una informazione sull’origine del prodotto, avente efficacia vincolante, essendo l’esito di una vera e propria richiesta di certificazione dell’esatta provenienza delle merci, alle Autorità competenti.

È possibile ricorrere a questo strumento presentando alla Dogana un’istanza. Questo istituto è regolato dall’art. 12 del Codice Doganale Comunitario (Reg. Cee n. 2913/92)[1] e dagli artt. 6 e 7 del Reg. Cee n. 2454/93.

La richiesta può riguardare qualsiasi merce per la quale l’operatore non sia in grado, a causa di particolari processi produttivi o per utilizzo di materie prime provenienti da differenti Paesi, di stabilire con certezza l’esatta origine da attribuire ai prodotti.

L’informazione fornita è vincolante per tutte le amministrazioni degli Stati membri della Comunità[2] ed è valida per un periodo di tre anni dalla data del suo rilascio, a condizione che le merci importate o esportate e le circostanze che disciplinano l’acquisizione dell’origine corrispondano, sotto tutti gli aspetti, con quanto descritto nell’informazione[3].

La richiesta di I.V.O. dev’essere formulata per iscritto e presentata all’autorità doganale competente dello Stato membro o degli Stati membri in cui detta informazione deve essere utilizzata, oppure all’autorità doganale competente dello Stato membro in cui è stabilito il richiedente[4]. È necessario utilizzare il modulo predisposto dall’Agenzia delle Dogane[5].

La richiesta può riguardare sia l’origine non preferenziale, sia quella preferenziale delle merci[6] in base all’interesse sussistente in capo al richiedente. Questo interesse in particolare potrà riguardare:

  1. L’etichettatura nel primo caso, quindi la certificazione del “Made in…”;
  2. L’abbattimento dei diritti doganali nel secondo caso[7].

Un limite che caratterizza la richiesta di I.V.O. è rappresentato dal fatto che essa può riferirsi ad una merce sola[8]. Nell’ipotesi dunque in cui l’operatore desideri conoscere l’origine di più prodotti, oggetto del suo commercio, dovrà necessariamente presentare un numero di richieste I.V.O. pari al numero delle merci in questione.

L’informazione deve essere rilasciata dall’Autorità entro 150 giorni dal ricevimento della richiesta[9]. La richiesta d’informazione vincolante in materia d’origine deve contenere i seguenti elementi:

  1. a) nome e indirizzo del titolare;
  2. b) nome e indirizzo del richiedente nel caso in cui questi non sia il titolare;
  3. c) quadro giuridico adottato, ai sensi degli articoli 22 e 27 del codice[10];
  4. d) descrizione dettagliata e classificazione tariffaria della merce;
  5. e) all’occorrenza, composizione della merce, metodi di esame eventualmente utilizzati per la sua determinazione e il suo prezzo franco fabbrica;
  6. f) condizioni che permettono di determinare l’origine, la descrizione delle materie utilizzate e le relative origini, le loro classificazioni tariffarie, i valori corrispondenti e la descrizione delle circostanze (regole relative al cambiamento di voce, al valore aggiunto, alla descrizione della lavorazione o trasformazione, o qualsiasi altra regola specifica) che hanno permesso di soddisfare le condizioni in questione; in particolare, devono essere indicate la regola di origine specifica applicata e l’origine prevista per la merce in questione;
  7. g) eventuale fornitura sotto forma di allegati, di campioni, fotografie, schemi, cataloghi o altra documentazione, relativi alla composizione della merce e alle materie che la compongono, tali da illustrare il processo di fabbricazione o di trasformazione subito da queste materie;
  8. h) impegno di fornire, su richiesta dell’autorità doganale, una traduzione della documentazione eventualmente acclusa nella lingua o in una delle lingue ufficiali dello Stato membro interessato;
  9. i) indicazione degli elementi da considerare riservati, indipendentemente dal fatto che riguardino il pubblico o le amministrazioni;
  10. j) indicazione da parte del richiedente se, per quanto gli risulta, è stata già chiesta o fornita nella Comunità un’informazione tariffaria vincolante o un’informazione vincolante in materia d’origine per una merce identica o simile a quelle menzionate alle lettere d) o f);
  11. k) accettazione che le informazioni fornite siano inserite in una banca dati della Commissione accessibile al pubblico; tuttavia, oltre al disposto dell’articolo 15 del codice, si applicano le disposizioni in materia di protezione delle informazioni in vigore negli Stati membri[11].

La richiesta di I.V.O., pertanto, non sarà accettata se:

– non è conforme al modello di richiesta fornito dall’Agenzia delle Dogane;

– il richiedente è stato condannato per un reato grave connesso alla sua attività economica;

– il richiedente, nel momento in cui presenta la richiesta, è oggetto di una procedura fallimentare.

– le merci dichiarate nella richiesta siano quelle escluse ai sensi dell’art. 3, comma 2, della predetta Determinazione Direttoriale del 14 dicembre 2010 (armi, stupefacenti, oggetti d’antiquariato, esemplari di fauna e flora protetta, materiale radioattivo, ecc.). [12]


[1] Dal 1 Maggio 2016, la norma di riferimento sarà invece l’art. 33 e ss. del nuovo Regolamento n. 952/2013.

[2] Art. 5 Reg. Cee n. 2454/93, art. 12 Reg. Cee n. 2913/92.

[3] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli.

[4] Art. 6, comma 1, Reg. Cee n. 2454/93.

[5] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli

[6] A questo proposito si ricorda che per ogni prodotto ci possono essere due origini, questo dipende da quale delle due definizioni prendiamo come riferimento. La prima definizione di origine (non preferenziale) viene stabilita da ogni paese in base alle proprie esigenze interne; la seconda (preferenziale) è costituito dall’accordo tra due o più paesi. La certificazione di origine preferenziale compete alle Autorità doganali, quella dell’origine non preferenziale alle Camere di Commercio.

[7] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli

[8] Art. 6, comma2, Reg. Cee n. 2454/93.

[9] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli, e art. 6, comma 4, Reg. Cee n. 2454/93.

[10] Reg. Cee n. 2913/92.

[11] Art. 6 , comma 3, lettera B) del Reg. Cee n. 2454/93.

[12] Circ n. 8/D dell’8 maggio 2013 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli

Sempre più spesso le grandi multinazionali del Fashion, siano esse del settore lusso o meno, richiedono ai propri fornitori e subfornitori di allinearsi a determinati standard di responsabilità sociale.

La ragione di questa richiesta è evidente: una condotta non etica o contraria ai principi della Responsabilità sociale può costare caro in termini di danno all’immagine che l’azienda potrebbe subire.

Un rischio del genere deve necessariamente essere ridotto al minimo da tali imprese. Ecco che allora, diventano sempre più comuni i contratti da queste imposti ai propri fornitori che, prima ancora di imporre clausole giuridiche, sanciscono doveri di probità e buona condotta.

Ma tu, in qualità di fornitore o contoterzista, che produci o effettui una parte delle lavorazioni, per i grandi nomi della moda Italiana ed internazionale, come deve comportarti in concreto? Come puoi garantire al tuo cliente che rispetterai il suo Codice di buona condotta?

Il problema in questi casi è dato dal fatto che, molto spesso, non hai alcun potere contrattuale per chiedere l’eliminazione di clausole scomode. In altri termini, non puoi far eliminare quelle clausole che fanno ricadere su di te la responsabilità per il comportamento non conforme dei tuoi dipendenti, collaboratori, subfornitori, organi sociali ecc.

L’unica soluzione percorribile dunque, è quella di trovare un metodo in grado di assicurare la massima probità della condotta, non soltanto tua, ma di tutti i tuoi dipendenti e collaboratori. Solo in questo modo sarai in grado di mettere a riparo la tua azienda dal rischio che il tuo maggior cliente, non intrattenga più rapporti commerciali con te per violazione delle regole di condotta dallo stesso imposte o peggio, che ti richieda una qualche forma di risarcimento del danno all’immagine arrecato dalla condotta di un tuo dipendente infedele.

Questo tipo di risultato si può ottenere, senza un eccessivo dispendio di risorse, mediante l’adozione di un Codice etico. Il Codice etico è il documento che racchiude i principi generali e le norme di comportamento che danno attuazione alle politiche sociali d’impresa.

Non si tratta di una mera dichiarazione d’intenti, ma di una espressione dei principi di deontologia aziendale, che la tua impresa decide di riconoscere come propri e sui quali richiama all’osservanza tutti i dipendenti, collaboratori, contoterzisti, e altri soggetti terzi che con la stessa entrano in contatto.

 1. Come strutturare adeguatamente un Codice Etico?

Il Codice etico dovrà suddividersi in due parti:

  1. a) principi etici generali
  2. b) norme di comportamento.

I primi costituiscono dei principi ai quali la tua impresa dovrà richiamarsi nello svolgimento della propria attività (es. legalità, imparzialità, onestà, integrità, tutela dell’ambiente, tutela dei lavoratori etc); mentre le seconde costituiscono delle regole alle quali i destinatari del Codice dovranno attenersi (es. correttezza e trasparenza nei rapporti con gli stakeholders, riservatezza nel trattamento dei dati personali, tutela della proprietà intellettuale e del know how interno e concesso da terzi, corretta gestione ed utilizzo dei sistemi informatici ecc.).

2. Come garantire l’effettivo rispetto del Codice etico?

Come puoi facilmente intuire, un sistema di principi e norme non può essere efficacemente attuato senza la previsione di una sanzione per il caso di sua violazione.

Questa sanzione di regola presuppone l’esistenza di un sistema disciplinare e di un soggetto deputato all’applicazione della sanzione stessa.

Si apre dunque un problema, quale è il soggetto, interno all’azienda, a cui affidare l’arduo compito di sanzionare le condotte contrarie alle norme di condotta?

Secondo qualcuno questo ruolo dovrebbe spettare, in assenza di altri soggetti più adeguati, allo stesso Organo Dirigente (es. amministratore unico, Consiglio di Amministrazione).

Questa soluzione però non convince: come potrebbero essere gestiti gli illeciti commessi dall’Organo Dirigente stesso? In altri termini: chi controllerebbe il controllore?

In questo caso, il rischio sarebbe quello di lasciare impuniti, dal punto di vista aziendale, i responsabili di fatti contrari al Codice etico… vanificando il senso dello stesso.

3. Proposte concrete per un’efficace applicazione del Codice Etico

Per garantire in concreto il rispetto delle norme di condotta previste dal Codice Etico, possiamo suggerire due strade alternative:

  1. La prima, presuppone che l’azienda si doti o si sia già dotata di un Modello di Organizzazione e gestione ai sensi del D.Lgs. 231/2001 ed affidi il compito di vigilare e sanzionare l’eventuale violazione del Codice, all’Organismo di Vigilanza;
  2. La seconda impone invece di istituire un Comitato Etico, ovvero un organismo che si occupi di controllare l’effettivo rispetto del Codice e di segnalare eventuali comportamenti contrari ai principi e alle norme di comportamento ivi contenuti.

In questo secondo caso, la segnalazione dell’illecito dovrà essere comunicata all’Organo Dirigente, per le violazioni da parte dei dipendenti, collaboratori e/o società esterne. Nel caso in cui il comportamento da sanzionare sia stato posto in essere dall’Organo Dirigente, la segnalazione andrà effettuata all’assemblea dei soci, affinché prenda gli opportuni provvedimenti nei confronti degli amministratori “infedeli”.

Per quanto riguarda la composizione del Comitato Etico, potrai sceglierla liberamente, sulla base dell’organizzazione, della grandezza e della capillarità sul territorio della tua impresa. L’importante è che la formula che adotti sia la più idonea ad assicurare l’efficace attuazione di quanto previsto nel Codice. Ti consigliamo a questo proposito, che il Comitato Etico sia almeno in parte costituito da soggetti esterni all’impresa, in modo tale da garantire l’indipendenza del medesimo rispetto alla stessa.

Se desideri visionare:

– alcuni principi generali da inserire all’interno del Codice etico, clicca qui

– alcune norme di comportamento da inserire all’interno del Codice etico, clicca qui

Da un’indagine pubblicata da Nielsen, “Doing Well by Doing Good” [1] è emerso che:

– Il 67% degli intervistati preferirebbero lavorare per un’azienda socialmente responsabile

– Il 52% dei consumatori affermano di aver acquistato un prodotto o un servizio negli ultimi sei mesi da un’azienda socialmente responsabile.

Kering ha costituito un “Sustainability Committee”, ovvero un comitato per la sostenibilità, composto da una cinquantina di membri, che ha implementato policy e linee guida per il raggiungimento degli obiettivi prefissati in tema di sostenibilità (ambientale e etica).

LVMH ha adottato una policy sulla Responsabilità sociale d’impresa, basata su quattro pilastri fondamentali (well -being at work, talent e know-how, preventing discrimination, supporting local communities).

Burberry ha creato, Burberry Beyond, ovvero il programma del gruppo che include le attività intraprese in ambito sociale, culturale e ambientale.

Il comune denominatore di queste iniziative è la Responsabilità Sociale, driver sempre più importante per la creazione del valore dell’impresa.

Che cosa si intende per Responsabilità sociale d’impresa?

Per Corporate social responsability (CSR), si intende l’impresa che adotta, nella propria attività di produzione di beni o di fornitura di servizi, una politica di rispetto di tutte quelle categorie di soggetti che sono coinvolti, in modo diretto o indiretto, nell’impresa.

Queste categorie di soggetti sono i dipendenti, i cd. stakeholders, ovvero fornitori, sub-fornitori, organizzazioni sindacali, consumatore finale, e, in generale, tutti quei soggetti esterni all’impresa che ne influenzano l’attività o sono influenzati dalla medesima.

Si tratta quindi di imprese che scelgono di perseguire il profitto in modo socialmente etico.

Quali sono le azioni da porre in essere per diventare un’impresa socialmente responsabile?

Le azioni che le imprese possono attuare ai fini di una gestione socialmente responsabile sono molteplici, con un diverso grado di impatto nella stessa organizzazione aziendale.

Si può passare dal monitoraggio di alcuni aspetti organizzativi, alla redazione di linee guida o di policy, alla creazione di comitati che si occupano di sostenibilità, alla redazione di una vero e proprio bilancio di sostenibilità.

Ecco alcuni modi in cui può essere declinata la CSR sulla base delle categorie di soggetti che possono beneficiare di questa responsabilità sociale:

  1. Per quanto riguarda i lavoratori, la società deve prevedere una retribuzione congrua, degli orari di lavoro adeguati, delle condizioni di lavoro sicure e dignitose, non deve impiegare lavoratori privi di regolare contratto e deve evitare lo sfruttamento del lavoro minorile. Sempre in tema di lavoratori, un’impresa socialmente responsabile è quella che non discrimina in base al sesso, alla nazionalità, al credo religioso o politico, creando opportunità di crescita e di valorizzazione delle competenze.
  2. Circa la supply chain, il tema della responsabilità sociale si sostanzia in sistemi di approvvigionamento responsabile delle materie prime (ad es. approvvigionamento di pellame proveniente da allevamenti tracciati e gestiti responsabilmente), nella qualificazione dei fornitori e nel loro controllo secondo le politiche aziendali in tema di CSR nonché nella tracciabilità della stessa catena produttiva.
  3. Nei confronti dei consumatori e del territorio, l’impresa socialmente sostenibile si connota per la trasparenza nella comunicazione dell’impatto che la sua attività ha nel sociale e dei propri obiettivi in tema di sostenibilità.
  4. Infine, verso tutti gli stakeholders, l’impresa, per essere considerata socialmente responsabile, deve svolgere la propria attività in piena legalità. Si tratta pertanto di approntare l’attività d’impresa secondo sistemi che evitino la commissione di reati che possano essere percepiti con maggiore disvalore da parte della comunità, quali ad esempio i reati contro la Pubblica Amministrazione (es. corruzione, concussione), quelli posti a tutela della proprietà intellettuale (es. contraffazione) e quelli volti a tutelare la regolarità contributiva (es. reati tributari).

Qual è il punto di partenza per diventare un’impresa socialmente responsabile?

Il punto di partenza della CSR è in ogni caso il rispetto del dettato normativo. Ad esempio, in tema di salute e sicurezza dei lavoratori, sarà necessario che l’impresa adempia a quanto previsto, in Italia, dal c.d. Testo Unico sulla Sicurezza d.lgs. 81/2008.

Sempre di rispetto legislativo si tratta nel caso della creazione di un’organizzazione societaria improntata alla legalità, ad esempio al rispetto delle norme penali in tema di corruzione.

Se il fare impresa secondo legge è un obbligo, il fare impresa in modo socialmente responsabile impone che la legalità non rimanga un mero principio, ma venga attuata nella vita aziendale, mediante la predisposizione di policy e procedure da farsi rispettare all’interno e all’esterno dell’impresa.

Ma vi è di più. Se l’imprenditore esige che l’operato di tutti sia conforme ai dettami normativi, creerà un’organizzazione e una gestione tale da rendere difficile la mancata applicazione delle procedure implementate in azienda. Tutto questo altro non è che l’adozione di un Modello di organizzazione ai sensi del d.lgs. 231/2001 e del relativo codice etico.

CSR e standard volontarie

La CSR nei confronti dei lavoratori, si esplicita nei requisiti richiesti dallo standard SA 8000.

La CSR per la corretta gestione della supply chain si declina attraverso la definizione di criteri per la qualifica dei fornitori, di procedure di controllo dei medesimi rispetto agli obiettivi aziendali in tema di sostenibilità.

Altro punto di partenza per riflettere sulla responsabilità sociale è la ISO 26000. Lo standard definito a livello mondiale nel 2010, è una linea guida, non una norma. Ciò significa che non è certificabile da un ente di parte terza, come lo sono le ISO per la gestione della qualità o dell’ambiente.

Si tratta quindi di uno strumento per la diffusione della CSR che offre degli spunti di riflessione per le aziende che desiderano approcciare la responsabilità sociale d’impresa.

Ogni impresa infatti declinerà la CSR secondo la propria attività e le proprie esigenze.

Attraverso una corretta gestione delle relazioni sociali, i progetti che aumentano il valore degli affari (cd. business value) si fondono con i progetti che creano valore per il sociale (cd. social value), producendo un valore condiviso (cd. shared value) e generando un considerevole ritorno di immagine.

[1] Indagine pubblicata da Nielsen, “Doing Well by Doing Good”, giugno 2014, condotta tra il 17 febbraio e il 7 marzo 2014, intervistando oltre 30.000 persone in 60 Paesi, nelle regioni Asia-Pacifico, Europa, America Latina, Medio Oriente, Africa e Nord America.

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La funzione essenziale del marchio consiste nel garantire al consumatore o all’utilizzatore finale l’identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato dal marchio, dando quindi la possibilità di distinguere, senza confusione, il determinato prodotto o il servizio da quelli di provenienza diversa.

Il marchio diventa la garanzia che tutti i prodotti o servizi che ne sono contrassegnati sono stati fabbricati o forniti sotto il controllo di un’unica azienda alla quale può attribuirsi la responsabilità della loro qualità (cfr. CGCE, 12 novembre 2002 – C – 206/2001).

Oltre alla funzione principale che è quella di indicare l’origine imprenditoriale del prodotto, il marchio ha anche un valore pubblicitario per l’azienda stessa ed è in grado di portare il consumatore a pensare che tutti i prodotti recanti lo stesso marchio siano della medesima qualità di quelli precedentemente acquistati. Il marchio, inoltre, fornisce delle informazioni aggiuntive e in parte anche non direttamente collegate al prodotto stesso (es. l’adozione di procedure produttive a basso impatto ambientale, gestione eco-solidale, sistemi di qualità o di sicurezza, ecc.).

Proprio alla luce di tali (necessarie) funzioni, il Legislatore ha previsto che il marchio, per essere tale, debba soddisfare determinati requisiti. Il Codice della proprietà industriale (D.lgs. 30/2005) prevede, all’art. 7, che “Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese

I requisiti per la validità del marchio sono quindi: i) la capacità distintiva; ii) la novità e iii) la liceità.

La capacità distintiva

La capacità distintiva è l’idoneità del marchio a distinguere l’azienda e i suoi prodotti dalle aziende concorrenti.

Sono sicuramente privi della capacità distintiva, ai sensi dell’art. 13 CPI, i marchi esclusivamente costituiti dalle:

  1. denominazioni generiche di prodotti o servizi (ad es. “Gonna” per contraddistinguere una gonna, mentre è consentito il marchio “Scarpe&Scarpe” per l’accostamento delle due parole e la lettera grafica di congiunzione) o
  2. indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, quali i segni che, in commercio, individuano la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, la data di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio (ad es. “Jeans” per pantaloni);

La novità

Con riferimento alla novità, il Legislatore ha individuato le categorie e i casi in cui il marchio non è nuovo (art. 12 CPI), ovvero quando:

  1. consistano esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio (ad es. la locuzione “Ciao bella Italia” presente su capellini e magliette difetta del requisito della novità in quanto si tratta di espressioni comunemente utilizzate nel campo commerciale);
  2. è identico o simile ad un segno già noto come marchio o segno di un’altra azienda per altri prodotti affini o identici e si possa creare un rischio di confusione;
  3. è identico o simile ad un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attività economica, quando a causa della somiglianza possa determinarsi per il pubblico un rischio di confusione o di associazione;
  4. è identico o simile ad un marchio già registrato da altri nello Stato o con efficacia nello Stato (cfr. art. 12, comma 1, lett. c), d), e), (ad es., per l’abbigliamento, il marchio “Gucci” e quello “Guccini”);
  5. è identico o simile ad un marchio già notoriamente conosciuto ai sensi dell’articolo 6-bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, per prodotti o servizi anche non affini.

La liceità

Infine, l’ultimo requisito che il marchio deve avere per poter essere registrato è la liceità, ai sensi dell’art. 14 CPI. Non possono costituire oggetto di registrazione, in particolare:

  1. i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (ad es. è stato dichiarato contrario all’ordine pubblico, almeno in una parte dell’Unione, il marchio “URSS”);
  2. i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi (è, però, consentito se l’indicazione geografica è slegata con il luogo di origine del prodotto, ad es., abbigliamento “Australian”, penne “Montblanc”);
  3. i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi.

Il diritto esclusivo all’uso del marchio, e la conseguente possibilità di vietarne l’uso a terzi, è attribuito con la registrazione, anche se i diritti retroagiscono dalla data di deposito della domanda di registrazione.

La registrazione dura 10 anni a partire dalla data di deposito della domanda, salvo il caso di rinuncia del titolare. La registrazione può essere rinnovata per un numero indeterminato di volte, ogni volta per una durata di ulteriori 10 anni.

La certificazione OEA o, meglio, A.E.O. – Authorized Economic Operator, consente di avvalersi di vantaggi ed agevolazioni di natura diretta ed indiretta relativamente alle operazioni doganali poste in essere.

Si tratta, ad esempio, di facilitazioni per i controlli di sicurezza, riduzione della quantità di dati da fornire per la dichiarazione sommaria, minori controlli fisici e documentali, maggiore velocità nelle spedizioni e diminuzione dei problemi legati alla sicurezza.

La normativa di riferimento è contenuta nei Regolamenti (CE) n° 648/2005 e n° 1875/2006 che modificano, rispettivamente, il Codice Doganale Comunitario (Reg (CE) n° 2913/1992) e le Disposizioni di Applicazione del Codice (Reg. (CE) n° 2454/1993), in merito al rilascio agli operatori economici che ne faranno richiesta di un certificato AEO/semplificazioni doganali, o AEO/Sicurezza, o AEO/semplificazioni doganali e Sicurezza, tutti con valenza comunitaria.

Il programma di certificazione comunitaria si applica agli operatori economici ed ai loro partner commerciali che intervengono nella catena di approvvigionamento internazionale, ossia ai fabbricanti, agli esportatori, agli speditori/imprese di spedizione, ai depositari, agli agenti doganali, ai vettori, agli importatori che, nel corso delle loro attività commerciali, prendono parte ad attività disciplinate dalla regolamentazione doganale e si qualificano positivamente rispetto agli altri operatori, in quanto ritenuti affidabili e sicuri nella catena di approvvigionamento.

L’affidabilità comunitaria e lo status di AEO/doganale sono riconosciuti, a seguito di apposito accertamento dell’Autorità doganale nazionale, a chi comprova il rispetto degli obblighi doganali, il rispetto dei criteri previsti per il sistema contabile, la solvibilità finanziaria; per il riconoscimento dello status di AEO/sicurezza si deve dimostrare, oltre al possesso dei predetti requisiti, anche quello relativo alla rispondenza ad adeguate norme di sicurezza.

Per ottenere la certificazione A.E.O., pertanto, il richiedente deve dimostrare di disporre di misure idonee a garantire la sicurezza della catena internazionale di approvvigionamento anche per quanto riguarda l’integrità fisica e i controlli degli accessi, i processi logistici e le manipolazioni di specifici tipi di merci, il personale e l’individuazione dei partner commerciali.

L’operatore economico non è obbligato a divenire Operatore Economico Autorizzato: si tratta di una scelta individuale, che dipende dalle condizioni operative di ciascun soggetto.

Nello stesso senso, l’Operatore Economico Autorizzato non è tenuto ad esigere dai suoi partner commerciali che anche essi ottengano lo status di AEO. Infatti, ogni Operatore Economico Autorizzato è responsabile del proprio segmento nell’ambito della catena di approvvigionamento delle merci anche se, per garantire la sicurezza, si tiene conto delle misure applicate da tutti i partner commerciali dell’operatore interessato.

Succede, pertanto, che il soggetto richiedente la certificazione AEO inviti, a sua volta, i partners commerciali alla sottoscrizione di una dichiarazione che attesti il rispetto della normativa sulla sicurezza della catena logistica. Questo invito, il più delle volte, è una vera e propria richiesta al partner commerciale di diventare a sua volta Operatore Economico Autorizzato, al fine di semplificare e velocizzare le operazioni doganali anche in vista della completa applicazione del Codice doganale dell’Unione Europea che avverrà il 1° maggio 2016, e che favorisce tale tipologia di certificazione (Reg. CE n. 952/2013, artt. 38 – 41).