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La questione, oltre ad essere più attuale che mai, risulta anche molto dibattuta. Per tali ragioni, vogliamo con questo nostro contributo non solo analizzare tutte le tesi avanzate sul tema, ma anche fornirvi il nostro parere, indicandovi alcune indicazioni pratiche.

Sul punto, infatti, vi segnaliamo la presenza di due diverse tesi:

  • la prima, secondo cui il datore di lavoro può imporre il vaccino ai propri lavoratori e in caso di rifiuto licenziarli per giusta causa;
  • la seconda, per cui il datore di lavoro non può imporre il vaccino ai propri dipendenti e conseguentemente il licenziamento è illegittimo.

Posto che la tematica è tutt’altro che semplice, vi proponiamo di seguirci in un percorso di tre appuntamenti così strutturato:

1. oggi parleremo della prima tesi, ossia quella favorevole all’imposizione del vaccino e della conseguente legittimità del licenziamento;

2. giovedì tratteremo invece la seconda tesi, ossia quella contraria all’imposizione del vaccino e al licenziamento da parte del datore di lavoro;

3. Infine, vi forniremo le nostre considerazioni pratiche, mediate un video, pubblicato nei nostri canali social (Facebook, Linkedin, Youtube).

Pronti? Partiamo!

Quadro normativo di riferimento

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Prima di addentrarci su quali sono gli elementi a favore dell’una o dell’altra tesi, è necessario individuare il quadro normativo di riferimento. Nello specifico, le norme che vengono in rilevo sono:

Art. 32 Costituzione, comma 2: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”;

Art. 2087 c.c.: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;

Art. 279 Testo Unico in materia di sicurezza (D.Lgs. 81/08), comma 2: “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

Analizziamo, quindi, il primo filone di pensiero.

La prima tesi: sì al vaccino e sì al licenziamento

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Nello specifico, coloro che ritengono che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione e conseguentemente licenziare il lavoratore in caso di rifiuto, fondano la propria tesi sui seguenti argomenti:

  1. Il contratto di lavoro. Pur in assenza di una legge che rende obbligatoria la vaccinazione anti Covid-19, il datore di lavoro potrebbe comunque imporlo per effetto del contratto di lavoro. Infatti, sebbene l’art. 32 Cost. preveda una riserva di legge, secondo il Prof. Ichino Pietro[1], l’autonomia negoziale privata può comunque disporre dei diritti assoluti della persona. In tal senso il contratto di lavoro costituirebbe un esempio evidente della disponibilità di diritti personalissimi: con esso, infatti, il lavoratore accetta la limitazione alla propria libertà di movimento, la possibilità di indagini dell’imprenditore sulle proprie attitudini e i propri precedenti professionali, la possibilità di essere sottoposto a visita medica domiciliare dal servizio ispettivo competente, e così via. Pertanto, allo stesso modo, il lavoratore dovrebbe accettare la possibilità che, pur in assenza di una norma legislativa da cui derivi l’obbligo di una determinata vaccinazione, gli si chieda di vaccinarsi. Sotto tale aspetto ciò che accadrebbe in relazione al contratto di lavoro non sarebbe molto diverso da ciò che potrebbe accadere per esempio nel contratto di trasporto, nel quale il vettore – obbligato a garantire la massima sicurezza di tutti i viaggiatori – condizioni l’accesso all’aereo o alla carrozza ferroviaria all’esibizione di un certificato di vaccinazione.
  • L’art. 2087. Le indicazioni della scienza medica ritengono che in un luogo in cui tutti sono vaccinati si realizzano condizioni di sicurezza apprezzabilmente maggiori rispetto alla fabbrica o ufficio nel quale una parte dei dipendenti non è vaccinata. Pertanto, l’imprenditore ben potrebbe, in ottemperanza all’articolo 2087 c.c., a seguito di attenta valutazione del rischio specifico nella propria azienda, richiedere a tutti i propri dipendenti la vaccinazione, dove questa sia per essi concretamente possibile. La richiesta di effettuare la vaccinazione potrebbe essere esclusa soltanto laddove si ponesse in contrasto con norme di ordine pubblico, o fosse comunque funzionale a interessi non meritevoli di tutela nell’ordinamento. Secondo i sostenitori di tali tesi l’art. 2087 c.c. costituirebbe una “norma aperta”, dunque, l’obbligo di sicurezza si arricchirebbe di contenuti concreti, via via che la scienza e la tecnica mettono a disposizione nuove misure efficaci.
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  • L’art. 279 TU. Possibile opposizione di impedimenti di natura medico-sanitaria. Viene, inoltre, sottolineato dal Prof. Ichino Pietro, che l’ammissibilità della richiesta da parte del datore di lavoro della vaccinazione non comporta che la persona interessata non possa ragionevolmente opporre un impedimento di natura medico-sanitaria. Potrebbe essere addotta, per esempio, una condizione personale di immunodeficienza (per i tipi di vaccino tradizionali), o altra patologia che sconsigli la vaccinazione, oppure lo stato di gravidanza (in relazione al quale permane una controindicazione prudenziale da parte delle autorità competenti). In questo caso il datore di lavoro dovrebbe adottare, in accordo con il medico competente e con gli altri organi preposti alla sicurezza sul lavoro, misure appropriate per consentire comunque lo svolgimento della prestazione nella condizione della massima possibile sicurezza: per esempio collocando la persona interessata in una postazione isolata e non a contatto con utenti o fornitori, e ciò anche eventualmente riducendo il contenuto professionale delle mansioni. Oppure, dove la natura della prestazione lo consenta, autorizzando la persona interessata a svolgerla dal luogo di abitazione fino alla fine della pandemia. Dove nessuna di queste soluzioni sia ragionevolmente praticabile, può rendersi necessaria la sospensione della prestazione a norma dell’art. 2110 c.c., oppure se possibile, con attivazione dell’integrazione salariale, fino alla fine della pandemia.
  • Sebbene l’art. 279 TU sia riferito al rischio di infezione derivante da un “agente biologicpresente nella lavorazione”, è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio di infezione derivante da un virus altamente contagioso, del quale può essere portatrice una qualsiasi delle diverse persone contemporaneamente presenti nello spazio aziendale chiuso nel quale l’attività lavorativa è destinata a svolgersi. A questa applicazione estensiva dell’art. 279 del Testo Unico si obietta che le norme protettive in materia di sicurezza e igiene del lavoro “sono pensate per prevenire i rischi derivanti dal luogo di lavoro” e non i rischi provenienti dall’esterno. Ma, secondo la tesi qui analizzata, per superare questa obiezione è sufficiente considerare che l’imprenditore, nell’esercizio del suo potere organizzativo, è tenuto a valutare e prevenire anche rischi provenienti da agenti esterni all’azienda, come per esempio gli agenti atmosferici cui i dipendenti possono essere esposti nello svolgimento della prestazione. Inoltre, il rischio dell’infezione da Covid-19, a differenza degli altri rischi di contrarre malattie infettive, è stato qualificato dalla legge come rischio di infortunio sul lavoro, proprio in considerazione dell’elevatissima contagiosità e diffusione del virus. Dunque, la vaccinazione dovrebbe essere imposta.

Conclusioni della prima tesi: retinenza = licenziamento nei casi più gravi

Mano, Uomo, Figura, Flick, Flick Fuori

Alla luce di tutte le argomentazioni sopra esposte, chi ritiene che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione sostiene che la renitenza ingiustificata del dipendente è in astratto suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza, che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare.

Tuttavia, lo stesso Prof. Ichino Pietro, principale sostenitore della tesi qui analizzata, ritiene che sia sconsigliabile applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, in quanto potrebbe essere contestata la sussistenza dell’elemento psicologico, così come sconsiglia l’applicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poiché ad oggi la questione, anche a livello politico, è molto dibattuta e, in ogni caso, sino a fine marzo 2021 non è possibile il licenziamento. 

Egli, in un’ottica moderata, suggerisce che se la natura della prestazione non consente lo svolgimento da remoto, e non è disponibile una posizione di lavoro – anche di contenuto professionale inferiore – che consenta l’isolamento rispetto agli altri dipendenti, fornitori e utenti, al lavoratore potrà prospettarsi la sospensione dal lavoro fino a che la pandemia non sia cessata: sospensione che in questo caso, a differenza del caso di rifiuto giustificato da impedimento di natura medica, non comporta il diritto al trattamento economico.

Qual è il vostro pensiero in proposito? Scrivetelo nei commenti qui sotto o nei nostri social.

In attesa di leggere la vostra opinione, vi invitiamo all’appuntamento di Giovedì prossimo, con la presentazione della tesi contraria all’imposizione della vaccinazione da parte del datore di lavoro.


[1] Professore di Diritto del Lavoro presso l’Università Statale di Milano, giurista e sindacalista dedica da decenni il suo impegno di studioso e di uomo politico alle problematiche legate al mondo del lavoro e ai diritti dei lavoratori.

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha coinvolto le imprese anche dal punto di vista del loro assetto organizzativo. In particolare, le imprese che hanno deciso di dotarsi di Modelli Organizzativi, ai sensi del d.lgs. 231/2001, hanno dovuto valutare la tenuta dei loro Modelli e il ruolo dell’Organismo di Vigilanza.

Sul tema, Confindustria ha emanato, nel presente mese, delle linee operative che aiutano le imprese dotate di un Modello 231, ad affrontare l’emergenza.

Il profilo di rischio indiretto

La situazione che le imprese hanno vissuto e stanno vivendo può comportare un aumento del rischio di commissione di alcuni dei reati presupposto. Invero, basti pensare alla famiglia dei reati corruttivi (reati contro la PA, corruzione tra privati), reati che possono più facilmente essere commessi in un periodo di crisi finanziaria (ad esempio, per la partecipazione a procedure di gara semplificate, piuttosto che per accedere ad ammortizzatori sociali o per continuare l’attività produttiva nel periodo del lock down).

Non solo di corruzione si occupa il d.lgs. 231/2001.

Difatti, l’impresa potrebbe incorrere nella commissione di ulteriori reati (es. ricettazione, riciclaggio, impiego di cittadini di Paesi terzi con permesso irregolare) anche attraverso i propri dipendenti in smart working. Non dimentichiamo invero che nell’alveo del catalogo 231, sono annoverati anche i reati informatici e le violazioni del diritto d’autore. Basti pensare all’utilizzo promiscuo dei dispositivi personali anche per finalità lavorative e al rischio che possano essere, ad esempio, utilizzati software non originali.

Risulta pertanto necessario procedere alla modifica del Modello 231?

Come correttamente indicato da Confindustria, i rischi sopra richiamati sono rischi indiretti e trasversali alle varie tipologie aziendali. Tali rischi invero avrebbero dovuto già essere valutati e mappati all’interno del Modello 231 e l’impresa avrebbe dovuto dotarsi di procedure idonee a ridurre al minimo, se non ad eliminare, il rischio di commissione di reato. Qualora l’azienda non abbia adempiuto in tal senso, si presenta in ogni caso l’occasione per procedere ad una nuova analisi e valutazione del rischio a cui seguirà poi l’adozione di procedure specifiche.

Per le imprese invero che hanno già adottato siffatte procedure, probabilmente si renderà necessario procedere ad un loro rafforzamento.

Rischi diretti

I rischi invece che direttamente impattano sull’impresa sono quelli connessi al rischio di contagio da Covid-19, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Ad ogni modo, il rischio di commissione dei reati di omicidio colposo e lesioni personali gravi e gravissime, commessi in violazione delle norme antinfortunistiche, erano già parte del catalogo 231, prima dell’emergenza epidemiologica. Ne deriva che, il rischio di contagio da Covid-19, diventa un ulteriore rischio specifico che non impatta però sui presidi di carattere generale. In altri termini il Covid-19 non impone l’adozione di un sistema gestionale ad hoc per tale rischio.

Diversamente, nell’ipotesi in cui l’impresa abbia deciso di integrare le procedure sicurezza all’interno del Modello 231, si dovrà invece valutare se procedere alla loro revisione oppure alla creazione di un addendum specifico.

In ogni caso, onere del datore di lavoro è quello di predisporre le misure idonee a tutelare i lavoratori da tale rischio.

Data l’assoluta novità di tale virus, il datore di lavoro dovrà attenersi alle misure di contenimento che sono state individuate, e che verranno via via individuate in futuro, dalle Autorità Pubbliche (sul tema si veda il nostro contributo video).

Organismo di Vigilanza

L’Organismo di Vigilanza, in tale contesto, deve procedere a rafforzare il proprio controllo sulla corretta ed efficace implementazione del Modello 231 esistente, nonché sulle misure adottate dal datore di lavoro nel rispetto di quanto indicato dalle Autorità Pubbliche. L’OdV dovrà mantenere un costante confronto con i vertici aziendali e con il comitato per l’applicazione e la verifica dei presidi indicati dalle Autorità Pubbliche per evitare il contagio da Covid-19.

Il monitoraggio della situazione aziendale viene garantito dai flussi informativi tra i responsabili di funzione e l’OdV, che si ritiene debbano essere potenziati in tale periodo. Invero, l’OdV dovrà essere tenuto in costante aggiornamento circa le misure adottate in azienda, circa gli strumenti, anche di natura finanziaria, messi in campo per arginare l’eventuale crisi economica (es. ammortizzatori sociali, finanziamenti a fondo perduto etc).

L’OdV conserva in ogni caso il proprio ruolo propulsivo nell’ipotesi di inerzia dell’impresa, ovvero nel caso in cui, ad esempio, l’impresa non proceda ad adottare le misure poste a presidio del contagio.

Nell’emergenza epidemiologica il Modello 231 e tutta la compliance aziendale rappresenta un valido presidio per la gestione del rischio di commissione dei reati del d.lgs. 231/2001.

Vi invitiamo a contattare lo Studio per ogni ulteriore approfondimento.

Le nuove tecnologie possano certamente aiutare nella lotta al diffondersi della pandemia da Covid-19. Non a caso, prima in oriente e poi in occidente, si è iniziato a parlare delle app di tracciamento, di cui abbiamo già discusso qui. In Italia, la bagarre sulla questione infuria ormai da mesi. Tutti abbiamo letto e sentito parlare della fantomatica Immuni: l’app che dovrebbe rivoluzionare la Fase due del nostro paese (anche se con un certo ritardo). Ormai è questione di giorni e tutti potremmo scaricare sui nostri cellulari l’applicazione. Più di qualcuno, infatti, avrà ricevuto sul proprio smartphone questo messaggio di Google, che pare voler dettare le regole del gioco mentre il governo italiano ancora latita.

Ma come dovrebbe funzionare Immuni?

Per chi ancora non sapesse con certezza di che cosa si tratta, Immuni è un’applicazione per smartphone in grado di registrare i contatti interpersonali, attraverso lo sfruttamento dei Bluetooth.

Sul suo funzionamento tanti rumors, ma poche certezze. In ogni caso, non appena disponibile, l’app potrà essere scaricata, su base volontaria e gratuitamente, dal play store Android e dall’Apple store. Immuni dovrebbe essere composta di due parti: una dedicata al contact tracing vero e proprio (via Bluetooth) e l’altra destinata ad ospitare una sorta di “diario clinico”, in cui l’utente potrà annotare i dati relativi alle proprie condizioni di salute, come la presenza di sintomi compatibili con il virus.

Il tracciamento avverrà in questo modo: i cellulari dotati dell’app conserveranno nella loro memoria i dati di altri cellulari con cui siano entrati in contatto (in forma di codici crittografati). Qualora uno dei soggetti che ha scaricato l’app risulti positivo al virus, gli operatori sanitari gli forniranno un codice di autorizzazione, con il quale questi potrà scaricare su un server ministeriale il proprio codice crittografato. I cellulari, automaticamente, scaricheranno dal server i codici dei contagiati. Qualora l’app dovesse riconoscere, tra i codici in memoria, il codice di un contagiato, invierà un segnale di allerta all’utente, proprietario del cellulare.

Ma…perché se parla tanto? Innanzitutto, perché vi sono tantissimi dubbi sul funzionamento di Immuni.

Notifica del possibile contagio. Per esempio, immaginiamoci che Immuni avverta con una notifica l’utente che è stato, nelle scorse due settimane, a contatto con un soggetto positivo al Covid; l’utente cosa deve fare? Si chiude dentro casa? Se per ipotesi lavora e il suo datore di lavoro non gli riconosce lo smart working, deve comunque notificargli che è entrato in contatto con un Covid positivo? A chi telefona, alla Asl o al medico di famiglia? Non si sa.

Numero di tamponi. Tutte le volte che un utente scopre di essere positivo al virus, affinché l’applicazione sia utile al contenimento dell’epidemia, è necessario sottoporre tutti i suoi contatti al tampone. Quanti sono? In media 200. Calcolando, ottimisticamente, 2.000 nuovi casi al giorno, moltiplicandoli, poi, per 200 contatti, ne risultano 400 mila tamponi al giorno. Il nostro sistema sanitario è pronto? Ai posteri l’ardua sentenza, ma per darvi un’idea, finora sono stati effettuati circa 1 milione di tamponi al mese.

Bluetooth. La tecnologia dei Bluetooth è molto più imprecisa dei GPS, che tuttavia non possono essere utilizzati per questioni connesse alla privacy. Ne consegue che il rischio di falsi positivi è davvero molto alto. L’app, pertanto, potrebbe riportare il Paese nella situazione di panico iniziale, che si vuole in tutti i modi scongiurare.

Anziani. Quanti voi conosco ultrasessantenni che normalmente utilizzano uno smartphone? È chiaro che la fascia di popolazione più a rischio non utilizzerà mai Immuni, posto che spesso non dispone di uno smartphone, o comunque è pratica nell’utilizzare tale genere di dispositivo.

Sostenibilità. L’app è gratuita, ma per utilizzarla è necessario possedere un cellulare di ultima generazione. Chi non può permetterselo è pertanto escluso dalle cautele anti-Covid?!

Utilità. Tanto si è detto a proposito dell’effettiva utilità di Immuni. Evitando qualsivoglia genere di polemica, si riporta un dato oggettivo. L’app potrà effettivamente contribuire alla lotta contro il Coronavirus, unicamente se sarà utilizzata almeno dal 60% della popolazione, ovverosia da più di 30 milioni di italiani. Un’applicazione di così tanto successo non si è mai vista. Basti, tra l’altro, pensare che solo il 70% degli italiani dispone di uno smartphone.

Se decido di utilizzarla corro dei rischi per quanto concerne la privacy?

Come tutte le nuove tecnologie che trattano dati personali, anche Immuni non va esente da rischi di sorta; anzi, trattando dati sanitari, il rischio per l’utente pare finanche maggiore. Vero è che il Governo italiano pare (non v’è certezza, purtroppo) aver deciso di strutturare l’applicazione con un sistema decentralizzato, che potrebbe nel concreto assicurare un maggior grado di protezione contro eventuali data breach. Tuttavia, non si può fare a meno di sottolineare come tale rischio persista, posto che Immuni è comunque connessa ad un server centrale, che potrebbe essere hackerato. Senza contare che i dati di tracciamento vengono salvati in locale nei cellulari, i quali possono, forse anche più facilmente, finire nelle mani di malintenzionati, che non si esclude siano capaci di “bucare” le misure protettive di Immuni.

E se non la utilizzo?

Il Governo, a fronte delle raccomandazioni del Garante Privacy e delle Linee Guida n. 4/2020 del Comitato Europeo per la protezione dei dati, ha rassicurato i cittadini, sottolineando come l’uso dell’app sarà strettamente volontario e non condizionerà in nessuno modo l’accesso ai diritti garantiti dalle leggi vigenti. D’altronde sarebbe evidentemente anticostituzionale imporre delle restrizioni a tutti coloro che non scaricano o usano Immuni. In altri termini, sarebbe contrario al principio fondamentale di uguaglianza (art. 3 Costituzione) e al dovere di solidarietà (art.2 Costituzione) limitare l’accesso ai test diagnostici o addirittura alle cure, attuando soluzioni del tipo “se non usi la App passi in coda rispetto a quelli che la usano”, oppure imporre restrizioni alla mobilità dei cittadini, costringendo a non uscire di casa coloro che non utilizzano Immuni, ovvero limitare il loro diritto al lavoro.

Nessuna conseguenza negativa, insomma, se si decide di non utilizzare Immuni.

Fattore fiducia.

È evidente che il successo di questa impresa tecnologica dipende strettamente dal grado di fiducia che i cittadini rivestono nelle Istituzioni che hanno sviluppato il progetto di Immuni.

Quest’ultime paiono impegnarsi, ma non abbastanza, a fronte una così sentita necessità. Un esempio? Lo scorso 11 maggio, il Ministro dell’Innovazione (Paola Pisano) rispondeva alle domande inoltratele dall’associazione ANORC, in ordine all’app Immuni. Tuttavia, la Pisano sorvolava sulla maggior parte dei nodi critici messi in evidenza dalle domande di ANORC.

In assenza di trasparenza da parte delle istituzioni governative, è davvero difficile immaginare che Immuni possa davvero avere successo nel contesto italiano.

Le nuove tecnologie possono svolgere un ruolo importante nel contrasto del diffondersi della pandemia da Covid-19. Non si tratta di ipotesi, ma di realtà che sono già state implementate in altri Paesi, che – al pari del nostro – hanno affrontato e stanno affrontando la situazione emergenziale che ben conosciamo. Tra le prime ad attivarsi in questo senso vi è senza dubbio la Cina, che, in tempi record, verso la metà di marzo, ha implementato un sistema di data tracing, denominato “codice salute”, integrato, fra l’altro, all’interno delle app più usate dalla popolazione cinese, ovverosia Alipay e Wechat.
L’esempio cinese non poteva non affascinare l’occidente. Ed in breve, anche in Francia, Germania ed Italia si è cominciato a parlare di app di data tracing

Ma che cos’è questa nuova tecnologia?

In estrema sintesi, si tratta di un’app in grado di registrare tutti i nostri contatti interpersonali, attraverso lo sfruttamento dei Bluetooth. Qualora uno dei soggetti con cui siamo è entrati in contatto risulti positivo al Covid-19, l’app genera una notifica, avvertendo noi, e tutti gli altri contatti a rischio, dell’accaduto.

Ci sono rischi per la privacy?

Come tutte le nuove tecnologie che trattano dati personali, anche le app di tracciamento dei contatti non vanno esenti da rischi di sorta; anzi, trattando dati sanitari, il rischio per l’utente pare finanche maggiore. Per questo, il 21 aprile scorso, il Comitato Europeo per la protezione dei dati (EPDB) ha emanato le linee guida n. 4/2020, al fine di scongiurare qualsivoglia forma di abuso. Tali Linee Guida riprendono i principi cardine del GDPR che abbiamo già imparato a conoscere: liceità, limitazione delle finalità e del tempo di conservazione, minimizzazione, esattezza, integrità e riservatezza. In particolare, il Comitato mette in luce come il monitoraggio su larga scala dei contatti sia una grave intrusione della privacy, che può essere legittimata solo a fronte dello svolgimento di un compito di interesse pubblico e della volontarietà dell’utilizzo della tecnologia implementata. Per questo, in ossequio al principio di minimizzazione, i dati trattati devono essere quelli strettamente indispensabili per le finalità stabilite. Il Comitato precisa, inoltre, che tali finalità dovrebbero essere, preferibilmente, regolamentate per il tramite di apposito intervento legislativo, atto a fornire idonea base giuridica per il monitoraggio. In ogni caso, il fatto che la base giuridica sia costituita dalla legge non vuol dire che la tecnologia in questione possa essere imposta ai cittadini. Il Comitato precisa, infatti, che l’uso della medesima deve essere strettamente volontario, e non deve condizionare in nessuno modo l’accesso ai diritti garantiti dalle leggi vigenti. Infine, viene sottolineato come sia essenziale la redazione di apposita DPIA, cioè una valutazione di impatto del trattamento, che analizzi nel dettaglio i possibili rischi e le conseguenze connesse al medesimo.

Cosa sta accadendo in Europa?

Innanzitutto, va premesso, che in Europa lo sviluppo e l’implementazione delle app di data tracing è stato accompagnato, fin dal principio, da una farraginosa bagarre, per la definizione delle misure tecniche più adeguate non solo per l’efficientamento delle app, ma anche per la protezione dei dati personali. In particolare, i tecnici si sono divisi tra sostenitori di un sistema di salvataggio dei dati personali centralizzato e i sostenitori di un sistema invece decentralizzato.

Le differenze fra i due? Posto che le app di tracciamento funzionano creando un elenco completo di utenti con cui si è interagito per più di qualche minuto, il cui identificativo non è il nome e/o il cognome, ma un codice criptato, la differenza essenziale risiede nelle modalità con cui tale codice viene realizzato. Nel sistema decentralizzato, il medesimo viene generato direttamente sui dispositivi mobili dell’utente, nel sistema centralizzato, è invece un server, per l’appunto centrale, ad eseguire tale operazione. Il sistema più sicuro? Difficile a dirsi, entrambi possono di fatto prestare il fianco ad abusi e attacchi hacker.

Le nostre eterne rivali (Francia e Germania) cosa stanno facendo?

Francia. L’app di tracciamento dei contatti francese, denominata StopCOVID, è ai blocchi di partenza. Il Ministro Cédric O, responsabile per il digitale, ha infatti reso noto come il lancio dovrebbe avvenire il prossimo 2 giugno. Il dibattito tra sostenitori del sistema centralizzato e sostenitori del decentralizzato – che, il 26 aprile scorso, avevano addirittura presentato formale petizione contro il primo sistema – ha visto prevalere i sostenitori del centralizzato. Tuttavia, non sono del tutto sopite le critiche, posto che l’applicazione – al pari di Immuni – sarà efficace unicamente qualora almeno la metà della popolazione (il 60%) la scarichi e la installi, contribuendo così a rendere capillare il suo raggio d’azione in tutto il territorio.

Germania. La Germania, come la Francia, inizialmente, pareva aver abbracciato la soluzione centralizzata, promuovendo lo sviluppo del c.d. Protocollo Robert (ROBust and privacy-presERving proximity Tracing protocol) e l’implementazione della dell’app, denominata Datenspenden. Tuttavia, il 25 aprile scorso, il governo federale ha dovuto cedere alla pressione degli attivisti, preoccupati per la gestione dei dati personali, e prediligere la soluzione della decentralizzazione, al fine di scongiurare il timore di abusi da parte delle autorità. Va, tuttavia, sottolineato che, a fronte della diffidenza della popolazione tedesca e della ancora scarsa digitalizzazione del paese, l’app tedesca difficilmente verrà mai alla luce. In attesa, i cittadini tedeschi possono comunque utilizzare la Datenspenden, che, previo loro consenso, è in grado di raccogliere tutti i dati custoditi da app di fitness, come Fitbit, Garmin e Polar, compresi gli smartwatch, utilizzandoli, in forma anonima, per analizzare statisticamente la diffusione del virus.

Cosa sta accadendo in Italia?

I rumors su Immuni sono molti ed i dubbi ancora di più. Di questo però vi parleremo nella prossima puntata. Nel frattempo, per qualsivoglia dubbio o perplessità, potete visitare il sito e farci pervenire le vostre domande.