Type a keyword and hit enter to start searching. Press Esc to cancel.

Categoria: Contrattualistica

Hai mai sentito parlare di whistleblowing? Sapevi che riguarda un tema importante all’interno dell’organizzazione aziendale e si rischia di incorrere in sanzioni amministrative se non si è in regola?

Whistleblowing è un termine di origine anglosassone che evoca il fischiare, un atto che figurativamente significa “attirare l’attenzione”, quindi “segnalare”. Infatti, con il termine whistleblowing oggi si fa riferimento a quella disciplina che tutela chi segnala violazioni del diritto dell’Unione europea e delle disposizioni normative nazionali, oltre a prevedere che talune imprese mettano in atto una procedura che permetta di poter effettuare tali segnalazioni in sicurezza. Questa definizione è però estremamente riduttiva: vediamo assieme cos’è effettivamente previsto dalla normativa di riferimento.

Novità normative: chi riguardano?

La disciplina è oggi regolamentata dal D.Lgs. 24/2023, che ha recepito la direttiva europea 2019/1937 e ha superato la vecchia Legge 179/2017, che aveva introdotto la disciplina del whistleblowing in Italia.

La prima cosa che ti chiederai sarà: ma io devo fare qualcosa o sono esentato?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo prendere in considerazione l’art. 3 del D.Lgs. 24/2023, che disciplina l’ambito applicativo soggettivo: il Decreto Legislativo si applica sia a soggetti del settore pubblico sia a soggetti del settore privato, a fronte di determinati presupposti.

Numerosi sono gli adempimenti che il legislatore, europeo e italiano, ha imposto ai “venditori elettronici”. Tra questi, rileva il fatto che il soggetto che intende vendere i propri beni e servizi on-line ha un dovere di informazione, che si concretizza nella necessità di fornire all’utente determinate informazioni, sia a carattere generale sia a carattere specifico a seconda del bene o servizio offerto.

Nel presente articolo vorremmo provare a definire l’esatto contenuto di alcuni degli obblighi informativi presenti, seguendo le indicazioni fornite dai giudici nazionali ed europei.

Contratti a distanza e pratiche commerciali scorrette

A tale riguardo, la disciplina del Codice del consumo (d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206) e in particolare l’art. 49 integrano quanto previsto dal d.lgs. 70/2003 relativo al commercio elettronico. Il Codice del consumo prevede altresì che, nel caso di contratti conclusi attraverso un mezzo di comunicazione a distanza che consente uno spazio o un tempo limitato per visualizzare le informazioni, il professionista è tenuto a dare solo parte delle “informazioni obbligatorie”, ai sensi dell’art. 51, co. 4 Cod. cons.

Si rileva altresì che, nelle ipotesi di mancato corretto adempimento agli obblighi informativi posti a tutela dei consumatori, si possono talvolta configurare anche pratiche commerciali “scorrette” oppure configuranti atti di pubblicità ingannevole (ai sensi del d. lgs. 145/2007). Le pratiche commerciali scorrette, in particolare, sono disciplinate dagli artt. 18-27 quater Cod. cons. Tale disciplina amplia la tutela del consumatore perché egli risulta protetto da qualsiasi pratica commerciale che possa recargli danno, indipendentemente dal momento in cui questa è posta in essere. Le pratiche commerciali scorrette si distinguono in aggressive ed ingannevoli. Si ha una pratica ingannevole quando vengono riportate informazioni non rispondenti al vero o che, seppure di fatto corrette, per la loro presentazione complessiva, siano tali da indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più elementi e, in ogni caso, da indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (art. 21, co. 1 Cod. cons.).

Indicazione del costo complessivo del prodotto o servizio

In primo luogo, con riferimento all’obbligo di indicare il costo del prodotto o del servizio comprensivo di tutte le voci (imposte, costi di spedizione, costi per la restituzione per recesso) (art. 49, co. 1, lett. e) Cod. cons.) nonché le modalità di calcolo del prezzo definitivo, si segnala che la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. VI, 2 settembre 2019, n. 6033) ha condannato la società titolare di un sito di vendita online per il settore turistico in cui era emersa una notevole divergenza tra l’offerta pubblicizzata sulla homepage ed il prezzo finale.

Il diritto di recesso, anche detto diritto al “ripensamento”, consiste nel diritto del consumatore di poter sciogliere, unilateralmente, il contratto stipulato con il professionista e di avere diritto alla restituzione del prezzo già corrisposto.

Tale diritto, il quale va esercitato entro un termine previsto per legge, nasce dall’esigenza di tutelare il consumatore, quale soggetto debole e vulnerabile rispetto al professionista venditore, durante gli acquisti di beni e servizi effettuati a distanza o fuori dai locali commerciali.

Il diritto di recesso ha acquisito una centralità nella società dell’informazione a seguito della trasformazione dell’utente in consumatore digitale.

Il “consumatore digitale”

Il legislatore europeo ha mostrato da sempre una spiccata sensibilità al tema della tutela del consumatore non soltanto quale parte “debole” del rapporto contrattuale, ma anche quale protagonista di un mercato in continua evoluzione e sempre più complesso.

Trasparenza e informazione (inclusa quella al diritto al recesso) hanno costituito, sin dalle prime delibere comunitarie, gli strumenti con cui è stata attuata a livello comunitario la tutela del consumatore, e oggi lo sono sempre di più dal momento che quest’ultimo si è trasformato in consumatore digitale.

Con l’intento di rafforzare la tutela del consumatore, agevolandone la consapevolezza dei propri diritti in fase di acquisto “on-line”, e con l’intento di armonizzazione dei sistemi nazionali il legislatore europeo, è intervenuto sulla normativa consumeristica con la direttiva 83/2011 EU.

macchine interconnesse

Il termine Industria 4.0 è entrato nel linguaggio comune, complici gli ingenti fondi stanziati dal Piano Nazionale Industria 4.0 e dal PNRR in ottica di Transizione 4.0. Ma cosa si intende per Industria 4.0? E soprattutto, a fronte dei gradi benefici in termini di produttività e competitività, quali sono le principali criticità legali da affrontare prima di innovare il proprio modello produttivo?

Il concetto di Industria 4.0

Per Industria 4.0 si è soliti fare riferimento ad un nuovo paradigma nella produzione e gestione aziendale che si caratterizza per la trasformazione digitale del processo produttivo in tutte le sue fasi. L’automazione dei processi e l’utilizzo di macchinari connessi ad Internet consentono di monitorare in tempo reale la produzione, di efficientarne la gestione e, in ultima istanza, di incidere sulla produttività e sulla competitività. La digitalizzazione in azienda si basa sull’introduzione di tecnologie innovative, come il ricorso a nuovi materiali, alla robotica, alla meccatronica, a tecnologie ICT, ai Big Data e alla Data Analytics, a dispositivi interconnessi (IoT) e sensori intelligenti.

Le risorse stanziate per la Transizione 4.0

Si assiste in questi anni ad una vera e propria corsa agli investimenti in tale settore, tanto in Italia, quanto nel contesto internazionale, con importanti ripercussioni sul piano della competitività delle imprese su scala globale. In questa logica si comprende la mole degli incentivi con i quali si intende garantire innovazione e competitività alle imprese italiane, specie nel settore manifatturiero. Basti ricordare come il PNRR, in linea con la politica intrapresa dal MISE con l’adozione del Piano Nazionale Industria 4.0, ha previsto lo stanziamento di ben 13 miliardi di euro con l’obbiettivo di promuovere la trasformazione digitale nei processi produttivi delle imprese italiane.

La pandemia e la globalizzazione tecnologica hanno contribuito ad una vera e propria esplosione del commercio elettronico. Si calcola che soltanto nei primi mesi del 2021 le vendite on line in Italia siano aumentate di oltre il 50%, con una previsione di crescita per l’intero anno di oltre il 70%.

Non c’è alcun dubbio che i vantaggi del commercio elettronico siano innumerevoli e che lo stesso, soprattutto negli ultimi due anni, ha rappresentato per molti, sia imprese offerenti sia consumatori, l’unico modo per vendere e acquistare beni e servizi.

I vantaggi dell’e-commerce

Per il venditore, i vantaggi dell’e-commerce si traducono in: i) riduzione dei costi della rete distributiva, ii) riduzione dei tempi di vendita, iii) bacino di clienti potenzialmente illimitato.

Per il destinatario del servizio invece, l’e-commerce si traduce in: i) possibilità di acquistare in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo prodotti e servizi offerti da aziende di qualsiasi parte del mondo, ii) possibilità di risparmiare sui costi e tempi di acquisto, iii) acquisire facilmente informazioni su prodotti e fornitori, iv) comparare in maniera veloce le condizioni di vendita applicate dai diversi venditori.

Numerosi sono però gli adempimenti che il legislatore, europeo e italiano, ha imposto ai “venditori elettronici”.

In particolare, il soggetto che intende vendere i propri beni e servizi on-line ha un vero e proprio dovere di informazione, dovendo fornire all’utente una serie di informazioni sia a carattere generale sia a carattere specifico per la tutela dell’utente stesso.

Obblighi informativi generali

Il dovere di informazione del venditore si esplicita nella previsione di diversi obblighi informativi, che derivano da diverse norme, ognuna mirante a tutelare determinati interessi e/o categorie di “acquirenti”.

Un primo gruppo di obblighi riguarda quelli a carattere generale.

Infatti, ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs. 70/2003, deve essere possibile per l’utente e per le autorità competenti conoscere in maniera semplice alcuni dati che permettono di identificare l’attività svolta e il soggetto che la offre. Si tratta quindi di indicare nome, denominazione o ragione sociale della società venditrice, numero di iscrizione al REA e partita Iva, i contatti di cui l’utente può servirsi in caso di necessità, prezzi e tariffe dei prodotti o dei servizi resi, e simili.

Nel caso di svolgimento di particolari attività, inoltre il D. Lgs. 70/2003 impone al prestatore ulteriori obblighi informativi. Ad esempio, nel caso dell’esercizio di professioni regolamentate, dovrà essere indicato l’ordine professionale di appartenenza, il titolo professionale e lo Stato membro in cui è stato rilasciato, oltre ad un riferimento alle norme professionali applicabili e agli eventuali codici di condotta vigenti; nel caso di attività soggette a concessione, licenza o autorizzazione, invece, sarà necessario indicarne gli estremi e la competente autorità di vigilanza.

Obblighi informativi specifici

Per quanto riguarda gli obblighi informativi specifici, invece, lo stesso decreto richiede che all’utente vengano fornite informazioni, ad esempio, in ordine al modo in cui il contratto concluso sarà archiviato e le relative modalità di accesso, ai mezzi e alle modalità di correzione di eventuali errori di inserimento dei dati prima di inoltrare l’ordine, alle lingue a disposizione per concludere il contratto, alla risoluzione delle controversie che possono scaturire dall’acquisto on-line, ai metodi di pagamento di cui può servirsi l’utente in fase di acquisto.

Tutte le informazioni sopra elencate devono essere costantemente aggiornate dal gestore del sito e-commerce e devono essere di facile accesso per l’utente.

L’incremento dell’utilizzo degli strumenti tecnologici per lo svolgimento delle prestazioni lavorative già da tempo ha dato luogo ad un acceso dibattito tra le parti in gioco nella ricerca del punto di equilibrio tra i diversi interessi coinvolti.

Da un lato, infatti, troviamo l’esigenza del datore di lavoro di controllare l’attività lavorativa prestata dal proprio dipendente, a cui si aggiunge la necessità di tutelare i dati e le informazioni aziendali; dall’altro, bisogna tenere in considerazione il diritto del lavoratore di difendere la propria privacy e garantire la libertà e dignità dello stesso in conformità con quanto previsto dallo Statuto dei Lavoratori (Legge 20.05.1970, n. 300).

 La ricerca di tale punto di equilibrio si è fatta ancora più spasmodica nell’emergenza sanitaria avuta inizio poco più di un anno fa.

Il controllo del lavoro “a distanza”

Come fare dunque a controllare la prestazione lavorativa del lavoratore a distanza e a tutelare, sempre a distanza, i dati aziendali e preservarne la sicurezza? È possibile utilizzare dispositivi idonei a controllare a distanza la prestazione del lavoratore?

Ci si riferisce in particolare a quei software in grado di verificare la presenza o meno del lavoratore al pc attraverso un “semaforo” verde, giallo o rosso. Oppure a quei software in grado di trasmettere al datore di lavoro un report periodico su ciò che fa il dipendente, attraverso la registrazione, ad esempio, degli accessi alle pagine web, del tempo trascorso sui social network, dei movimenti del mouse e della digitazione sulla tastiera. Esistono poi dispostivi indossabili o installabili su smartphone attraverso anche delle app di geolocalizzazione del dipendente. Ed infine, programmi capaci di verificare attraverso addirittura la webcam la presenza o meno del lavoratore al pc.

Va detto subito che tali software, per citare i più famosi Time Doctor, Teramind, Productivity Score, dilagano oltreoceano, nella maggior parte dei casi, in spregio a qualsiasi forma di tutela della privacy del lavoratore.  E in Italia?

Il Consiglio di Stato ha affermato molto chiaramente che per le piattaforme on line e, in generale, per i fornitori di servizi digitali non è sufficiente conformarsi alle norme sulla privacy, ma devono essere altresì garantiti tutta una serie di diritti previsti a tutela dei consumatori.

Le norme sulla tutela dei consumatori non riguardano infatti solo le forniture di beni “fisici” o i servizi dati a pagamento, bensì anche i servizi digitali offerti a titolo gratuito, qualora “in cambio” vengano richiesti dati personali degli utenti.

È stato inoltre chiarito che, in caso di violazioni, le sanzioni pecuniarie previste dalle norme sulla protezione dei dati e da quelle per la tutela dei consumatori sono cumulabili, non alternative.

A cosa devono stare quindi attenti gli imprenditori che offrono servizi digitali, per evitare di essere sanzionati, come è successo a Facebook?

Il caso Facebook

Il Consiglio di Stato ha confermato la sanzione che ha colpito Facebook per la pratica commerciale ingannevole consistente nell’omessa informazione al consumatore sulla raccolta e l’utilizzo dei dati per scopi commerciali (sentt. nn. 2630 e 2631 del 29 marzo 2021).

Questa sanzione non veniva dal Garante privacy, come ci si potrebbe aspettare, bensì dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che è competente a decidere sulle pratiche commerciali scorrette delle imprese nei confronti dei consumatori. La stessa sanzione era stata confermata dal TAR del Lazio, insieme a quella relativa alla pratica aggressiva consistente nel trasferimento di dati a soggetti terzi, senza un effettivo e libero consenso dell’utente. Su questo punto il Consiglio di Stato ha sostenuto che la pratica commerciale non fosse scorretta, perché in realtà all’utente era consentita la scelta se trasferire o meno i propri dati ad altre piattaforme e service provider.

Invece, il punto fondamentale che è stato riaffermato dal Consiglio di Stato, confermando la sanzione per la pratica ingannevole, è che tutti gli utenti dei social network devono essere tutelati, oltre che ai sensi del GDPR e del Codice Privacy, anche in base alla normativa sui diritti dei consumatori.

Il rispetto delle norme sul trattamento dei dati personali non basta!

Facebook ha provato a sostenere che, siccome i dati personali sono beni extra commercium, è possibile affermare che il servizio digitale in questione è offerto gratuitamente, senza corrispettivo, e che per questo non si dovrebbe applicare la disciplina consumeristica. Facebook ha sostenuto altresì che le norme a tutela dei consumatori sarebbero comunque “assorbite” da quelle relative alla privacy.

La prima questione è una di quelle che ha riempito negli ultimi anni i discorsi di centinaia di studiosi e politici: esiste la proprietà sui dati personali? L’interessato può farne “uso e abuso”, fino al punto di venderli dietro compenso o di utilizzarli come merce di scambio?

A prescindere dalla qualificazione da dare ai dati personali, tuttavia, è evidente che ormai, di fatto, spopolano modelli di business che si basano proprio sull’utilizzo e lo sfruttamento economico dei dati, inclusi quelli personali.

Ecco che allora si arriva alla seconda questione, alla quale il Consiglio di Stato ha risposto confermando che la tutela che deriva dal GDPR per i dati personali non esclude quella prevista dalle norme sui diritti dei consumatori.

Bentrovati. Come promesso, torniamo a parlare della possibilità per il datore di lavoro di imporre la vaccinazione ai propri dipendenti, e dell’eventuale legittimità del licenziamento in caso di rifiuto.

Come ricorderete, la questione è molto dibattuta e sul punto si registrano due tesi:

  • la prima, secondo cui il datore di lavoro può imporre il vaccino ai propri lavoratori e in caso di rifiuto licenziarli per giusta causa. Di questa vi abbiamo parlato qui;
  • la seconda, per cui il datore di lavoro non può imporre il vaccino ai propri dipendenti e conseguentemente il licenziamento è illegittimo.

Ed è proprio di questa seconda tesi che vi vogliamo parlare oggi.

Quadro normativo di riferimento.

Image result for quadro normativo

Prima di addentrarci nella questione, rivediamo assieme il quadro normativo di riferimento.

Art. 32 Costituzione, comma 2: nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”;

– Art. 2087 c.c.:L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;

Art. 279 Testo Unico in materia di sicurezza (D.Lgs. 81/08), comma 2:il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

La seconda tesi: no imposizione del vaccino, no licenziamento

Image result for vaccino e licenziamento

Questa tesi presenta diversi argomenti a favore. In particolare:

L’articolo 2087 c.c.

Tale norma non può essere considerata la disposizione di legge di cui all’art. 32 Cost. che obbliga un soggetto a sottoporsi alla vaccinazione, dovendo tale norma consistere in una normazione ad hoc, specificamente diretta ad imporre la vaccinazione anti Covid-19.

L’art. 2087 c.c. impone al datore di conformarsi al criterio della “massima sicurezza possibile”, ma il rispetto di tale criterio è pur sempre ancorato a dati scientifici dedotti dall’”esperienza e la tecnica”. Al momento si conosce poco sul vaccino ed i suoi effetti e gli scienziati si dividono anche sui mezzi di propagazione del virus. Dunque, mancherebbero quei dati di acquisita “esperienza e tecnica”, che potrebbero imporre al datore l’adozione di tale misura. Così come il lavoratore potrebbe addurre, se non il rispetto della riservatezza, particolari condizioni personali che possono sconsigliare di sottoporsi alla vaccinazione.

L’art. 279 TU

L’art. 279 TU impone la vaccinazione a protezione dello stesso lavoratore esposto ad un rischio che comunque promana dall’ambiente lavorativo. Tale norma costituisce la migliore conferma del fatto che solo con una esplicita previsione legislativa si può superare il divieto previsto dall’art. 32 Cost. con il corollario che, trattandosi di norma di stretta interpretazione, non se ne possono allargare le maglie estendendola a situazioni diverse e non previste.

Conclusioni della seconda tesi.

La questione, oltre ad essere più attuale che mai, risulta anche molto dibattuta. Per tali ragioni, vogliamo con questo nostro contributo non solo analizzare tutte le tesi avanzate sul tema, ma anche fornirvi il nostro parere, indicandovi alcune indicazioni pratiche.

Sul punto, infatti, vi segnaliamo la presenza di due diverse tesi:

  • la prima, secondo cui il datore di lavoro può imporre il vaccino ai propri lavoratori e in caso di rifiuto licenziarli per giusta causa;
  • la seconda, per cui il datore di lavoro non può imporre il vaccino ai propri dipendenti e conseguentemente il licenziamento è illegittimo.

Posto che la tematica è tutt’altro che semplice, vi proponiamo di seguirci in un percorso di tre appuntamenti così strutturato:

1. oggi parleremo della prima tesi, ossia quella favorevole all’imposizione del vaccino e della conseguente legittimità del licenziamento;

2. giovedì tratteremo invece la seconda tesi, ossia quella contraria all’imposizione del vaccino e al licenziamento da parte del datore di lavoro;

3. Infine, vi forniremo le nostre considerazioni pratiche, mediate un video, pubblicato nei nostri canali social (Facebook, Linkedin, Youtube).

Pronti? Partiamo!

Quadro normativo di riferimento

Image result for quadro normativo

Prima di addentrarci su quali sono gli elementi a favore dell’una o dell’altra tesi, è necessario individuare il quadro normativo di riferimento. Nello specifico, le norme che vengono in rilevo sono:

Art. 32 Costituzione, comma 2: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”;

Art. 2087 c.c.: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;

Art. 279 Testo Unico in materia di sicurezza (D.Lgs. 81/08), comma 2: “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

Analizziamo, quindi, il primo filone di pensiero.

La prima tesi: sì al vaccino e sì al licenziamento

Image result for vaccino e licenziamento

Nello specifico, coloro che ritengono che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione e conseguentemente licenziare il lavoratore in caso di rifiuto, fondano la propria tesi sui seguenti argomenti:

  1. Il contratto di lavoro. Pur in assenza di una legge che rende obbligatoria la vaccinazione anti Covid-19, il datore di lavoro potrebbe comunque imporlo per effetto del contratto di lavoro. Infatti, sebbene l’art. 32 Cost. preveda una riserva di legge, secondo il Prof. Ichino Pietro[1], l’autonomia negoziale privata può comunque disporre dei diritti assoluti della persona. In tal senso il contratto di lavoro costituirebbe un esempio evidente della disponibilità di diritti personalissimi: con esso, infatti, il lavoratore accetta la limitazione alla propria libertà di movimento, la possibilità di indagini dell’imprenditore sulle proprie attitudini e i propri precedenti professionali, la possibilità di essere sottoposto a visita medica domiciliare dal servizio ispettivo competente, e così via. Pertanto, allo stesso modo, il lavoratore dovrebbe accettare la possibilità che, pur in assenza di una norma legislativa da cui derivi l’obbligo di una determinata vaccinazione, gli si chieda di vaccinarsi. Sotto tale aspetto ciò che accadrebbe in relazione al contratto di lavoro non sarebbe molto diverso da ciò che potrebbe accadere per esempio nel contratto di trasporto, nel quale il vettore – obbligato a garantire la massima sicurezza di tutti i viaggiatori – condizioni l’accesso all’aereo o alla carrozza ferroviaria all’esibizione di un certificato di vaccinazione.
  • L’art. 2087. Le indicazioni della scienza medica ritengono che in un luogo in cui tutti sono vaccinati si realizzano condizioni di sicurezza apprezzabilmente maggiori rispetto alla fabbrica o ufficio nel quale una parte dei dipendenti non è vaccinata. Pertanto, l’imprenditore ben potrebbe, in ottemperanza all’articolo 2087 c.c., a seguito di attenta valutazione del rischio specifico nella propria azienda, richiedere a tutti i propri dipendenti la vaccinazione, dove questa sia per essi concretamente possibile. La richiesta di effettuare la vaccinazione potrebbe essere esclusa soltanto laddove si ponesse in contrasto con norme di ordine pubblico, o fosse comunque funzionale a interessi non meritevoli di tutela nell’ordinamento. Secondo i sostenitori di tali tesi l’art. 2087 c.c. costituirebbe una “norma aperta”, dunque, l’obbligo di sicurezza si arricchirebbe di contenuti concreti, via via che la scienza e la tecnica mettono a disposizione nuove misure efficaci.
Image result for azienda tessile
  • L’art. 279 TU. Possibile opposizione di impedimenti di natura medico-sanitaria. Viene, inoltre, sottolineato dal Prof. Ichino Pietro, che l’ammissibilità della richiesta da parte del datore di lavoro della vaccinazione non comporta che la persona interessata non possa ragionevolmente opporre un impedimento di natura medico-sanitaria. Potrebbe essere addotta, per esempio, una condizione personale di immunodeficienza (per i tipi di vaccino tradizionali), o altra patologia che sconsigli la vaccinazione, oppure lo stato di gravidanza (in relazione al quale permane una controindicazione prudenziale da parte delle autorità competenti). In questo caso il datore di lavoro dovrebbe adottare, in accordo con il medico competente e con gli altri organi preposti alla sicurezza sul lavoro, misure appropriate per consentire comunque lo svolgimento della prestazione nella condizione della massima possibile sicurezza: per esempio collocando la persona interessata in una postazione isolata e non a contatto con utenti o fornitori, e ciò anche eventualmente riducendo il contenuto professionale delle mansioni. Oppure, dove la natura della prestazione lo consenta, autorizzando la persona interessata a svolgerla dal luogo di abitazione fino alla fine della pandemia. Dove nessuna di queste soluzioni sia ragionevolmente praticabile, può rendersi necessaria la sospensione della prestazione a norma dell’art. 2110 c.c., oppure se possibile, con attivazione dell’integrazione salariale, fino alla fine della pandemia.
  • Sebbene l’art. 279 TU sia riferito al rischio di infezione derivante da un “agente biologicpresente nella lavorazione”, è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio di infezione derivante da un virus altamente contagioso, del quale può essere portatrice una qualsiasi delle diverse persone contemporaneamente presenti nello spazio aziendale chiuso nel quale l’attività lavorativa è destinata a svolgersi. A questa applicazione estensiva dell’art. 279 del Testo Unico si obietta che le norme protettive in materia di sicurezza e igiene del lavoro “sono pensate per prevenire i rischi derivanti dal luogo di lavoro” e non i rischi provenienti dall’esterno. Ma, secondo la tesi qui analizzata, per superare questa obiezione è sufficiente considerare che l’imprenditore, nell’esercizio del suo potere organizzativo, è tenuto a valutare e prevenire anche rischi provenienti da agenti esterni all’azienda, come per esempio gli agenti atmosferici cui i dipendenti possono essere esposti nello svolgimento della prestazione. Inoltre, il rischio dell’infezione da Covid-19, a differenza degli altri rischi di contrarre malattie infettive, è stato qualificato dalla legge come rischio di infortunio sul lavoro, proprio in considerazione dell’elevatissima contagiosità e diffusione del virus. Dunque, la vaccinazione dovrebbe essere imposta.

Conclusioni della prima tesi: retinenza = licenziamento nei casi più gravi

Mano, Uomo, Figura, Flick, Flick Fuori

Alla luce di tutte le argomentazioni sopra esposte, chi ritiene che il datore di lavoro possa imporre la vaccinazione sostiene che la renitenza ingiustificata del dipendente è in astratto suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza, che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare.

Tuttavia, lo stesso Prof. Ichino Pietro, principale sostenitore della tesi qui analizzata, ritiene che sia sconsigliabile applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, in quanto potrebbe essere contestata la sussistenza dell’elemento psicologico, così come sconsiglia l’applicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poiché ad oggi la questione, anche a livello politico, è molto dibattuta e, in ogni caso, sino a fine marzo 2021 non è possibile il licenziamento. 

Egli, in un’ottica moderata, suggerisce che se la natura della prestazione non consente lo svolgimento da remoto, e non è disponibile una posizione di lavoro – anche di contenuto professionale inferiore – che consenta l’isolamento rispetto agli altri dipendenti, fornitori e utenti, al lavoratore potrà prospettarsi la sospensione dal lavoro fino a che la pandemia non sia cessata: sospensione che in questo caso, a differenza del caso di rifiuto giustificato da impedimento di natura medica, non comporta il diritto al trattamento economico.

Qual è il vostro pensiero in proposito? Scrivetelo nei commenti qui sotto o nei nostri social.

In attesa di leggere la vostra opinione, vi invitiamo all’appuntamento di Giovedì prossimo, con la presentazione della tesi contraria all’imposizione della vaccinazione da parte del datore di lavoro.


[1] Professore di Diritto del Lavoro presso l’Università Statale di Milano, giurista e sindacalista dedica da decenni il suo impegno di studioso e di uomo politico alle problematiche legate al mondo del lavoro e ai diritti dei lavoratori.

L’Italia è famosa nel mondo per le proprie bellezze storiche e ambientali, per l’arte culinaria e…. per la moda!

La filiera della moda in Italia rappresenta, infatti, l’8,5% del fatturato (oltre 80 miliardi) e il 12,5% dell’occupazione (quasi 500mila addetti) dell’industria manifatturiera italiana. Il saldo commerciale (relativo ai Personal Luxury Goods) ammonta a oltre 33 miliardi di euro (il secondo valore più consistente in Italia dopo la meccanica). L’industria della moda, peraltro, cresce senza sosta dal 2007, registrando un tasso di crescita medio annuo pari a più del doppio di quello riferito al resto della manifattura italiana (1,3% vs 0,6%)[1].

Come sappiamo, le imprese della filiera italiana sono perlopiù di piccole o medie dimensioni. Tuttavia, tale caratteristica, invece che rappresentare uno svantaggio, favorisce la specializzazione e l’internazionalizzazione. Infatti, la piccola dimensione delle aziende del fashion viene bilanciata da una forte interrelazione tra le medesime, che ne garantisce una elevata capacità di innovazione e quindi di competitività sui mercati internazionali.

L’interrelazione tra le imprese e il contratto di subfornitura

Sebbene l’interrelazione tra le aziende della filiera della moda italiana sia di fatto uno dei suoi punti di forza, la stessa può facilmente trasformarsi in una trappola infernale, in assenza di una regolamentazione scritta delle relazioni commerciali che ne costituiscono la base sostanziale. Ed è proprio per questo, che il contratto di subfornitura è il lusso che la moda si deve permettere.

La categoria del contratto d'impresa nel diritto italo-europeo. Il modello  della subfornitura | Salvis Juribus

Perché avere un contratto scritto di subfornitura è così importante?

Non tutti sanno che questa tipologia negoziale è regolata da una normativa ad hoc, ossia la L. 192/1998. L’art.2 di tale legge prevede espressamente la nullità dei contratti di subfornitura che non siano stati conclusi per iscritto, e/o nei quali non siano stati determinati in modo chiaro i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente, il prezzo pattuito, i termini e le modalità di consegna, di collaudo e di pagamento.

Quindi il primo buon motivo per dotarsi di un contratto scritto è quello di evitare la nullità. Anche perché, il citato articolo 2 prevede che, in caso di nullità, il subfornitore abbia comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto.

Rischio, Parola, Lettere, Boggle, Gioco

Quali rischi si corrono senza un contratto scritto?

Molti e diversi. Il più eclatante? Il rischio che il subfornitore – dopo la conclusione del rapporto negoziale – utilizzi, senza alcuna autorizzazione, bozzetti, disegni o istruzioni tecniche, consegnate dal cliente. La filiera, infatti, funziona così: il cliente trasmette il bozzetto, oppure già il cartamodello o il prototipo al committente del contratto di subfornitura, il quale, a sua volta, trasmette gli stessi a vari subfornitori per le lavorazioni di loro competenza: sviluppo delle taglie, piazzamento, taglio del tessuto, trattamenti, confezione, controllo qualità, stiro, apposizione di accessori ed etichette, fino alla spedizione.

A tutelare la proprietà intellettuale in costanza di rapporto, vi è l’art. 7 della L. 192/98, secondo cui il committente conserva la proprietà industriale di progetti e prescrizioni di carattere tecnico da lui comunicati al fornitore e sopporta i rischi ad essi relativi. Il fornitore è, a sua volta, tenuto alla riservatezza e risponde della corretta esecuzione di quanto richiesto, sopportando i relativi rischi. Ma dopo la fine del rapporto negoziale cosa può accadere?

Senza un contratto scritto e una clausola contrattuale ad hoc che vieti al subfornitore l’utilizzo, dopo la fine del rapporto negoziale, di bozzetti, disegni, istruzioni, etc., potrebbe accadere – in forma peraltro più grave – quanto avvenuto nella vicenda di cui alla sentenza del 15 febbraio 2011 n. 185 del Tribunale di Vicenza.

Tribunale di Vicenza, Sezione 2, Civile, Sentenza del 15 febbraio 2011 n. 185

La Società Da. S.p.A. – affermata ditta produttrice di articoli di abbigliamento ed ulteriori articoli per motociclismo ed altri sports – aveva concluso con Ke.Ro. s.n.c. un contratto di fornitura e di lavorazioni in conto terzi, nel quale si prevedeva che Ke.Ro. effettuasse alcune lavorazioni per conto della prima e che, su richiesta di quest’ultima, provvedesse anche alla fabbricazione completa di alcuni articoli in pelle, impegnandosi ad attenersi a specifiche tecniche di lavorazione, comunicate di volta in volta da Da., con fornitura delle attrezzature e dei materiali necessari (mazzette, fustelle, capi campione e pelli).

Cartamodello base corpino davanti GRATIS | www.modart.biz

Il contratto conteneva il divieto assoluto per il subfornitore, anche tramite interposta persona, di realizzare prodotti simili e/o effettuare lavorazioni su medesimi prodotti, su ordinazione di terzi, per il  settore su indicato, anche dopo il termine naturale del contratto. Tale disposizione è stata ovviamente disattesa. Ke.Ro, per il tramite della Bl.Li, sua collegata, aveva lanciato una serie di articoli che imitavano in tutto o in parte i corrispondenti articoli della Da., della quale aveva utilizzato i cartamodelli.

Morale della storia? Le società Ke.Ro e Bl.Li venivano accusate e condannate del reato di concorrenza sleale e grazie al contratto scritto, le medesime sono state anche condannate al risarcimento dei danni patiti dalla committente Da. S.p.A.

Alcuni importanti vantaggi

Vi state chiedendo se ci sono altri vantaggi in ordine alla conclusione di un contratto di subfornitura scritto? Molti altri. Per esempio, è possibile introdurre una clausola penale per il caso d’inadempimento o di ritardo nell’adempimento da parte del subfornitore. Il vantaggio di questa previsione è che la clausola penale esonera il committente dalla prova del danno. Ciò significa che il medesimo, in caso di inadempimento, può pretendere la penale indipendentemente dalla verificazione o meno di una lesione effettiva.

Inoltre, mediante la stipulazione di un contratto scritto, il committente può imporre degli obblighi precisi al subfornitore anche dopo la conclusione del contratto. Come? Introducendo, per esempio, una clausola di riservatezza, obbligando così il subfornitore, sia durante la vigenza del contratto che per «x» anni successivi alla sua cessazione, a non divulgare o ad utilizzare per scopi estranei al medesimo le informazioni e le notizie di qualsiasi natura di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto commerciale.

Infine, il contratto scritto risulta particolarmente utile per determinare in modo chiaro e preciso le modalità di effettuazione degli audit e dei controlli qualità.

Spesso, infatti, i subfornitori sono restii a collaborare per rendere queste attività di controllo efficaci. Il contratto di subfornitura può diventare il documento ove prevedere degli obblighi specifici sia in tema di documenti da consegnare, sia circa le modalità di svolgimento dei controlli stessi.

Inoltre, nel medesimo possono essere predeterminate le modalità con cui vengono effettuati i controlli qualità, che idealmente dovrebbero inerire tutte le fasi della produzione. Per esempio, potrebbe essere particolarmente efficace, prevedere che, in caso di vizi, il committente possa valutare se affidare le lavorazioni/servizi da eseguire al subfornitore responsabile delle non conformità o se affidare la relativa esecuzione a terzi oppure se procedere direttamente alla loro esecuzione, specificando che il subfornitore dovrà in ogni caso sostenere i costi dei tali attività. Parimenti utile potrebbe essere la definizione chiara delle modalità con cui il subfornitore accetta le citate non conformità contestate. Prevedere per esempio dei meccanismi di silenzio assenso può ridurre notevolmente i tempi per la correzione dei vizi o il rifacimento dei capi.

Ma volete sapere il vantaggio più grande? Il risparmio di notevoli risorse economiche

Clessidra, Soldi, Tempo, Investimenti

Grazie all’introduzione, nei rapporti con i subfornitori, di un contratto scritto, infatti, è possibile ridurre, se non del tutto eliminare, le perdite di tempo nelle fasi di esecuzione del contratto; migliorare la collaborazione di tutte le imprese parte della filiera, favorendo comportamenti proattivi, quali quello di chiedere autonomamente istruzioni al committente, qualora assenti; efficientare gli audit, che non vengono più percepiti come intrusioni; ed infine ridurre notevolmente le costose controversie.

Concludendo, pare evidente come tutte le società – piccole o grandi che siano – che lavorino nella filiera della moda, e soprattutto in quella del lusso, dovrebbero regolare i loro rapporti, ovvero quelli con i subfornitori, mediante la conclusione di un contratto scritto, mettendosi così al riparo da rischi e perdite tutt’altro che secondari. D’altronde “un contratto verbale, non vale la carta su cui dovrebbe essere scritto” (Goldwyn).


[1] I dati qui riportati sono tratti dal report “L’economia italiana, dalla crisi alla ricostruzione. Settore Moda e Covid-19, Scenario, impatti, prospettive” elaborato nel Luglio 2020 da EY e Luiss Business School